Arte – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Mon, 15 Mar 2021 14:45:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Fondazione Maeght: “Ceci n’est pas un musée!” https://www.cultmag.it/2021/03/15/fondazione-maeght-ceci-nest-pas-un-musee/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/03/15/fondazione-maeght-ceci-nest-pas-un-musee/#respond Mon, 15 Mar 2021 13:56:35 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6959 La Costa Azzurra non è sinonimo solo di mare e divertimento, ma basta dirigersi verso l’interno per visitare paesini incastonati nella folta vegetazione mediterranea che domina le Alpi Marittime.

Saint Paul de Vence, situato a 25 km da Nizza, è un borghetto cinto da mura che, durante il corso del Novecento, è diventato meta prediletta di artisti come Paul Signac, Amedeo ModiglianiPablo Picasso, Henri Matisse e molti altri.

Proprio in questo paese, nel 1920, Paul Roux, grazie all’aiuto della madre, apre un piccolo bar- caffetteria “Chez Robinson”, che qualche anno dopo, insieme all’inseparabile moglie Titina, trasforma in locanda con tre camere da letto e chiama La Colombe d ́Or.

Raux, amante dell’arte e della culturale, intrattiene lunghe conversazioni con i suoi ospiti e organizza serate appositamente dedicante, che per ringraziarlo dell’accoglienza – come era uso all’epoca – gli donando opere d’arte con cui inizia ad adornare le pareti della locanda.

Sulle orme del padre e della madre, il figlio Francis, prosegue l’attività: nel 1952, Fernand Léger installa una sua grande opera sulla terrazza; negli anni Cinquanta è la volta di Mirò, Braque, Chagall… a cui seguirono Calder, César e molti altri artisti, fino all’ultimo intervento site specific avvenuto qualche anno fa.

Prima di visitare Saint Paul de Vence non conoscevo l’affascinante storia de “La Colombe d’Or”, ma, durante l’estate scorsa, andammo lì per visitare la Fondazione Maeght.

Un luogo la cui storia inizia dall’amore che lega gli editori e mercanti d’arte, Marguerite e Aimé Maeght e la loro genuina passione verso l’arte contemporanea; infatti non nasce come uno spazio museale, ma è il frutto di un progetto molto più ampio, una vera e propria fucina d’arte, in cui, nel corso di molti anni, avrebbero lavorato artisti diversi tra loro, ma uniti dall’idea di dare il loro apporto a un’utopia, divenuta realtà.

Marguerite e Aimé commissionano la progettazione dell’edificio all’architetto Josep Lluís Sert, nativo di Barcellona e formatosi sotto l’influenza di Antoni Gaudì, dalla Bauhaus e di Le Corbusier.

Sert con la sua architettura ha rispettato la volontà dei committenti, inserendo l’edificio nell’ambiente circostante e facendolo dialogare armoniosamente con esso, grazie a una struttura caratterizzata da grande chiarezza formale e funzionale.

Nasce così un percorso che si snoda tra le sale interne della Fondazione e i cortili esterni; passando attraverso terrazze, bacini d’acqua e il labirinto.

Appena varcata la biglietteria, ad attenderci è il giardino delle sculture progettato dal paesaggista Henri Fisch, dove sono conservate le ceramiche di Léger; La Fontaine di Pol Bury del 1978; Les Reinforts, stabile di Alexander Calder del 1963; la scultura del vento di Takis, le sculture di Jean Arp e quelle di Eduardo Chillida, Erik Dietman, Barbara Hepworth, Joan Miró e molti altri artisti.

Entrati all’interno dell’edificio, ad accoglierci è un primo nucleo dedicato alle esposizioni temporanee, ma, fin da subito si vedono particolari interessanti, incontrando le vetrate di Jean Miró oppure la grande vasca musiva dove “nuotano” Les Poissons di George Braque.

La Fondazione è una continua sorpresa e a ben guardare, altre opere si scorgono sulla muratura e sul perimetro esterno degli edifici: il mosaico del muro di cinta è realizzato da Pierre Tal-CoatMarc Chagall firma il mosaico les Amoureux all’esterno della biblioteca (edificio che custodisce circa 30.000 volumi di arte moderna e contemporanea!); le vetrate Oiseau mauve et blanc di Georges Braque e La Croix et le Rosaire di Raoul Ubac, adornano la cappella di San Bernardo, che ospita anche un crocifisso di fattura spagnola del XII secolo e una Via Crucis di Ubac.

Per chi è amante di Alberto Giacometti, rimarrà piacevolmente sorpreso dalla corte da lui pensata e a lui dedicata, in cui sono conservate, solo per citare alcune opere, L’homme qui marche IFemme debout e Femme de Venise; ma non è tutto, perché volgendo lo sguardo verso l’alto, all’epoca della visita, notammo anche una panchina verde, con su scritto: “Per quelli che volano”, opera dell’artista Luigi Mainolfi e dedicata alla moglie del collezionista Giuliano Gori, ideatori di un altro incantevole luogo: la Fattoria di Celle in Toscana.

Non in ultimo è da citare il Labirinto di Miró, un’opera monumentale dove sono conservate sculture e ceramiche dell’artista catalano e realizzato in collaborazione con l’amico ceramista Josep Llorens Artigas.

La Fondazione Maeght è stata inaugurata il 28 luglio 1964 dal visionario André Malraux, all’epoca Ministro di Stato per gli affari culturali, sotto la presidenza di Charles de Gaulle.

LES GIACOMETTI: UNE FAMILLE DE CRÉATEURS. GIOVANNI, AUGUSTO, ALBERTO ET BRUNO

3 luglio - 14 novembre 2021, Fondazione Maeght

Alberto Giacometti, Le couple (Homme et Femme), 1926. Bronze, 59.5x17,5 cm. ©Succession Alberto Giacometti (Fondation Giacometti Paris + Adage Paris), 2021.

«Vous avez tenté de faire quelque chose qui n’est en aucune façon un palais, en aucune façon un lieu de décor et, disons-le tout de suite, parce que le malentendu va croître et embellir, en aucune façon un musée. Ceci n’est pas un musée!», disse il politico e scrittore, continuando – «lorsque nous regardions tout à l’heure le morceau de jardin où sont les Miró, il se passait la même chose que lorsque nous regardions la salle où étaient les Chagall […] Ces petites cornes que Miró réinvente avec leur incroyable puissance onirique sont en train de créer dans votre jardin, avec la nature au sens des arbres, un rapport qui n’a jamais été créé».

Finisce qui la nostra visita in questo incantevole luogo.

