Behind the Scenes – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Sun, 07 Mar 2021 10:09:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Parigi, 28 dicembre 1895. La nascita del cinema https://www.cultmag.it/2019/12/27/lumiere/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/12/27/lumiere/#respond Fri, 27 Dec 2019 11:00:00 +0000 http://www.claudiastritof.com/?p=2343 «Il film parlato mi sembra l’antitesi dell’arte muta, […] quei personaggi che agiscono sullo schermo a bocca aperta mentre ci arriva la loro voce non si sa da dove mi sembrano tanti ventriloqui disorientati e agitati».

—  Louis Jean Lumière

Parigi, 28 dicembre 1895. I fratelli Auguste (Besançon, 19 ottobre 1862 – Lione, 10 aprile 1954) e Louis Lumière (Besançon, 5 ottobre 1864 – Bandol, 6 giugno 1948), proiettano il loro primo film L’uscita dalle officine Lumière al Salon indien del Grand Cafè di Boulvard des Capucines.

E’ la nascita del cinema!

Ritratto di Auguste Lumière

Nel film i lavoratori escono dalla fabbrica al termine di un’intensa giornata di lavoro; le donne sono vestite con abiti tipici dell’epoca, di colore bianchi e primaverili, a differenza del film girato dai fratelli Lumière, in cui le donne indossano abiti scuri e invernali. Molte le interpretazioni che sono state fatte circa la casualità o l’effettiva scrittura di una sceneggiatura da parte dei due fratelli, nonché anche sul il giorno delle riprese.

I fratelli Lumière, innovatori e ricercatori, furono figli della propria epoca, la Bella Époque, un periodo storico caratterizzato da grande sperimentazione e innovazione tecnico-scientifica che ha portato a immensi progressi tecnologici in tutti i campi del sapere. I due fratelli rientrarono in pieno in questo clima culturale caratterizzato da sogni e aspirazioni che prima di allora sembravano impossibili da realizzare.

Dalla nascita della fotografia nel 1839 il passo fu breve e subito si iniziò ad immaginare la creazione di immagini in movimento; infatti l’inventore Thomas Alva Edison nel 1891 crea il kinetoscopio, uno strumento che però permetteva a un solo spettatore alla volta di osservare attraverso un foro delle immagini in movimento, uno spettacolo unico che subito ammaliò Antoine Lumière, il padre di Louis e Auguste, tanto da spronare i figli nella loro folle idea di creare il Cinematografo.

Era il più grande spettacolo mai visto: per la prima volta la vita quotidiana nella sua semplicità veniva vista  all’interno di una sala buia, mentre il pubblico in attonito silenzio osservava le immagini che scorrevano davanti ai loro increduli occhi fino a che a un certo punto qualcosa li spaventa: una locomotiva sembra investirli e terrorizzati fuggono via.

Il padre era estremamente convinto delle potenzialità del cinematografico, tanto che fu lui a organizzare la prima proiezione pubblica al prezzo di 1 franco presso il Grand Café, proprio come ricorda Thierry Frémaux – delegato generale del Festival di Cannes e direttore dell’Istituto Lumière di Lione – che afferma «è il dicembre 1895 quando Antoine Lumière si mette alla ricerca di un locale in cui proporre al pubblico proiezioni di “fotografie animate” […]. Rifiuta diverse possibilità al primo piano e si scoraggia finché gli viene segnalata, nel quartiere dell’Opera, una sala secondaria del Gran Café, il Salon Indien, un seminterrato che era stato utilizzato come sala da biliardo».

Se nello stesso periodo molti furono gli strumenti brevettati molto simili al cinematografico, quello dei due fratelli aveva dalla loro parte, la fortuna di essere maneggevole e trasportabile anche all’esterno e inoltre permetteva la visione dei film in pubblico e collettivamente. Inoltre i Lumiere era anche abili impresari e pubblicizzavano il loro lavoro stampando dei volantini indicando l’ora in cui si sarebbero fatte le riprese. In questo modo le persone non solo si facevano trovare sul luogo per essere riprese, ma la sera dello spettacolo avrebbero anche pagato il biglietto per potersi guardare.

Se il padre era fermamente convinto dell’importanza di questa scoperta, i fratelli invece lo videro come un passatempo senza futuro, che non avrebbe avuto fortuna, così abbandonarono la realizzazione di film, per focalizzarsi su altre scoperte, sta di fatto che da quel fatidico momento la storia è lunga e veramente densa… Quindi non ci resta che dire… Buon compleanno Cinematografo!!

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati
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Die Antwoord: “l’avanguardia brutale nei colori di un ghetto dimenticato da Dio”. https://www.cultmag.it/2019/03/23/die-antwoord-lavanguardia-brutale-nei-colori-di-un-ghetto-dimenticato-da-dio/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/03/23/die-antwoord-lavanguardia-brutale-nei-colori-di-un-ghetto-dimenticato-da-dio/#respond Sat, 23 Mar 2019 07:00:28 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3972 I Die Antwoord, sudafricani di nascita, si definiscono una rap-rave crew, composta dal rapper Ninja, dalla vocalist Yo-Landi Vi$$er e da DJ Hi-Tek. 

Tre soggetti “strani” che hanno iniziato il loro cammino nel 2009, con l’uscita del primo disco $O$, il quale aveva già in grembo tutta la coerenza musicale e iconografica poi definitasi con maggior vigore nei brani successivi.

