Oggi parliamo di una donna che amo particolarmente: Shirin Neshat.
Nata a Qazvin, in Iran, è un’artista a 360 gradi. Infatti, oltre alla fotografia, Shirin ha utilizzato altri media per esprimere il furore incandescente che le ribolle dentro.
L’artista ha studiato in America e non torna più nel suo paese fino alla fine della Rivoluzione iraniana. L’impatto è forte, poiché il mondo che lei conosceva è completamente mutato.
Nella sua prima serie di lavori, Woman of Allah, l’artista si pone di fronte all’obiettivo della sua macchina fotografica e si autoritrae, interpretando le immagini raccolte sulle riviste dedicate alle donne in lotta, con il volto nascosto dal velo e un mitra tra le mani.
Sulle poche parti del corpo lasciate nude e visibili, riporta frasi e citazioni poetiche, come a voler ricoprire nuovamente quei lembi con parole di speranza. Attraverso un’elegante scrittura, l’artista innesca una protesta rivoluzionaria e fa emergere una cruda realtà che ha colpito – e colpisce ancora -le donne iraniane: donne sottomesse al potere maschile, donne che cercano una via di fuga, donne costrette a nascondere i corpi per l’istinto incontrollabile dell’uomo-padrone.
La condizione femminile è ben analizzata anche nel suo più recente film, che consiglio vivamente, non solo per la fotografia eccezionale, ma anche per chi crede che l’arte possa essere un mezzo di riflessione e di libertà: Donne senza uomini, tratto dall’omonimo libro di Shahrnush Parsipur.
Neshat analizza la condizione femminile da quattro punti di vista differenti, sia socialmente che anagraficamente. Nell’estate del 1953, il colpo di stato appoggiato dalle “grandi pacificatrici” (America e Inghilterra) porta alla deposizione del Primo Ministro Mohammad Mossadeq. Anni torbidi per Teheran, che viene sconvolta politicamente e socialmente. In questo contesto storico si intrecciano le storie di quattro donne, che svelano problemi personali e collettivi.
Fakhri, donna di mezza età scontenta del matrimonio con un generale, trova il coraggio di abbandonarlo e si rifugia in un giardino incantato, che diventa l’Arcadia per queste donne, un luogo ameno dove trovare la libertà.
Zarin, giovane prostituta che vive senza un volto maschile in cui riconoscersi, cerca di rigenerarsi attraverso l’acqua.
Munis vuole vivere per la politica, ma essendo donna è costretta al matrimonio: sceglie quindi una strada alternativa per liberare la sua anima.
Faezeh, al contrario, ricerca un matrimonio tradizionale, l’amore e la stabilità coniugale.
Il viaggio che la Nishat ci fa compiere è un’immersione nella realtà iraniana, ma ci permette anche voli nell’immaginario e nella fantasia. L’arte è un potente mezzo di riflessione: ci aiuta a scavare nel profondo del nostro io, ad andare oltre ciò che vediamo, permettendoci per qualche minuto di distanziarci dalla realtà e analizzarla dall’esterno.
Le donne ritratte nelle sue foto sono armate perché la società le ha costrette a esserlo. Così come la società occidentale è riuscita a creare un altro nemico immaginario da combattere: il mondo orientale, ormai visto come un covo di kamikaze. Dopo il fatidico 11 settembre, molte donne che prima non portavano il velo, per orgoglio nazionale e senso identitario, hanno ricominciato a indossarlo.
Non è importante discutere sui massimi sistemi, su ciò che è giusto o sbagliato. Ciò che conta — e su cui le foto di questa straordinaria artista ci spingono a riflettere — è la creazione di barriere che, sempre più spesso, innalziamo nei confronti dell’altro.
L’artista ci fa capire che non si deve vivere con la paura di essere donna. Non è giusto che uomini — chiunque siano — si arroghino il diritto di molestare o abusare di una donna, non solo fisicamente ma anche psicologicamente. Il mio non vuole essere un discorso femminista, ma una ricerca di libertà per le donne e per i popoli. La sopraffazione, negli ultimi anni, è dilagata: vince il più forte, e l’unica legge dominante sembra essere quella del denaro, del potere e della ricchezza.
È importante trovare uno spiraglio di libertà, come Shirin Neshat ben esprime nelle sue opere: uno scatto che non è solo una fotografia, ma un attimo di libertà per il pensiero.
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