Arte e natura: un binomio indissolubile che caratterizza la Fondazione Maeght; come già detto, luogo di incontro e di scambio culturale per i molti artisti che hanno attraversato le sue sale e che all’unisono, hanno reso questo spazio complesso, intellettualmente denso e artisticamente unico.

Personalità diverse che all’unisono, hanno reso questo spazio complesso, intellettualmente denso e artisticamente unico.

La Fondazione Maeght è privata e si autofinanzia con risorse proprie, principalmente attraverso i biglietti d’ingresso, ma è stata riconosciuta d’interesse pubblico, portando avanti una politica culturale di spessore.

Un luogo che riunisce una delle più importanti collezioni di opere d’arte del XX secolo, nato solo grazie alla lungimiranza di Marguerite e Aimé Maeght e ancor oggi valorizzato dagli eredi.

Testo a cura di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
Foto ©Beatrice Piantanida ©Francesco Sardisco
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La Grande Madre https://www.cultmag.it/2020/05/10/la-grande-dea/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/05/10/la-grande-dea/#respond Sun, 10 May 2020 11:32:05 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6675 La Grande Madre è frutto di una riflessione intorno al concetto di donna intesa come entità creatrice e trasformatrice che dall’antichità, fino a oggi è stata venerata in molte culture in quanto fonte di vita e mediatrice con il divino.

Un giorno ero in visita alla Raccolta Lercaro di Bologna, dove sono conservate molte opere di eccelsa bellezza e grande profondità concettuale.

In questa giornata, dedicata alla festa della mamma, ho deciso di ripercorrere con la mente una visita svolta ormai molto tempo fa e fare il mio augurio attraverso l’arte.

Nellasala vi erano due opere di Eugenio Pellini La madre del 1897 e L’idolo del 1906, a cui si aggiunge una bellissima scultura di Jean Michel Folon, Femme-oiseau del 2002, collocata nella sala dedicata ai reperti fossili in virtù del suo materiale: pietra fossile del Marocco.

Da quel momento, osservando attentamente le tre figure di donna, ho iniziato a riflettere sull’aspetto spirituale che le tre opere sembravano esprimere, anche attraverso i loro titoli.

Eugenio Pellini, La Madre, 1897, bronzo. Courtesy Raccolta Lercaro, Bologna. ©Fotografia di Claudia Stritof

Inizialmente a colpirmi è stata la cromia dell’opera di Folon, seguita subito dopo dalla consapevolezza che le tre sculture rappresentassero tre diverse visioni di donna colte con una posizione delle braccia, atte a stringere il bambino nelle sculture di Pellini, e il grembo nella scultura di Folon.

La distanza concettuale e cronologica trasmessami dalle tre opere è stata colmata quando ho visto nelle pagine della biografia di Alberto Giacometti, la meravigliose scultura Femme qui marche.

È stato in questo preciso momento che ho notato come le sculture disposte in sequenza facessero emergere un ragionamento sulla forma femminile e sulla sua progressiva astrazione.

A questo punto le mie riflessioni sono sorte spontanee e tutte convergevano sull’idea de La Grande Dea, divinità primordiale che incarna il ciclo della vita.

Giunta a casa, iniziai a scrivere questo testo, accostando la riflessione, alla lettura di alcuni testi critico-letterari da cui estrapolai citazioni per potenziare il significato concettuale della mia riflessione.

Si sono dimostrate fondamentali per legare e rendere esplicito il significato della sequenza dando così una lettura nuova all’insieme e anche alle singole opere.

Apuleio ne L’Asino d’oro, racconto come la Dea, rivolgendosi allo sventurato Lucio, disse: «io sono colei che è la madre naturale di tutte le cose, signora e reggitrice di tutti gli elementi, la progenie iniziale dei mondi, il culmine dei poteri divini, regina di tutti coloro che popolano gli inferi […] Il mio no­me, la mia divinità sono adorati ovunque nel mondo, in di­versi modi, con svariate usanze e con molti epiteti».

Eugenio Pellini, L’Idolo, 1906, bronzo. Courtesy Raccolta Lercaro, Bologna. ©Fotografia Claudia Stritof

La Dea rappresenta la fertilità, intesa nella duplice accezione, materna e sensuale: nuda e in piedi simboleggia la sensualità, mentre seduta è simbolo di protezione e nutrimento.

«Come madre e signora della terra, la Grande Madre è il “trono in sé” […] su cui il bambino, nato da questo grembo siede in torno. Essere preso in grembo, così come essere portato al petto è un modo simbolico per esprimere l’adozione del bambino, e dell’uomo, da parte del femminile», ed è così che essa è raffigurata da Pellini nelle sculture La Madre e L’Idolo.

A sottolineare questa varietà è proprio Mefistofele, che nel primo atto della seconda parte del testo goethiano, racconta al Faust di un luogo in cui «vi sono auguste dive il cui regno è la solitudine; intorno ad esse non v’è né spazio né tempo, e non si può parlare di esse senza sentirsi turbati. Sono le Madri […] Le une sedute, altre in piedi e vaganti così come si trovano. Forme, continuo cambiamento di forma, eterna presenza del senso eterno! Immagini di tutte le creature…».

Il testo rende esplicito il polimorfismo della Grande Dea, dalle forme umane ma anche astratte, così come appare nelle sculture ieratiche di Giacometti sopracitata, divinità acefale la cui femminilità è visibile solo grazie all’enfatizzazione posta sugli organi sessuali. 

Jean Michel Folon, Femme-oiseau, 2002, pietra fossile del Marocco. Raccolta Lercaro, Bologna. ©Fotografia Claudia Stritof

La vulva così come «i seni minuscoli, appena accennati rafforzano la tendenza, inconscia, a trascendere la dimensione corporea elementare. Diviene particolarmente evidente il momento dell’astrazione, attraverso il quale si accentua il carattere significativo, simbolico, trasformatore del femminile […] Una dea raffigurata in tal modo non rappresenta solo una dea della fertilità, ma anche una dea della morte e dei morti. Essa è la madre terra, la madre della vita, che domina su tutto ciò che è scaturito e nato da lei e che ritorna a lei».

Ed ecco che la scultura Femme-oiseau di Folon chiude il cerchio: una dea maestosa con le braccia incrociate sotto il petto a mettere in evidenza i piccoli seni, la quale, vista frontalmente è una statua votiva di dea primigenia, come quelle che un tempo venivano custodite all’interno delle celle degli antichi templi, ma se vista lateralmente manifesta il suo aspetto mostruoso con la testa di uccello con piccoli occhi neri incavati e il becco rivolto al cielo. La Dea così rappresentata nell’antichità era la mediatrice tra cielo e terra, colei che trasportava le anime dei defunti e le proteggeva vegliando in solitudine negli inferi.