Ambienti sudici, graffiti sui muri, abiti surreali tra il post-umano, il manga e le gang violente di quartiere; pupille nere, tatuaggi, corpi eccessivamente magri, pelle bianca al limite dell’umano: questi sono i Die Antwoord e questi sono gli elementi che li contraddistinguono.

Un gruppo senza censure e senza inibizioni, così come si vive in una periferia di Città del Capo in Sud Africa. L’attaccamento alla terra natia è estremamente importante per la band, tanto che lo stesso Ninja ha  dichiarato: “io rappresento la cultura del Sud Africa. Bianchi, neri, inglesi, Afrikaans, Xhosa, Zulu, watookal. Io sono tutte queste diverse cose, tutta questa gente in una sola (…) persona”, un miscuglio di culture e tradizioni che in tutto e per tutto si riflette nel loro particolare slang.

Roger Ballen, Shack Scene, 2012, Still da video "I Fink You Freaky. ©Roger Ballen
Roger Ballen, Shack Scene, 2012. Still da video I Fink U Freeky. ©Roger Ballen

I Die Antwoord fin dalla loro formazione hanno portato avanti collaborazioni di assoluto rilievo con artisti di notevole spessore, in primis, con il fotografo Roger Ballen, con la quale è nato un sodalizio creativo di rara ed estrema perfezione.

Roger Ballen non ha certo bisogno di presentazioni, essendo uno dei fotografi maggiormente apprezzati dell’attuale scena artistica internazionale. La sua è una fotografia a primo impatto umile, che da risalto ai diversi tipi umani e ai contesti sociali della periferia africana a cui associa una potente simbologia ritualistica e primitivistica.

Le fotografie di Ballen sono dominate da una grande forza concettuale conferitagli anche dall’utilizzo ossessivo del bianco e nero contrastato, cifra stilistica che naturalmente non poteva non contrassegnare  il famoso video I Fink U Freeky dei Die Antwoord.

Roger Ballen, still da video I Fink U Frey, 2012. ©Roger Ballen
Roger Ballen, still da video I Fink U Frey, 2012. ©Roger Ballen

Il video, che ha segnato il debutto alla regia per Ballen, è caratterizzato da uno stile sporco, caotico e apparentemente confusionale, ambientato in uno spazio claustrofobico pieno di oggetti, scritte e disegni inconsueti che d’improvviso investono lo spettatore con una carica perturbante che spaventa e cattura lo sguardo al tempo stesso.

L’influenza di Ballen è stata decisiva nell’estetica del gruppo, e in particolare modo su Watkins Tudor Jones, in arte Ninja. Artista dalla formazione eclettica, Ninja non è solo un cantante e rapper ma anche stilista, scenografo, grafico, performer e, non ultimo, “scultore” di sex toys, come ben dimostra l’accattivante Evil Boy, disegnato per l’azienda giapponese Good Smile company.

I lavori di Ninja sono ben visibili nei video dei Die Antwoord: Enter The Ninjain cui il frontman ha realizzato una stanza total white con disegni alle pareti, tra cui anche il famoso Evil Toy; nel video Fatty Boom Boom è presente Ugly Boy, che non solo presenta una bellissima scenografia e fotografia di scena realizzata da Alexis Zabe, ma il video è ulteriormente arricchito da innumerevoli collaborazioni artistiche (Marilyn Manson, Cara Delevingne, Dita Von Teese ecc.).

Amanda Demme, Die Antwoord ©Amanda Demme

Altra importante collaborazione dei Die Antwoord è quella con Harmony Korine – sceneggiatore di Kids e Ken Park di Larry Clark – con la quale hanno dato vita a Umshini Wam [letteralmente portami la mitragliatrice], film in cui Ninja e Yolandi impersonano due gangster seduti su una sedie a rotelle, vestiti con pigiami stile pupazzetti giapponesi con mitra in mano.

In ultimo è da citare anche la fortunata collaborazione artistica con la fotografa Amanda Demme, la quale ha realizzato immagini solitarie e pensose.

Incredibilmente perfetti e impeccabili nelle loro esibizioni i Die Antwoord, sono stati definiti uno dei “progetti più atipici e perturbanti che abbiano percorso la scena musicale degli ultimi anni […] un’autentica scheggia genialmente impazzita nel pop contemporaneo” e, come ha affermato lo stesso Ninja, siamo “l’ultimo stile, l’avanguardia. L’odore di un futuro che nasce qui, nel sole brutale e nei colori di un ghetto dimenticato da Dio”.

Amanda Demme, Die Antwoord. ©Amanda Demme.
Amanda Demme, Die Antwoord. ©Amanda Demme.

Testo © Claudia Stritof.

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The Blues Brothers… ed è subito amore. https://www.cultmag.it/2017/04/22/the-blues-brothers-ed-e-subito-amore/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/04/22/the-blues-brothers-ed-e-subito-amore/#respond Sat, 22 Apr 2017 15:49:39 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4702 Ci sono dei film che rimangono nel cuore di ognuno di noi. L’emozione nel rivederli è sempre grande perché, per un motivo o per un altro, ricordano un determinato periodo della propria vita. Nella mia classifica personale dell’infanzia c’e… The Blues Brothers diretto da John Landis e interpretato, naturalmente, da John Belushi e Dan Aykroyd.

La prima volta che ho visto questo film ero a casa dei mie zii, ero piccola, non capivo molto di musica ma la loro sonorità mi ha subito catturata. Da allora l’ho rivisto molte volte… tantissime.

Il gruppo The Blues Brothers nacque un pò per scherzo durante un’esibizione al Saturday Night Live. Era il 22 aprile 1978… e da lì incominciò tutto!!

