“Jumanji, un gioco che sa trasportar chi questo mondo vuol lasciar.
Tira i dadi per muovere la pedina, i numeri doppi tirano due volte e il primo che arriva alla fine vince”.

Per chi, come me, è cresciuto negli anni Novanta, avrà sicuramente visto (e amato) il film Jumanji, pellicola del 1995 diretta da Joe Johnston e interpretata dal mitico Robin Williams.
Film dalla sceneggiatura avvincente e mai banale, è tratto dall’omonimo libro del 1981 di Chris Van Allsburg, raffinato scrittore e illustratore di libri per ragazzi, il quale annovera nel suo curriculum storie indimenticabili come The Polar Express, Il fico più dolce e Zathura (sequel di Jumanji).
Le regole del gioco sono semplici ma gli effetti imprevedibili. Non a caso lo scrittore ha intitolato il libro Jumanji, che in lingua zulu significa “molti effetti”, alludendo alle conseguenze che ogni lancio di dadi ha sui quattro protagonisti e sugli abitanti della città.
Nella versione cinematografica – la cui direzione della fotografia è affidata all’abile mano di Thomas Edward Ackerman – Alan Parrish è un figlio modello, vittima di bullismo, che soffre tremendamente per la lontananza emotiva dei genitori, in particolare del padre.


Alan litiga con il padre e prepara la valigia per scappare di casa, ma un suono di tamburi proveniente da uno strano gioco, trovato nel pomeriggio in un cantiere adiacente alla fabbrica del padre, lo ferma.
I tamburi vengono uditi anche dalla sua compagna di classe: i due ragazzi, incuriositi, aprono la scatola in legno e iniziano a giocare, un po’ annoiati e un po’ impauriti. Sul tabellone compare la scritta: “Vola di notte. Meglio scappare. Con queste creature non c’è da scherzare.” Si odono strani rumori, ma non succede nulla, fino a quando Alan non tira nuovamente i dadi: “Nella giungla dovrai stare finché un 5 o un 8 non compare.”


Alan inizia a smaterializzarsi e, mentre urla “Sarah!! Tira i dadi, Sarah!! Saraahh!”, dal caminetto compaiono dei pipistrelli che spaventano la sventurata compagna di classe, che scappa terrorizzata.
Alan scompare! Con un salto temporale di quasi trent’anni, lo spettatore si ritrova nuovamente nella casa della famiglia Parrish, che ora viene acquistata da Nora Shepherd, trasferitasi con i due nipoti Judy e Peter, rimasti orfani da poco tempo. Il resto si può ben immaginare: i due fratelli sentono il rumore dei tamburi, scovano il gioco e inizia la loro avventura in Jumanji, che altro non è che la continuazione della partita iniziata molti anni prima da Sarah e Alan.


Jumanji è il gioco di chi vuole fuggire da una vita di solitudine, perché obbliga i giocatori ad affrontare caparbiamente “ogni sconvolgente conseguenza del gioco” affidandosi ai propri compagni. Solo così Sarah, Alan, Judy e Peter raggiungono la fine del gioco.
Se il film è avvincente ed emozionante, le illustrazioni di Van Allsburg sono assolutamente uniche: caratterizzate da un tratto morbido ma ben definito, tanto da tratteggiare scene realistiche con una prospettiva fortemente scorciata. L’accentuato linearismo si traduce in una caratterizzazione attenta degli ambienti e dei personaggi, con un’attenzione al dettaglio quasi da miniaturista. Le immagini in bianco e nero, ricche di particolari epifanici, trasportano il lettore in un mondo al limite tra il reale e il fantastico, dove ad essere indagata è l’interiorità dell’uomo, con le sue paure, le sue fragilità e i suoi desideri.
Van Allsburg giunge all’arte dell’illustrazione dopo essersi dedicato per molti anni alla scultura, ed è solo grazie alla moglie – che alla fine degli anni ’70 mostra i suoi disegni a un editore di libri per ragazzi – che pubblica il suo primo lavoro, The Garden of Abdul Gasazi, seguito subito dopo da Jumanji.
Nel 2013 Jumanji è stato pubblicato per la prima volta in Italia da Logos Edizioni, con la traduzione di Francesca Del Moro, mentre nel 2017 è prevista l’uscita del reboot del film.
Testi © Claudia Stritof

Leave A Reply