Siamo giunti alla fine di un percorso lungo e non poco travagliato ma che ha portato sicuramente ad una nuova riflessione intorno al concetto di madre.

Jean Michel Folon, Femme-oiseau, 2002, particolare. Raccolta Lercaro, Bologna. ©Fotografia Claudia Stritof

Se all’inizio mi era sembrato impossibile legare concettualmente e formalmente opere così diverse, oggi La Grande Dea ha assunto la sua forma definitiva, trovando nel mutamento della forma la chiave di volta per comprendere secoli di letture iconografiche sul tema della divinità e della Madre. Attraverso l’arte, il potere visionario senza tempo di artisti, che attraverso il simbolo della Madre, hanno manifestato il loro legame atavico che unisce l’uomo al divino.

Testi di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati
BIBLIOGRAFIA:
- Johann Wolfgang Goethe, Faust, liberliber [Progetto Manunzio], 2005.
- Robert Graves, La Dea Bianca. Grammatica storica del mito poetico, Apelphi Edizioni, 2009.
- Erich Neumann, La Grande Dea. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, Astrolabio Ubaldini editore, 1981.
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Il primo viaggio di Topolino https://www.cultmag.it/2017/01/13/il-primo-viaggio-di-topolino/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/01/13/il-primo-viaggio-di-topolino/#respond Fri, 13 Jan 2017 06:25:14 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4434 Da piccola ogni settimana con mia madre andavamo in edicola per comprare Topolino e mi divertivo un sacco a leggere le sue avventure, così come mi divertivo a montare i mille giochini che di solito uscivano con il fumetto.

Allora non sapevo che un giorno mi sarei interessata alla sua storia e non sapevo neanche che mi sarei chiesta quando questo fosse venuto alla luce e chi fosse il suo strano inventore. Solo dopo ho scoperto che quel qualcuno era Walt Disney e il debutto ufficiale di Topolino avviene nel 1928 con il cortometraggio Steamboat Willie, il primo dei molti viaggi che Mickey Mouse compie per traghettare i giovani lettori in storie sempre nuove e appassionanti.

All’incirca due anni dopo dal primo cortometraggio, Topolino conquista anche la carta stampata, precisamente è il 13 gennaio 1930 quando sul New York Mirror viene pubblicata la prima striscia di fumetti di Mickey Mouse dal titolo Lost on a Desert Island, in cui Topolino sbarca su un’isola abitata da animali selvatici e cannibali.

La prima strip di Mickey Mouse pubblicata sul New York Mirror, 13 Gennaio 1930.

I primi disegni di Topolino devono alle sapienti mani di Ub Iwerks e Wim Smith che misero su carta le idee e la sceneggiatura di Walt Disney, ma ben presto i due disegnatori vennero sostituti da Floyd Gottfredson, colui che gli da l’aspetto e soprattutto il carattere buono e generoso proprio come oggi lo conosciamo.

Mickey Mouse agli albori infatti si presentava come un topolino monello e anche un pò sbruffone ed è solo in un secondo momento che diventa coraggioso, intelligente ma soprattutto generoso e ottimista.

Topolino ormai è una star! Diventa l’amico di tutti i bambini, così come gli stessi abitanti di Topolinia: Minnie, Pluto, Pippo, Minnie, zio Paperino, Clarabella, Orazio e molti altri.

Sono passati molti anni dalla sua nascita ma Topolino è sempre lì ad accompagnarci perché come disse Walt Disney: “la fantasia non potrà mai invecchiare, per la semplice ragione che rappresenta un volo verso una dimensione che giace al di là del tempo”.

“Se puoi sognarlo, puoi farlo. Ricorda sempre che questa intera avventura è partita da un topolino.”

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Lo sguardo guaritore di una frattura emotiva del cuore. https://www.cultmag.it/2016/12/16/lo-sguardo-guaritore-di-una-frattura-emotiva-del-cuore/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/12/16/lo-sguardo-guaritore-di-una-frattura-emotiva-del-cuore/#comments Fri, 16 Dec 2016 18:45:18 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4233 U’ Signuri Vi spezzau u’ cori…! Una frase detta a mia madre con spontaneità e immediatezza da una signora nella campagna gioiosana.

Una tipica donna calabrese vestita con una maglia nera di cotone, la gonna fino ai polpacci muscolosi, dalle braccia possenti e con il suo immancabile faddale [grembiule] sporco di farina e sempre ben saldo alla vita.

Era una mattina qualunque, di un non meno precisato giorno di novembre e, non so per quale motivo, questa frase mi è risuonata nella mente per tanto tempo dopo che la signora l’ha pronunciata. Probabilmente perché sono state parole dette con genuinità da chi la fede la sente ancora viva nel proprio cuore, la cui religiosità atavica si denota dalla voce gracchiante di chi ha pronunciato molti rosari, così come dai molti particolari sparsi nella  piccola casupola nel bel mezzo della campagna.

Con grande semplicità la signora dal vestito nero è riuscita a esprimere un concetto di dolore immenso in modo altamente figurativo; subito ho immaginato un cuore posto su una superficie di splendente candore con i contorni ben definiti ma ormai disgregato in molti minuscoli pezzi. Un cuore i cui frammenti sarebbe stato impossibile unire come diversamente accade con un soprammobile.

Qualche giorno dopo l’accaduto ho visto un’immagine della serie Shattered Flowers realizzata dal fotografo Jon Shireman, il quale utilizzando dell’azoto liquido ha congelato dei fiori per poi frantumarli. Margherite, iris e papaveri che, seppur disintegrati, sono ancora ben riconoscibili per la loro sagoma e per i loro colori, proprio come fossero oggetti di porcellana purissima.

Jon Shireman, Shattered Flowers. ©Jon Shireman Photography.

Il fotografo ha ribaltato la concezione stessa di ciò che riteniamo bello, infatti  quel fiore ha conservato la sua bellezza, una bellezza diversa nata dal dolore e dalla distruzione.

Questo mi ha fatto riflettere sul dolore che le persone vivono nel proprio intimo, un sentimento che è sempre difficile descrivere e spiegare perché, ognuno a suo modo, lo vive in segreto con emozioni così particolari che comunicarle nella loro integrità sarebbe impossibile.