06070911121507_hookerblues-brothers-xxxThe_Blues_Brothers_-_film-2013-the-blues-brothers-theredlist



Immagini Mymovies e Oscars.org

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Charlie Chaplin. Genio danzante https://www.cultmag.it/2017/03/18/charlie-chaplin-genio-danzante/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/03/18/charlie-chaplin-genio-danzante/#respond Fri, 17 Mar 2017 23:25:17 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4580 Un uomo con la bombetta in testa e il bastone di bambù cammina di spalle su una strada polverosa come un vero gentiluomo inglese, ma nel suo modo di atteggiarsi, nella sua giacchetta troppo stretta, nelle scarpe e nei pantaloni molto grandi si nota qualcosa di dissonante.

È un uomo povero, un vagabondo… in poche parole è Charlot, celebre alter ego di Charlie Chaplin.

Indimenticabile nelle sue gag, Chaplin è stato – e continua a essere -un’icona del cinema e simbolo universale dell’uomo buono che nonostante le avversità della vita continua a lottare con il sorriso sulle labbra e la dolcezza nel cuore.

Lo psicologo Steven Weissman ha detto: “le persone che hanno avuto un’infanzia molto infelice, da adulti possono diventare persone distruttive o di straordinario talento” e senza ombra di dubbio Chaplin è diventato un’artista a tutto tondo come pochi nella storia della cinematografia.

Durante una pausa di The Kid, 1921. ©Roy Export Company Est._S.A.S. Digitalizzazione Cineteca di Bologna.

Charles Spencer Chaplin nasce il 16 aprile 1889 in un sobborgo povero di Londra. La sua è un’infanzia difficile, segnata dall’abbandono del padre e della grave malattia psicologica della madre, rinchiusa in un manicomio mentre i due fratelli, Sydney e Charlie, crescono in un istituto per bambini indigenti.

Il riscatto avviene quando Sydney – fratello più grande di  quattro anni – inizia a muovere i primi passi nel mondo del music hall portando con sé anche il fratello minore che debutta con gli Eight Lancashire Lads, una famosa compagnia che riuniva otto bambini dotati di grande talento.

Le cose cambiano quando Sidney viene ingaggiato da Fred Karno – all’epoca uno dei più grandi impresari teatrali – il quale lo convince a prendere in prova anche Charlie, che non si lascia sfuggire l’occasione e subito si fa notare per le sue grandi doti artistiche, diventando in breve tempo la punta di diamante della compagnia di Karno.

Durante una delle tournée americane Chaplin viene notato da Mack Sennett che lo convince a firmare un contratto per la sua casa di produzione cinematografica, la Keystone. Con Sennett, Chaplin inizia la sua formazione da attore per il grande schermo realizzando numerose commedie slapstick, caratterizzate da una sequenza ininterrotta di gag accidentali che danno vita a inseguimenti esilaranti, ed è proprio in questo periodo che Charlie inizia a costruire il suo celebre personaggio The Tramp.

Dopo una collaborazione con la Essanay, Chaplin firma il contratto con la Mutual Film che da carta bianca all’artista, il quale inizia a realizzare film più impegnati e di durata più lunga, fino al 1919 quando insieme a Douglas Fairbanks, Mary Pickford e D. W. Griffith fondano la celebre United Artist.

Da Sunnyside, 1918-19. ©Roy Export Company Est._S.A.S. Digitalizzazione Cineteca di Bologna.

È riduttivo definire Charlie Chaplin un comico, certamente agli inizi lo è stato,  ma con grande caparbietà e con il duro lavoro ha raggiunto la fama internazionale in tempi in cui il cinema muoveva i suoi primi passi.

Chaplin è stato non solo un attore ma anche regista, sceneggiatore, produttore e ballerino. Non è un caso che mille volte sugli schermi abbiamo visto Charlot ballare per strada, nei locali e nei bar, volteggiare come una libellula sui pattini e fare improbabili spaccate, un legame il suo con la danza che non è mai venuto meno e che è stato anche molto apprezzato dal famoso ballerino russo Vaslav Nijinsky.

Nel 2017 la mostra Charlie Chaplin. Genio danzante, presso il MUSAM – Museo del Giocattolo e del bambino di Ancona, ideata da Simona Lisi e dal Festival Cinematica, in collaborazione con l’Association Chaplin/Roy Export e la Cineteca di Bologna, oltre a ripercorre alcuni momenti essenziali della vita professionale di Chaplin, celebrava l’importante legame tra l’attore e il ballerino russo perché “non solo Charlot si cimenta spesso in passi di danza” ma “Charlie Chaplin ama i danzatori e ne rispetta il lavoro, coreografa le scene di danza dei suoi film dando indicazioni precisissime” agli attori.

Assolutamente fondamentale per ripercorrere l’opera del grande artistica è il sito Charlie Chaplin Archive, dove è presente il catalogo on-line contenente «l’intero archivio professionale e personale di Charles Chaplin scrupolosamente conservato negli anni, dagli esordi sui palcoscenici del music-hall inglese agli ultimi giorni della sua vita in Svizzera». Oltre 75 anni di documenti manoscritti e dattiloscritti, fotografie e ritagli stampa ripercorrono la carriera del più universale tra i cineasti, gettando nuova luce sulla sua carriera, la sua vita, ma soprattutto sul suo metodo di lavoro.

Quella di Charlie Chaplin è stata una carriera lunga e duratura, costellata da molti successi ma anche da profonde sofferenze che ne hanno temprato il carattere e che lo hanno portato ad assurgere all’Olimpo della cinematografia. Dopo tutto come disse Calvero in Luci della Ribalta: “il tempo è un grande autore: trova sempre il perfetto finale” e Chaplin, con le sue movenze scattanti e frenetiche, con il suo sguardo dolce e innocente ha regalato e continua a regalare emozioni senza tempo.

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Testo di Claudia Stritof pubblicato su Juliet art magazine online (23/02/2017)

Durante una pausa di The Kid, 1921. ©Roy Export Company Est._S.A.S. Digitalizzazione Cineteca di Bologna.

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Anaïs Nin: la dolcezza dell’amore https://www.cultmag.it/2017/01/14/anais-nin-la-dolcezza-dellamore/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/01/14/anais-nin-la-dolcezza-dellamore/#comments Sat, 14 Jan 2017 09:04:50 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4358 Anaïs Nin nasce sotto il segno dei pesci a Neuilly-sur-Seine il 21 febbraio del 1903. È stata una scrittrice profonda, un’amante instancabile, una sognatrice e una bambina realista, un vulcano di sensazioni ed emozioni.

Figlia della cantante Rosa Culmell e del pianista Joaquin Nin, la giovane Anaïs all’età di 11 anni viene abbandonata dal padre, il quale decide di dedicarsi interamente alla carriera da musicista; un avvenimento traumatico che segna la vita della giovane Anaïs.

Il tanto chiacchierato, censurato e amato Diario nasce proprio per questa ragione, come una lunga lettera indirizzata al padre, ma mai spedita: “Voglio descriverti, papà caro, ciò che sto vedendo durante questo stupendo viaggio. Potrò così avere l’illusione che tu sia qui con me e che tu stia guardando le cose coi miei occhi”.

Anaïs Nin

Anaïs si trasferisce a New York con la madre e i fratelli dove studia danza spagnola; nel 1923, all’età di venti anni, sposa il bancario e regista Hugh Parker Guiler ma il matrimonio si rivela noioso e poco adatto al suo spirito da eroina amorosa, così la giovane donna inizia diverse relazioni extra-coniugali.

Dopo tanto peregrinare, torna a Parigi alla fine del ’29, dove rimane follemente affascinata dalla vita intellettuale della città e diventando amica e confidente di intellettuali e artisti del suo tempo, con i quali può finalmente far emergere la propria arte e il proprio spirito.

I suoi diari sono un’incantevole opera letteraria, a mio avviso tra i più belli del genere diaristico: uno spaccato nudo e crudo della personalità della Nin; pagine e pagine che nulla celano al lettore ma soprattutto che nulla celano a se stessa, quasi come se il foglio bianco fosse uno specchio della propria anima, un fedele amico che l’ha accompagnata per tutta la vita nell’esplorazione dell’animo umano: “Questo diario è il kief, il mio hashish, la mia pipa d’oppio. E’ la mia droga e il mio vizio. Invece di scrivere un romanzo, mi sdraio con questo libro e una penna e indulgo in rifrazioni e diffrazioni”.

A Louvenciennes conosce Henry Miller, di cui Anaïs rimane subito affascinata, nonostante l’uomo fosse a tratti burbero e solitario. Henry “mi è piaciuto subito, non appena l’ho visto scendere dalla macchina e mi è venuto incontro sulla porta dove lo stavo aspettando. La sua scrittura è ardita, virile, animale, magnifica […] Era snello, magro, non molto alto. Ha occhi azzurri, freddi e attenti, ma la sua bocca rivela emotiva vulnerabilità”.

Anais Nin e Henry Miller

Nelle pagine del primo diario accanto alla figura di Miller, una posizione di privilegio è concessa anche alla misteriosa e inaccessibile June Mansfield, moglie di Henry. June, sempre così sicura di sé, affascinante e aggressiva con gli uomini, con Anaïs si dimostra dolce e sensibile, un atteggiamento che fa nascere in Miss Nin un senso di protezione e amore sconfinato.

Anaïs, attraverso il diario, ricerca se stessa incessantemente tanto da voler intraprendere un percorso di psicanalisi con Otto Rank, con cui non  solo ha una relazione amorosa, ma inizia anche una collaborazione professionale che durerà poco a causa della forte empatia che la scrittrice provava nei confronti dei pazienti di Rank.

Con il sopraggiungere della guerra si trasferisce a New York dove inizia a scrivere storie erotiche commissionate da un collezionista che lei definisce insensibile e senza amore, brutalmente apatico. Le storie iniziarono a essere ironiche e improbabili, di una bizzarria esagerata tanto la stessa Nin afferma: “pensai che il vecchio si sarebbe accorto che stavo facendo una caricatura della sessualità”.

Per lei, donna profonda e passionale, era impossibile scrivere storielle di sesso senza amore e ardore, per questa ragione scrive una lettera al collezionista affermando: “Caro collezionista, noi la odiamo. II sesso perde ogni potere quando diventa esplicito, meccanico […] Lei ci ha insegnato più di chiunque altro quanto sia sbagliato non mescolarlo all’emozione, all’appetito, al desiderio […] Lei non sa cosa si perde con il suo esame al microscopio dell’attività sessuale, con l’esclusione degli aspetti che sono il carburante che la infiamma […] Il sesso deve essere innaffiato di lacrime, di risate, di parole, di promesse, di scenate, di gelosia, di tutte le spezie della paura, di viaggi all’estero, di facce nuove, di romanzi, di racconti, di sogni, di fantasia, di musica….”.