Credo esiste una  bellezza nel dolore e la storia insegna, così come le biografie degli artisti; sappiamo bene che il dolore è motivo di riflessione e quindi motivo di ispirazione. Molte persone affermano di creare le loro opere quando accade qualcosa di particolarmente sofferente nella propria vita e solitamente le opere dei più celebri artisti non raccontano la Gioia di Vivere ma l’Urlo dell’anima.

Saturno domina la loro nascita e si sà “Saturno è il pianeta dei malinconici, e […] anche quando non è nominata, l’antica divinità incombe sinistra”.

Il dolore è importante per la vita di ognuno di noi perché insegna che la vita è altro rispetto alla quotidianità e alla routine giornaliera; in qualche modo cambia il proprio modo di vivere e di rapportarti agli altri perché l’uomo pensieroso tende a rinchiudersi nei propri pensieri e si ritrova a fare i conti con la propria interiorità.

Marie von Ebner-Eschenbach ha scritto “il dolore è il gran maestro degli uomini. Sotto il suo soffio si sviluppano le anime”, queste crescono, si temprano e si ricoprono di cicatrici che celano un dolore intenso.

Jon Shireman, Shattered Flowers. ©Jon Shireman Photography.

Giornalmente molte persone soffrono e basta passare pochi giorni in ospedale per ricordare tutto quel dolore che si è cercato di dimenticare nel tempo. L’attesa estenuante di un verdetto, l’incapacità di decidere sul da farsi, il dolore di una malattia, l’impossibilità di fare qualcosa di concreto, l’angoscia del futuro che può cambiare la tua vita in poche ore, se non minuti.

Non è detto che tutti prima o poi debbano fare i conti con le fratture emotive del cuore e con le sue conseguenze, ma purtroppo c’e chi DEVE, senza se e senza ma, affrontare la realtà.

Alcune volte cerchiamo di prepararci agli avvenimenti futuri, a quello che potrebbe accadere, ma la verità è che si arriva quasi sempre impreparati davanti al dolore.

Il dolore può essere celato alle persone che non avranno mai il tempo di fermarsi a guardare lo sguardo altrui , ma un giorno quella corazza verrà riconosciuta da un proprio simile e le sensazioni che erano state addomesticate non potranno far altro che riemerge con forza nel presente diventando lo specchio in cui ri-conoscerci.

Jon Shireman, Shattered Flowers. ©Jon Shireman Photography.

Ancora una volta l’arte ci dice qualcosa in più sulla nostra vita: nella performance The Artist is present, tenutasi al MoMA di New York nel 2010, Marina Abramovic è rimasta seduta 7 ore al giorno per tre mesi guardando negli occhi chiunque si fosse seduto davanti a lei.

L’artista chiude gli occhi, li riapre e davanti a lei un nuovo sguardo, una nuova vita, nuovi pensieri, nuovi dolori da condividere e da scrutare.

Un tempo che giornalmente dovremmo donarci per scrutare noi stessi e gli altri. Messi di fronte al nostro stesso dolore la corazza cade e le nostre paure si palesano. Sentimenti lontani, passati e repressi riemergono per donarci nuove sensazioni così come è successo alla Abramovic nel momento in cui ha riaperto gli occhi e davanti a lei c’era Ulay, suo celebre compagno d’arte e di vita.

L’incontro con Ulay si svolge con un climax lento e delicato che inizia con un primo sguardo tra i due: alla felicità del primo istante, segue uno sguardo meditativo e subito gli occhi si inumidiscono, probabilmente perché la mente ha ormai varcato la soglia del ricordo e della consapevolezza, ed è qui che il pianto emerge, seguito da un sospiro profondo e da un forte trasporto emotivo che porta l’artista a trasgredire le regole e tendere le mani verso Ulay. Lui sorride e dopo pochi istanti lei si ritrae teneramente, ma non prima di aver accennato un riavvicinamento.

The show must go on: l’artista asciugandosi le lacrime cerca di ritrovare la concentrazione.

Si siede un’altra persona davanti a lei, ma questa volta è più difficile riaprire gli occhi perché le sensazioni donategli da quel momento sono state forti,  ed ecco che l’artista apre e chiudi gli occhi per pochi secondi, fino a quanto, con un ultimo sospiro, li riapre definitivamente.

Marina Abramovic, The Artist is present, MoMA 2010. © 2010 Scott Rudd

Tutti noi abbiamo bisogno dello sguardo altrui, di uno sguardo che senza pretendere spiegazioni riesca a capire  l’altro  perché molto spesso non è facile comunicare la propria persona e le proprie emozioni.

Il conforto può arrivare da una signora sconosciuta nella campagna gioiosana, da un amico comprensivo o da chiunque sia disposto a fermarsi per un attimo a guardarti.

Un giorno, neanche tanto lontano, un amico mi ha detto: “ […] se piangi è perché hai tempo per poterlo fare, ma nel momento di tirare su le maniche sei una roccia, fai un sospiro profondo e non mollare, non sentirti sola, hai tutti noi dalla tua parte […]”.

Marina Abramovic, The Artist is present, MoMA 2010.

Ogni volta è sempre lo stesso magone che annebbia la vista e ti chiedi per quanto tempo sarà così? Sarà per sempre? Ci sarà mai fine alla finte partenze? Io voglio credere di si, perché nulla avrebbe senso e credo che queste domande purtroppo debbano rimanere senza una risposta.

Non sono sicura che dietro le porte del Paradiso le lacrime non scenderanno più o almeno non lo sapremo fino a quando questo non accadrà, per ora ciò che rimane è sperare che il Tempo sia clemente e che per una volta la ruota giri  perché “il tempo può abbatterti; il tempo può piegarti le ginocchia; Il tempo può spezzarti il cuore, e farti implorare pietà” [Eric Clapton, Tears in Heaven] ma, sempre citando le meravigliose parole che il mio amico mi ha donato, “bisogna andare avanti perché c’e un nuovo giorno e altri respiri da fare”.

Testo ©Claudia Stritof

Marina Abramovic, The Artist is present, MoMA 2010. ©Bennett Raglin/Getty images

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Intervista ad Adriano Fida. https://www.cultmag.it/2016/03/25/intervista-ad-adriano-fida/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/03/25/intervista-ad-adriano-fida/#respond Fri, 25 Mar 2016 08:06:52 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3861

Adriano Fida, classe 1978, svolge un percorso artistico importante, che dalla scuola d’arte di Palmi, prosegue presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, per poi affidare la sua formazione artistica al maestro Silvano Gilardi in arte Abacuc. Da poco tempo il pittore ha raggiunto un altro importate traguardo venendo selezionato da Vittorio Sgarbi tra i cinque vincitori della mostra-concorso Expo arte italiana, con l’opera The sound of the soul. Ho incontrato il pittore calabrese per farci raccontare di più riguardo la sua opera.