Da queste poche parole si comprende bene il carattere di Anaïs: una donna che certamente amava l’amore carnale, ma che più di tutto amava l’idea stessa dell’amore puro, incondizionato e sincero, sentimento che traspare in ogni singola parola del suo diario – 150 volumi che contano qualcosa come 15.000 pagine dattiloscritte – oggi custodito nel grande archivio della Special Collections Department della UCLA a Los Angeles.

Anais Diaries. ©TheAnaisNinFoundation.

Il diario era “il solo amico sicuro” di Anaïs, l’unico che le rendeva “la vita sopportabile”, ed è solo grazie a esso, che pagina dopo pagina, possiamo scoprire Anaïs, una donna inafferrabile, sempre alla ricerca dei “grandi momenti” della vita fino alla sua morte, avvenuta il 14 gennaio 1977.

Parole dolci, semplici ed embrionali, scritte da una donna affascinante che celava un animo da fanciulla dolce e fragile, capace di entusiasmarsi per i piccoli piaceri della vita ed è proprio grazie ai suoi scritti che Anais ci ricorda che questi momenti esistono, basta solo saper afferrarli.

Nel 1986 è uscito Henry e June, libro in cui viene narrata la turbolenta relazione tra Henry, June e Anaïs, volume seguito dall’omonimo film del 1990 diretto da Philip Kaufman e con la favolosa fotografia di Philippe Rousselot.

Man Ray, Henry Miller Anais Nin, 1945.

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Il primo viaggio di Topolino https://www.cultmag.it/2017/01/13/il-primo-viaggio-di-topolino/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/01/13/il-primo-viaggio-di-topolino/#respond Fri, 13 Jan 2017 06:25:14 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4434 Da piccola ogni settimana con mia madre andavamo in edicola per comprare Topolino e mi divertivo un sacco a leggere le sue avventure, così come mi divertivo a montare i mille giochini che di solito uscivano con il fumetto.

Allora non sapevo che un giorno mi sarei interessata alla sua storia e non sapevo neanche che mi sarei chiesta quando questo fosse venuto alla luce e chi fosse il suo strano inventore. Solo dopo ho scoperto che quel qualcuno era Walt Disney e il debutto ufficiale di Topolino avviene nel 1928 con il cortometraggio Steamboat Willie, il primo dei molti viaggi che Mickey Mouse compie per traghettare i giovani lettori in storie sempre nuove e appassionanti.

All’incirca due anni dopo dal primo cortometraggio, Topolino conquista anche la carta stampata, precisamente è il 13 gennaio 1930 quando sul New York Mirror viene pubblicata la prima striscia di fumetti di Mickey Mouse dal titolo Lost on a Desert Island, in cui Topolino sbarca su un’isola abitata da animali selvatici e cannibali.

La prima strip di Mickey Mouse pubblicata sul New York Mirror, 13 Gennaio 1930.

I primi disegni di Topolino devono alle sapienti mani di Ub Iwerks e Wim Smith che misero su carta le idee e la sceneggiatura di Walt Disney, ma ben presto i due disegnatori vennero sostituti da Floyd Gottfredson, colui che gli da l’aspetto e soprattutto il carattere buono e generoso proprio come oggi lo conosciamo.

Mickey Mouse agli albori infatti si presentava come un topolino monello e anche un pò sbruffone ed è solo in un secondo momento che diventa coraggioso, intelligente ma soprattutto generoso e ottimista.

Topolino ormai è una star! Diventa l’amico di tutti i bambini, così come gli stessi abitanti di Topolinia: Minnie, Pluto, Pippo, Minnie, zio Paperino, Clarabella, Orazio e molti altri.

Sono passati molti anni dalla sua nascita ma Topolino è sempre lì ad accompagnarci perché come disse Walt Disney: “la fantasia non potrà mai invecchiare, per la semplice ragione che rappresenta un volo verso una dimensione che giace al di là del tempo”.

“Se puoi sognarlo, puoi farlo. Ricorda sempre che questa intera avventura è partita da un topolino.”

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Giuseppe Rotunno: il mago della luce. https://www.cultmag.it/2017/01/10/giuseppe-rotunno-il-mago-della-luce/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/01/10/giuseppe-rotunno-il-mago-della-luce/#comments Tue, 10 Jan 2017 08:36:00 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4337 Giuseppe Rotunno, nato a Roma il 19 marzo 1923, è stato uno straordinario direttore della fotografia che ha contribuito con la sua arte a realizzare grandi capolavori della cinematografia italiana e internazionale.

Tra questi: La grande guerra di Mario Monicelli, Rocco e suoi fratelli di Luchino Visconti, Cronaca familiare di Valerio Zurlini, Il Gattopardo di Visconti, Ieri, Oggi e Domani di Vittorio De Sica, La terra vista dalla Luna di Pier Paolo Pasolini, Fellini Satyricon di Federico Fellini, All That Jazz di Bob Fosse, Non ci resta che piangere di Benigni e Troisi, e ancora Le avventure del Barone di Munchausen di Terry Gilliam, Sabrina di Sydney Pollack e La sindrome di Stendhal di Dario Argento.

Giuseppe Rotunno sul set del film ‘La Maja desnuda’ (1958). Courtesy Archivio fotografico della Cineteca nazionale.

Andando a spulciare nella filmografia di Rotunno si rimane stupiti dalla quantità di film a cui ha partecipato come direttore della fotografia ma, soprattutto, ciò che emerge con chiarezza è l’altissima qualità artistica del suo lavoro.