Partiamo dalle origini. Nasci a Reggio Calabria e vivi a Rosarno, un paese purtroppo conosciuto per le storie non sempre felici di cronaca, ma sappiamo che Rosarno è molto altro, una terra antica e saggia che risale al periodo magno-greco. Il tempo dei miti e degli dei, elementi ben visibili – vuoi dagli elementi iconografici, vuoi dai titoli delle tue opere – nella tua arte. Qual’e il legame con il passato mitico della tua terra?

Anche se oggi vivo a Roma è naturale che io sia fortemente legato con la terra di Medma (antico nome di Rosarno). Sono cresciuto in una Rosarno difficile ma di terreno fertile, ricca di storia e di cultura, in cui proprio il periodo magno-greco ha favorito l’evoluzione del pensiero artistico-culturale della terra. Sono cresciuto ascoltando i racconti degli storici e degli appassionati del mio paese sulle divinità greche, il che mi ha permesso di portare quell’abbagliante patrimonio dentro la mia immaginazione fino ad oggi che ho effettivamente la possibilità di figurare con la pittura quei corpi prima immateriali.

Quale evoluzione ha subito la tua poetica e quali le nuove suggestioni artistiche ricevute in seguito al trasferimento a Roma?

A Roma mi sono avvicinato intorno ai 25 anni e trasferitomi definitivamente a 30. Come ogni città importante e imponente diventa anche invasiva intellettualmente e fisicamente, e in quanto tale mi ha donato  la possibilità di aprire gli occhi sull’arte e sulla mia vita. Qui ho conosciuto molti artisti importanti del panorama artistico attuale, li seguivo da diversi anni tramite internet e riviste del settore e vedere le loro opere dal vero, insieme a quelle dei grandi maestri del passato, hanno giovato alla mia evoluzione di pensiero e gusto artistico, oltrepassando così certi canoni che in precedenza creavano limiti.

Garzone di bottega prima, ora maestro nella tua scuola romana di recentemente apertura. Spiegaci qualcosa in più su questa tua nuova esperienza…

Vero! Prima allievo del maestro Gilardi nella sua bottega di Affresco in provincia di Torino (a lui devo tanto e lo omaggerò a vita), ora la mia scuola di pittura romana dove insegno ricette e metodi dell’arte antica, da quella fiamminga a quella preraffaellita avvicinandomi all’iperrealismo. Negli anni è diventata una vera bottega, una fucina d’arte quasi d’altri tempi, dove crescono nuovi artisti tramite i miei insegnamenti. In molti mi chiedono perché lo faccio, consigliandomi di seguire il banale concetto, «ama l’arte e mettila da parte», ma per me non è così! La condivisione non deve fermarsi ai social, condividere è sinonimo di divulgare, di tener in vita e se dovessimo pensarla diversamente tutto potrebbe prima o poi morire. Nell’arte dei miei allievi vive una parte del mio sapere che spero tramanderanno a loro volta. Ecco perché preferisco il detto «finché c’è memoria c’è vita».

Teschi e frutta sono elementi quasi sempre presenti nelle tue opere, simbolo per eccellenza del memento mori. Come affronti la diade morte/vita nella tua arte e di conseguenza nella tua intimità?

Sono considerato un pittore figurativo simbolista, adoro i simboli e il loro sussurrato messaggio. Credo che il concetto della Vanitas, in quanto ammonimento alla caducità dell’esistenza umana, sia il massimo ideale. Rifletto sempre sulla vita e sulla morte e comunemente si pensa la vita come amore e la morte come dolore, ma io preferisco rispondere con una mia tela che rappresenta Eros e Thanatos, riferendomi anche alla teoria di Freud e all’innato istinto di vivere e morire che diventa lo scopo della vita stessa, lo stimolo per eccellenza. L’anima di ognuno di noi è retta dall’equilibro che queste due forze raggiungono e la molteplicità dei comportamenti è data dalle varie possibilità di svolta che l’uomo ha per risolvere una situazione.

Abbiamo già accennato alla tela The sound of the soul – attualmente esposta a Villa Bagatti Valsecchi. A mio avviso l’opera già dal titolo denota una vasta profondità concettuale, con un preciso rimando all’immensità del proprio essere. Mi piacerebbe un tuo pensiero rispetto a quest’opera…

Esatto. The sound of the soul è una tela molto intima che mi riporta a quando ero fanciullo e ascoltavo il suono del mare all’interno di una conchiglia. In quel momento magico potevi essere anche sulle Alpi ma riuscivi a vedere il tuo mare, quello dove ti divertivi con la tua famiglia e che tanto vorresti rivivere. Un momento di felice malinconia che tieni per te e che non racconti facilmente perché ne sei geloso e si ha la paura di essere banalizzati e deturpare quella fantastica immagine. Ecco The sound of the soul letteralmente è il suono dell’anima, invita a guardare dentro ognuno di noi, in un intenso percorso spirituale ed emotivo, con l’intento di tirar fuori la vera immagine del proprio essere, così come ci riesce una conchiglia nella visione del proprio mare.

Questa immagine è diventata l’artwork dell’album degli Oblomov – duo di base a Bologna composto da Ilja llic e Zachar – potresti raccontarci come nasce questa collaborazione?

Gli Oblomov  sono fantastici, hanno dato voce e musica alle mie tele e non solo! Nel progetto c’è un altro grande artista di fama internazionale, Flavio Sciolè, regista, attore, performer e tanto altro, il quale ha creato i video degli Oblomov, trasmessi durante i loro live a ciclo continuo su un vecchio televisore. I video li porterò anche nelle mie mostre future. Con Ilja llic e Zachar ci siamo conosciuti in un mio viaggio in Russia all’entrata di un mostra, parlavano l’italiano a sufficienza per essere compresi, da lì ci siamo spostati per bere una vodka. Sai, una delle prime domande per rompere il ghiaccio è «cosa fai nella vita?», ed è da questa semplice domanda che nasce tutto.

Se ti chiedessi di citare un verso delle loro canzoni che ti ha particolarmente colpito?

Tra i testi ci sono frasi scritte in precedenza da me per le mie tele e da questo hanno tratto grande ispirazione. Ne riporto un paio: in The sound of the soul dice «le anime fluiscono nella pietra eternamente nera come l’aurea scia di una stella che nel cadere si spegne nel nulla», mentre in Sirene in burlesque «nonostante conosca la mia fine mi farò trascinare da quel soave canto», qui ritorna il concetto della Vanitas. Poi ce ne sono tante altre ma riempirei  la pagina.