Una storia lunga la sua, fatta di esperienze, sperimentazione e, prima di tutto, di passione; un percorso che ha inizio nella camera oscura del laboratorio fotografico di Cinecittà con Arturo Bragaglia, il quale nutriva una sincera stima verso lo spirito sperimentale e innovatore dell’allora giovanissimo Giuseppe.

Rotunno incontra Bragaglia casualmente. Infatti, dopo la morte del padre, il quale era titolare di una sartoria, Giuseppe Rotunno nel 1938 abbandona la scuola per cercare lavoro, così da aiutare economicamente la famiglia. Un amico lo informa che proprio in quei giorni a Cinecittà si stavano svolgendo dei colloqui per il ruolo di elettricista, ma mentre Peppino era in fila ad aspettare che il suo turno arrivasse, qualcosa accadde.

È lui stesso a raccontarlo in una bellissima intervista realizzata da Giulio Brevetti per Artribune: “Mentre ero in fila” – dice Rotunno – “passarono due o tre miei coetanei che si lamentavano di un certo Bragaglia, che aveva uno studio fotografico. Sentendo che per ragioni di carattere non ci andava nessuno, allora sono andato io. Sono andato da lui, ho fatto amicizia, mi ha preso a ben volere come un padre. A fine settimana mi dava una Leica, io facevo le fotografie per conto mio e il lunedì, quando tornavo allo studio, le sviluppavo e le stampavo, insomma ho cominciato a fare il fotografo”.

Con il sopraggiungere della Seconda Guerra Mondiale il giovane Peppino parte per il fronte con la sua attrezzatura e sul campo realizza documentari da inviare al comando generale dello Stato Maggiore del Regio Esercito; questo almeno fino al settembre del 1943, quando viene catturato in Grecia e deportato in Germania fino al 1945. Tornato in patria, prosegue la carriera come aiuto-operatore, per diventare in breve tempo operatore di macchina e, infine, direttore della fotografia, proprio durante gli anni del cinema neorealista, impegnato culturalmente e “libero di esprimersi”.

È il 1955 quando Rotunno debutta come direttore della fotografia per il film Pane, amore e… di Dino Riso e da allora non si è più fermato, tanto che da abile sperimentatore quale è, oltre ad occuparsi della fotografia, Rotunno non può che diventare un sapiente insegnate per il corso di fotografia alla Scuola Nazionale di Cinema del Centro Sperimentale di Cinematografia, dove giunge nel 1988 per volere di Lina Wertmüller, all’epoca commissario della Scuola.

Sempre nello stesso anno viene chiamato dal regista Terry Gilliam, ex Monty Python, per partecipare alle riprese de Le avventure del Barone di Münchausen, film tratto dai bellissimi racconti settecenteschi di Rudolf Erich Raspe. Un film straordinario, che vanta un cast tecnico di tutto rispetto, infatti oltre a Rotunno per la fotografia, annovera anche la costumista Gabriella Pescucci e lo scenografo Dante Ferretti.

Giuseppe Rotunno con Federico Fellini sul set del film ‘Amarcord’ (1973). Courtesy Archivio fotografico della Cineteca nazionale.

In uno dei molti dialoghi tra Il Barone Münchausen e Sally Salt, alla domanda sul perché l’uomo cerchi disperatamente di morire, lui risponde:

«Perché, perché, perché! Perché tutto è logica e ragione oggigiorno! Scienza, progresso… Bah, dahhh! Leggi dell’idraulica, leggi della dinamica sociale, leggi di questo, leggi di quell’altro! Non c’è posto per i ciclopi a tre gambe dei mari del sud, non c’è posto per alberi di cetrioli e oceani di vino… Non c’è posto per me!»

Una semplice e, al giorno d’oggi, inconfutabile verità. Qualche volta nella nostra vita dimentichiamo di sognare e allora ecco che fa capolino qualche pellicola a ricordarcelo.

Come afferma lo stesso Giuseppe Rotunno, il mestiere del direttore della fotografia consiste in questo: trovare i difetti che vi sono nella luce e “trasformarla alle nostre esigenze di racconto. Non sempre la luce che si trova nella nostre città è utile al racconto che stiamo facendo per cui se contrasta con la storia impariamo a tradurla a trasformala in modo tale che rappresenti meglio le emozioni della storia che stiamo girando”.

Il direttore della fotografia e il regista, lavorando insieme sinergicamente, rendono possibile il sogno e permettono allo spettatore “di entrare in un racconto cinematografico senza essere distratti” da altri elementi perché, in fondo, aveva ragione François Truffaut quando affermava “fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell’infanzia”.

Testo a cura di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati

Fonti: Centro Sperimentale di Fotografia, Associazione Italiana Autori della Fotografia CinematograficaCinematographers, Treccani, Artribune.
Articolo aggiornato in data 8 maggio 2019.
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Piacere, Ettore Scola. Una mostra a Roma celebra il genio del grande cineasta. https://www.cultmag.it/2016/12/30/piacere-ettore-scola-una-mostra-a-roma-celebra-il-genio-del-grande-cineasta/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/12/30/piacere-ettore-scola-una-mostra-a-roma-celebra-il-genio-del-grande-cineasta/#respond Fri, 30 Dec 2016 18:19:15 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4268 Siamo nel 1938: Antonietta e Gabriele si muovono lentamente tra le lenzuola stese ad asciugare su un soleggiato terrazzo romano. Antonietta indispettita dalla presenza di Gabriele raccoglie i panni velocemente mentre l’uomo le rivolge molte domande. Lei è seria, le sue labbra serrate, le risposte secche e diffidenti. Ad un certo punto Gabriele le domanda: «Perchè non ridi mai?». Poi il silenzio…

Lei pensa che l’uomo sia andato via senza salutarla ma un attimo dopo Gabriele la abbraccia avvolgendola nel lenzuolo bianco. Un gioco innocente, fanciullesco che libera la donna da tutte le sue paure e subito Antonietta si lascia andare in una risata profonda.