Potresti darci un’anticipazione sulle tue prossime mostre e sugli eventi a cui parteciperai?

Ho da poco terminato una mia personale qui a Roma dal nome Pyros e qualche giorno fa ho avuto la conferma dal mio curatore Marco Dionisi per  la prossima personale a Palazzo Flangini a Venezia nel mese di Marzo. So che si sta lavorando per una futura esposizione al MACRO di Roma, poi Milano, Berlino, Pechino e New York (ancora devono uscire le date certe), il programma prevede un percorso molto impegnativo con possibili mostre collaterali.

Testo a cura di Claudia Stritof e pubblicato sulla rivista aARTic (19 marzo 2016).

Adriano Fida, The sound of the soul, olio su tela, 60x80

Adriano Fida, The sound of the soul, olio su tela, 60×80

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Da quando abbiamo fatto l’intervista Adriano non si è fermato un attimo e dal 2 al 30 aprile sarà in mostra a Palazzo Flagini di Venezia, con l’esposizione dal titolo “MYTHOMORPHOSIS” di ADRIANO FIDA.

Inoltre è uscito il volume The Art in Monography, Vol XVI – Adriano Fida, edito da BlackWolf Edition-Publishing.

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Adriano Fida. The golden King, olio e oro su tela, 50x60

Adriano Fida. The golden King, olio e oro su tela, 50×60

Oblomov cover.

Oblomov cover.

Adriano Fida, Vanitas, olio su tela, 40x80

Adriano Fida, Vanitas, olio su tela, 40×80

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Il meraviglioso mondo di… Rocciolo!!! https://www.cultmag.it/2016/02/13/il-meraviglioso-mondo-di-rocciolo/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/02/13/il-meraviglioso-mondo-di-rocciolo/#respond Sat, 13 Feb 2016 20:48:03 +0000 https://www.cultmag.it/?p=2988 Daniela è una ragazzetta tutta riccia, che non a caso si fa chiamare Rocciolo, non ricordo precisamente quando l’ho conosciuta, ma fin da subito il suo modo di fare da ragazza osservatrice mi ha colpita. Ti guarda! Poche smancerie e capisce subito come stai e come ti senti.

Daniela è anche un vulcano di idee che abita in un mondo fatto di colori, il più delle volte à plat, che molto ricorda il mondo delle fiabe e non a caso Rocciolo si è laureata presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria con una tesi sulle favole e sul gioco, ispirata al lavoro dell’artista Massimo Sansavini. Capire l’arte di Sansavini è importante per comprendere di riflesso quella di Rocciolo, infatti l’artista forlivese si è formato a Ravenna, città del mosaico bizantino, il quale facendo propria la tecnica musiva, realizza opere sagomate in legno, servendosi inoltre dilacche e resine dando così vita a mosaici colorati. Colori ora sgargianti che oscillano tra dinamismo futurista e icone pop, ora tenui e sempre dai contorni definiti e morbidi.

Seconda stella a destra, Incastri di legno, 90×70. © Daniela Galluzzo

Seconda stella a destra, Incastri di legno, 90×70. © Daniela Galluzzo

Ora torniamo a Daniela che dalla natia Locri si trasferisce a Roma e inizia a sperimentare i suoi incastri di legno con la poca attrezzatura necessaria: legno, seghetto, carta vetrata, tempera e vernici all’acqua, riuscendo a creare mondi fantastici abitati da teneri e dolci personaggi. Spille stravaganti, metri per misurare giornalmente la crescita dei bambini, specchi e lampade create ex novo oppure attraverso il recupero di oggetti dimenticati ormai da tempo, come è avvenuto per gli indimenticabili telefono a disco, che è riuscita a far diventare lampade che illuminano «il ricordo», e la cornetta sospesa in aria, è lì come a «sussurrare nel buio l’eco di un “Pronto?”».

Un mondo nuovo, in cui il telefono grigio si tinge di tinte accattivanti, i pensieri solcano un mare di colori e le parole vagano in libertà, perché la missione di Daniela è una sola «scaraventare i grandi, ingrigiti e disabituati all’energia sprigionata dai colori, nello stupore dell’infanzia», perché alla fin dei conti tutti desideriamo tornare bambini, volare liberi nell’aria guidati dai pensieri felici, dimenticando affanni e tristezze. Il compito è arduo ma sono sicura che con il suo paziente lavoro da sapiente artigiana, le sue piccole creaturine ce la faranno a reinventare il mondo perché come ha scritto Tom Robbins – e come più volte Daniela ha affermato – «non è mai troppo tardi per farsi un’infanzia felice».

Testo ©Claudia Stritof. All rights reserved.

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Parole in luce white, Lampada telefono M9 feat Rocciolo. Modelli lampada-telefono brevettati a nome Daniela Galluzzo dalla Camera di Commercio. © Daniela Galluzzo.

Parole in luce white, Lampada telefono
M9 feat Rocciolo. Modelli lampada-telefono brevettati a nome Daniela Galluzzo dalla Camera di Commercio. © Daniela Galluzzo.

Charlie Naif. © Daniela Galluzzo

Charlie Naif. © Daniela Galluzzo

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Nous Autres – conversando con Karin Andersen. https://www.cultmag.it/2016/01/22/nous-autres-conversando-con-karin-andersen/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/01/22/nous-autres-conversando-con-karin-andersen/#respond Fri, 22 Jan 2016 11:20:40 +0000 https://www.cultmag.it/?p=2880 Alla Traffic Gallery di Bergamo Nous Autres – Studi teriografici sul divenire dell’artista tedesca Karin Andersen. Abbiamo incontrato l’artista per conoscerla meglio.

La mostra Nous Autres – Studi teriografici sul divenire è un viaggio nel tuo mondo. Mi piacerebbe sapere come è nata l’idea dell’esposizione, che già dal titolo si propone di indagare un concetto importante come quello del divenire?
La mostra parte da alcuni lavori che sono nati grazie ad alcune mie collaborazioni precedenti con i due curatori Claudia Attimonelli e Vincenzo Valentino Susca:  disegni concepiti per la rivista Les Cahiers Européens de l’Imaginaire (CNRS Editions, Paris, www.lescahiers.eu),?utm_source=rss&utm_medium=rss di cui Vincenzo Susca è direttore e Claudia Attimonelli redattrice; e un ciclo di visual sviluppati per lo spettacolo teatrale Angelus Novissimus, scritto da Vincenzo Susca e Alain Béhar, andato in scena in Francia con la compagnia “Quasi” nel 2014. Tutti questi lavori, al di là delle loro specifiche tematiche, hanno un’idea di base in comune: l’indagine di una condizione teriomorfa in divenire, metafora di un allontanamento dagli orizzonti fissati dai paradigmi antropocentrici. Inoltre ci sono alcuni lavori recenti della serie Naughty Messy Nature, fotografie e video di piccole sculture organiche plasmate col tempo dalle muffe, che hanno molto a che fare con il concetto di divenire e con il teriomorfismo.