Disegno Una giornata particolare, 1977

Questa è la famosissima scena interpretata da Marcello Mastroianni e da Sophia Loren nel film Una giornata particolare di Ettore Scola; un vero capolavoro di tecnica per i sapienti controluce, le carrellate veloci alternate a movimenti lenti e meditativi e per primi piani indagatori, ma soprattutto il film è un capolavoro di narrativa che racconta con schiettezza una storia di solitudine e amore.

Il 19 gennaio ricorre l’anniversario di morte del grande cineasta Ettore Scola e proprio in questi mesi  presso il Museo Carlo Bilotti di Roma si sta svolgendo la prima mostra postuma a lui dedicata: Piacere, Ettore Scola.

Riusciranno i nostri eroi, 1968. © Foto Roma’s Press Photo

L’esibizione curata da Marco Dionisi e Nevio de Pascalis non vuole essere solo un omaggio al genio creativo di Ettore Scola ma anche un viaggio sentimentale alla scoperta della sua vita e delle sue passioni.

La mostra si snoda in ben nove sezioni, divise cronologicamente e tematicamente, che vanno a comporre un percorso intenso nella vita del cineasta. Si parte dall’infanzia vissuta a Trevico, paese in provincia di Avellino, alla giovinezza romana e all’inizio della sua carriera da vignettista per il settimanale il Marc’Aurelio, si passa poi all’approdo in Rai e nel 1964 al suo debutto alla regista.

L’ultima sezione della mostra, quella tematica, è dedicata ai rapporti lavorativi e di amicizia che Scola ha instaurato durante la sua lunga carriera e alle sue molteplici passioni: quella per il teatro, quella per Roma,  il suo grande impegno civile e politico e infine particolare rilevanza è data al disegno, tra le più importanti passioni del regista.

Se permettete parliamo di donne, 1964. © Foto Angelo Frontoni

Il suo è un tratto netto e definito attraverso il quale ha rappresentato con umorismo e ironia gli anni da lui vissuti e in mostra non poteva mancare il suo primo disegno pubblicato sulla rivista Il Travaso delle idee del 1946, dieci disegni realizzati per diverse riviste dell’epoca, tra cui quelli per il Marc’Aurelio, i disegni dedicati al grande Totò e infine ben duecento disegni ispirati ai suoi film.

Non meno importanti sono le fotografie da lui scattate, immagini personali e inedite, a cui si aggiungono premi, oggetti di scena, locandine, carteggi e contributi audiovisivi di vario genere, tra cui l’intervista Maestro realizzata dai curatori della mostra che ripercorrere la vita di Ettore Scola: “un professionista eclettico, complesso, acuto e amaro osservatore del costume nazionale”.

La mostra, visitabile fino all’8 gennaio presso il Museo Carlo Bilotti di Roma, è anche un libro: «il primo volume monografico edito da Edizioni Sabinae con prefazioni di Silvia Scola, Walter Veltroni, Jean Gili e Piera Detassis».

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Piacere, Ettore Scola

A cura di: Marco Dionisi e Nevio de Pascalis

Museo Carlo Bilotti, Viale Fiorello La Guardia, Roma

17 settembre 2016 – 8 gennaio 2017

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Disegno Che strano Chiamarsi Federico, 2013

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Jumanji: viaggio nella fantasia https://www.cultmag.it/2016/10/20/jumanji-viaggio-nella-fantasia/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/10/20/jumanji-viaggio-nella-fantasia/#respond Thu, 20 Oct 2016 16:30:47 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4156 “Jumanji, un gioco che sa trasportar chi questo mondo vuol lasciar.
Tira i dadi per muovere la pedina, i numeri doppi tirano due volte e il primo che arriva alla fine vince”.

Chris Van Allsburg, Jumanji

Chris Van Allsburg, Jumanji, Houghton Mifflin Company, Boston 1891.

Per chi come me è cresciuto negli anni Novanta avrà sicuramente visto (e amato) il film Jumanji, pellicola del 1995 diretta da Joe Johnston e interpretata dal mitico Robin Williams.

Film dalla sceneggiatura avvincente e mai banale è tratto dall’omonimo libro del 1981 di Chris Van Allsburg, raffinato scrittore e illustratore di libri per ragazzi il quale annovera nel suo curriculum storie indimenticabili come The Polar Express, Il fico più dolce e Zathura (sequel di Jumanji).

Le regole del gioco sono semplici ma gli effetti imprevedibili, non a caso lo scrittore ha intitolato il libro  Jumanji che in lingua Zulù significa “molti effetti”, volendo alludere alle conseguenze che ogni lancio di dadi ha sui quattro protagonisti e sugli abitanti della città.

Nella versione cinematografica – la cui direzione della fotografia è affidata all’abile mano di Thomas Edward Ackerman – Alan Parrish è un figlio modello, vittima di bullismo, il quale soffre tremendamente a causa della lontananza emotiva dei genitori e in particolare di quella del padre.

Alan litiga con il padre e prepara la valigia per scappare di casa ma un suono di tamburi proveniente da uno strano gioco che nel pomeriggio aveva trovato in un cantiere adiacente la fabbrica del padre lo ferma.