Uno dei temi centrali della contemporaneità è l’ibridazione che nei tuoi lavori è visibile sotto un duplice aspetto. In primis nell’utilizzo di tecniche artistiche differenti e in merito a questo vorrei sapere quale la ragione di questa versatilità e quale importanza riviste per te la contaminazione tra reale e immaginario.
La ragione della multimedialità non è il tentativo di utilizzare più tecniche possibili, non aspiro all’eclettismo, non è un concetto che mi interessa. Mi piace scegliere per ogni lavoro la tecnica più idonea. La scelta della tecnica di un lavoro può sottolinearne il concetto. Ad esempio, l’utilizzo simultaneo della fotografia insieme a tecniche di elaborazione digitale visibilmente graficizzate (e quindi non realistiche) è un mezzo per creare un dialogo fra reale immaginario, fra autentico e fake. Questo ovviamente ha molta importanza nel mio lavoro: non mi interessa l’immaginazione pura senza riferimenti alla realtà o all’attualità, e non mi interessa la realtà priva di incursioni fantastiche. Per dirla con una citazione di Vincenzo Susca, che è diventata il titolo di un’opera in mostra: J’adore danser en danger dans les interstices précaires, adoro ballare in pericolo su fragili interstizi.

Il secondo elemento in cui l’ibridazione è ben visibile riguarda le tue creature. Frutto artistico di un lungo lavoro di ricerca che nel 2003 ha trovato un elaborazione teorica nel libro Animal appeal. Uno studio sul teriomorfismo, scritto insieme allo studioso Roberto Marchesini. Ci potresti spiegare in poche parole la nozione di teriomorfismo?
In realtà la propensione al teriomorfismo l’ho sempre avuta, a partire dai primi  disegni d’infanzia, nei quali non disegnavo praticamente mai umani ma solo figure che si comportavano da umani ma avevano orecchie e code da animale. L’atteggiamento critico nei confronti dell’antropocentrismo invece era già presente nella mia tesi di laurea all’Accademia di Belle Arti, un lavoro su arte ed ecologia, e ha portato in maniera quasi automatica alla mia idea del teriomorfismo: una sorta di ginnastica mentale per uscire dai vincoli autoreferenziali dell’antroposfera e per  denunciare l’atteggiamento scorretto che la maggior parte degli umani ha sviluppato nei confronti del resto della biosfera. L’incontro con Roberto Marchesini è stato importantissimo per allargare i miei orizzonti teorici. Abbiamo scoperto di lavorare nella stessa direzione, ognuno nella sua disciplina. Così abbiamo iniziato a collaborare in maniera trasversale: grazie a lui ho approfondito i presupposti filosofici e scientifici del mio lavoro, mentre lui ha iniziato a far dialogare le sue teorie con il mondo dell’arte contemporanea.

Il corpo nelle tue opere compie mutazioni fisiche e psicologiche ben delineate. In merito a questo ci potresti raccontare come prendono vita le tue creature?
Le opere in genere nascono da una o più fotografie: le faccio a pezzi, le assemblo, ne sviluppo alcuni aspetti in postproduzione digitale, ci disegno e dipingo sopra in digitale, talvolta anche con colori reali. Il mio lavoro non è particolarmente biografico, in genere non ci sono relazioni tra il tipo di trasformazione e la personalità del modello umano di partenza. Ho una predilezione per le orecchie e i nasi, formalmente e concettualmente, ma sono potenzialmente interessata a lavorare su qualsiasi parte del corpo.

Hai mai raccontato delle storie a tuo figlio partendo dalle tue opere? Se si, potresti raccontarci un aneddoto? 
Le storie che racconto a mio figlio da quando era molto piccolo non sono ispirate dichiaratamente ai miei lavori. Sono bizzarre vicende a puntate con personaggi molteplici, piuttosto fantascientifiche. Ma ovviamente i personaggi sono tutti animaloidi. E sicuramente qualche contatto tra il mondo dei miei lavori e i mondi raccontati c’è, è inevitabile. Del resto la lettura delle opere da parte di mio figlio è sempre interessante e illuminante. Gli ibridi umano-animale gli sembrano una cosa piuttosto normale. Sicuramente è abituato agli animali antropomorfizzati dei cartoni animati, ma accetta senza problemi anche immagini della sua mamma trasformata in mutante. Ogni tanto scopro che spiega le mie opere in giro per casa ai suoi amici quando vengono a trovarlo, come se fosse una guida in una mostra.

Quali sono i tuoi progetti futuri? Potresti darci qualche anticipazione?
I progetti futuri del momento sono: continuare i lavori a una nuova serie inedita di immagini fotografico-pittoriche, continuare i lavori a un progetto molto grande e impegnativo sul fronte delle immagini in movimento (non posso dire altro). Avere uno studio più grande. Imparare ad andare col monociclo.

 

Intervista realizzata da Claudia Stritof per Juliet art magazine (19 gennaio 2016).

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Karin Andersen. Nous Autres – Studi teriografici sul divenire
Traffic Gallery, Via San Tomaso 92, Bergamo
2 ottobre 2015 – 4 marzo 2016

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Naughty Messy Nature 7, 2015. Lambda print, cm 25 x 25, edition of 5 + 2 AP. Courtesy Traffic Gallery, Bergamo

Naughty Messy Nature 4, 2015. Lambda print, cm 25 x 25, edition of 5 + 2 AP

Naughty Messy Nature 4, 2015. Lambda print, cm 25 x 25, edition of 5 + 2 AP

Novissimus 4, 2015. Lambda pint, cm 50 x 50, edition of 5 + 2 AP. Courtesy Traffic Gallery, Bergamo

Novissimus 4, 2015. Lambda pint, cm 50 x 50, edition of 5 + 2 AP. Courtesy Traffic Gallery, Bergamo

Karin Andersen, Je te mange, je me mange (dettaglio trittico), 2013. Lambda print, cm 52 x 40, edition of 5 + 2 AP. Courtesy Traffic Gallery, Bergamo

Karin Andersen, Je te mange, je me mange (dettaglio trittico), 2013. Lambda print, cm 52 x 40, edition of 5 + 2 AP. Courtesy Traffic Gallery, Bergamo

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Il fantastico mondo del "Giardino dei Tarocchi". https://www.cultmag.it/2015/01/02/il-fantastico-mondo-del-giardino-dei-tarocchi/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2015/01/02/il-fantastico-mondo-del-giardino-dei-tarocchi/#respond Fri, 02 Jan 2015 21:16:21 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1492 Niki de Saint Phalle (Parigi 1930- San Diego 2002) nel 1948 intraprende il suo percorso nell’arte. Inizialmente si dedica alla letteratura e in seguito al teatro, sognando di diventare attrice. In questo periodo posa come fotomodella per Vogue e Life. Durante la sua prima personale in Svizzera conosce Jean Tinguely, noto scultore di congegni ferrosi, i mecaniques, combinazioni di rifiuti della società industriale. Innamorata dello sculture nel 1960 si separa dal marito e due vivono la loro storia d’amore condividendo uno studio a Parigi. Nel 1961 realizza I Tiri o Shooting paintings e nello stesso periodo entra in contatto con il gruppo del Nouveaux Realisme. Dal 1965 inizia ad esplorare la figura femminile a grandezza naturale, realizzando le famosissime Nanas. Una delle più importanti è la Hon (Lei in svedese) che realizza per il Moderna Museet di Stoccolma. Una grande figura di donna giace sdraiata sul dorso con le gambe piegate, si accede al suo interno attraverso l’organo genitale e l’interno è diviso in diversi ambienti che lo spettatore può visitare. Nel seno sinistro vi è un planetario, nell’altro un milk bar mentre in una delle gambe una galleria che riproduce capolavori falsi di Paul Klee, Matisse etc. eseguiti appositamente dal critico Ulf Linde.

Naturalmente la Hon è stata realizzata grazie alla collaborazione di Jean Tinguely, compagno d’arte e di vita che assume la direzione del team tecnico per l’occasione e sempre dal rapporto artistico tra i due nasceranno opere importantissime come: la Fontana di Stravinsky di Parigi (1983) e il Giardino dei Tarocchi.

Il giardino dei Tarocchi

Il giardino dei Tarocchi

L’idea del parco si deve all’ispirazione avuta all’artista durante la visita di Parque Guell di Antonio Gaudì a Barcellona, poi rafforzata dalla visita al Giardino di Bomarzo in Italia. La costruzione del giardino inizia nel 1979 nella Maremma toscana. Durante un periodo di convalescenza in Svizzera, Niki incontra Marella Caracciolo Agnelli e le racconta il suo progetto di un giardino con rappresentati i 22 Arcani Maggiori, sculture ricoperte di vetri, specchi e ceramiche colorate. Afferma l’artista:

se la vita è un gioco di carte noi siamo nati senza conoscere il nostro ruolo, e tuttavia dobbiamo giocare la nostra mano. Durante i secoli l’uomo ha amato giocare con i tarocchi. Poeti, filosofi, alchimisti si sono voltati alla scoperta dei loro significati.

Un mondo magico e misterioso, ricco di colore e riflessi, il giardino è stato terminato con l’aiuto di numerosissimi artisti internazionali e locali nell’estate del 1996. L’accesso al giardino, realizzato da Mario Botta,  è separato da un doppio muro di recinzione in tufo con un’apertura circolare al centro. Oltrepassata questa linea di demarcazione si abbandona simbolicamente la realtà per accedere in un mondo fantastico. La strada sterrata giunge fino alla piazza centrale occupata dalle figure della Papessa e del Mago, i primi Arcani che iniziano il percorso. La vasca in cui si raccolgono le acque sgorganti a cascata della scalinata che procede nell’enorme bocca della Papessa, reminescenza dell’Orco di Bomarzo, è segnata al centro dalla Ruota della Fortuna, la scultura semimovente di Tinguely. Li fronteggiata la Forza, una donna vestita di bianco e di fronte un drago ricoperto da specchi verdi. I colori come avviene nei tarocchi tradizionali hanno valenza simbolica: il rosso è il colore della forza creatrice, il verde della vitalità primigena, il blu è il segno della profondità del pensiero, del desiderio ardente e della volontà. Sulle stradine sono riportati pensieri, memorie, citazioni, disegni, messaggi di speranza dell’artista così denotando non solo un percorso fisico ma anche spirituale. Poi vi è la figura del Sole,del Papa, opera di Tinguely. Successivamente vi è l’Appeso, detto anche L’albero della Vita. Di fronte la testa del Matto e qui si staglia il bianco e nero della figura della Giustizia.

giardino-dei-tarocchi16Procedendo nel boschetto ci sono i due Innamorati, gioiose figure fanno il picnic. Più dietro l’Eremita e il castello dell’Imperatore. Al centro del cortile vi è una vasca, dove quattro felici nanas fanno il bagno, schizzando dai seni getti d’acqua. Sul retro vi è la torre, simbolo delle costruzioni mentali. In seguito l’Imperatrice-Sfinge, nella quale Niki ha abitato per lunghi anni. All’interno è presente la stanza da letto in un seno, la cucina nell’altro e lo spazio centrale è arredato a soggiorno-studio. Proseguendo il percorso si giunge alla figura della Temperanza, dedicata alla memoria di Tinguely e di Ricardo Menon. L’igloo è rivestito di specchi e formelle ceramiche in forma di fiori, ed è presente un piccolo altare con il bassorilievo di una Madonna nera che veglia sulle fotografie degli amici scomparsi. Ritornando indietro si giunge all’ultimo settore del giardino, in cui si ergono: la Morte, posta su un basamento di specchi e simboleggiata da una figura a cavallo blu che falcia uomini e animali, il Diavolo con le ali di pipistrello spiegate e infine il Matto, filiforme scultura “skinny” in cui il giovane vagabondo è il simbolo del caos, dello spirito, dell’entusiasmo. E per ultimo il Mondo, eseguita con Tinguely.

Un mondo unico quello creato da Niki, da visitare in primavera o in estate circondanti da una folta vegetazione e splendente di luci e colori. Un viaggio fisico e mistico nel mondo della magia e degli Arcani per riscoprire sé stessi attraverso l’arte e la natura.

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Il giardino dei Tarocchi

Il giardino dei Tarocchi

Il giardino dei Tarocchi

Il giardino dei Tarocchi

Il giardino dei Tarocchi.

Il giardino dei Tarocchi.

Immagini dal sito del Giardino dei Tarocchi.

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