I tamburi vengono sentiti anche dalla sua compagna di classe, così i due ragazzi incuriositi aprono la scatola in legno e iniziano a giocare un pò annoiati e impauriti. Sul tabellone compare la scritta “vola di notte. Meglio scappare. Con queste creature non c’e da scherzare”. Si odono strani rumori, ma non succede nulla fino a quando Alan non tira nuovamente i dadi: “nella giungla dovrai stare finché un 5 o un 8 non compare”.

Alan inizia a smaterializzarsi e mentre urla “Sarah!! Tira i dadi, Sarah!! Saraahh!” ecco che dal caminetto compaiono dei pipistrelli che spaventano la sventurata compagna di classe che scappa terrorizzata.

Alan scompare! Con un salto temporale di quasi trent’anni lo spettatore si trova nuovamente nella casa della famiglia Parrish, che ora viene acquistata da Nora Shepherd, la quale di trasferisce con i due nipoti Judy e Peter, rimasti orfani da poco tempo… Il resto si può ben immaginare, infatti i due fratelli sentono il rumore dei tamburi, scovano il gioco ed inizia la loro avventura in Jumanji, che altro non è che la continuazione della partita iniziata ormai molti anni prima da Sarah e Alan.

Jumanji è il gioco di chi vuole fuggire da una vita di solitudine perché obbliga i giocatori ad affrontare caparbiamente “ogni sconvolgente conseguenza del gioco” affidandosi ai propri compagni di gioco, solo così Sarah, Alan, Judy e Peter raggiungono Jumanji.

Se il film è avvincente ed emozionante le illustrazioni di Van Allsburg sono assolutamente uniche: caratterizzate da un tratto morbido ma ben definito tanto da tratteggiare scene realistiche dalla prospettiva fortemente scorciata; l’accentuato linearissimo si traduce in una caratterizzazione attenta degli ambienti e dei personaggi, con un’attenzione data al dettaglio quasi da miniaturista. Le immagini in bianco e nero  ricche di particolari epifanici trasportano il lettore in un mondo  al limite tra il reale e il fantastico, dove ad essere indagata è l’interiorità dell’uomo con le sue paure, le sue fragilità e i suoi desideri.

Van Allsburg giunge all’arte dell’illustrazione dopo essersi dedicato per molti anni alla scultura ed è solo grazie alla moglie, che alla fine gli anni ’70 mostra i disegni ad un editore di libri per ragazzi, che pubblica il suo primo lavoro The Garden of Abdul Gasazi, seguito subito dopo da Jumanji.

Nel 2013 Jumanji per la prima volta è stato edito in Italia da Logos edizioni con le traduzioni di Francesca Del Moro mentre nel 2017 è prevista l’uscita del reboot del film.

Testi © Claudia Stritof

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Chris Van Allsburg, Jumanji, Logos edizioni, Modena 2013.

 

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Behind the scenes: Arancia Meccanica. Fotografie di Dmitri Kasterine. https://www.cultmag.it/2016/03/13/behind-the-scenes-arancia-meccanica-fotografie-di-dmitri-kasterine/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/03/13/behind-the-scenes-arancia-meccanica-fotografie-di-dmitri-kasterine/#respond Sun, 13 Mar 2016 10:33:46 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3796 All’inizio fu il silenzio, poi lo schermo rosso e a seguire le note di The Funeral March of Queen Mary di Henry Purcell, arrangiata da Walter Carlos e Rachel Elkin. Così inizia Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, un film che non ha certo bisogno di presentazioni.

Alex guarda dritto in camera, il suo sguardo è sicuro, fiero e mai titubante. La cinepresa si allontana ed «Eccomi là. Cioè Alex e i mie drughi. Cioè Pit, Georgie e Dim. Eravamo seduti nel Korova milkbar arrovellandoci il gulliver per sapere cosa fare della serata», e tra un bicchiere di Latte + e l’altro, il pensiero non poteva che volgere «all’esercizio dell’amata ultraviolenza».

Un incalzare di crudeltà fisica e psicologica che si sussegue senza soluzione di continuità fino alla fine del film: dal Korova milkbar, la scena si sposta in un sottopasso dove i quattro ragazzi aggrediscono un barbone ubriaco, poi vanno in un teatro abbandonato e affrontano la banda rivale capeggiata da Billy Boy, sulle note della Gazza Ladra di Gioacchino Rossino, un energico, vitale, drammatico balletto che mette in scena la giocosità e la violenza del loro comportamento; quindi scorrazzano nelle campagne londinesi su una fiammante “Durango”, chiaramente rubata, per giungere alla villa dei coniugi Alexander, che vengono picchiati e umiliati sulle note di Singin’ in the Rain.

Dmitri Kasterine, Four Droogs. ©Dmitri Kasterine

Dmitri Kasterine, Four Droogs. ©Dmitri Kasterine

Dmitri Kasterine, fotografo britannico di notevole spessore, coglie tutto questo: l’armonica, tragica, grottesca violenza dei drughi e l’atmosfera rarefatta del making of.

In una di queste fotografie Stanley Kubrick siede con Kasterine sotto una piattaforma costruita per proteggere le macchine da presa, mentre fuori piove. I due chiacchierano, lo sguardo di Kubrick è fisso verso l’obiettivo, un po’ annoiato e un po’ pensieroso. Il fotografo non ci pensa un attimo e scatta. Stivaloni in primo piano, gambe incrociate, Kubrick con una mano si tira indietro i capelli, mentre con l’altra tiene la sua cinepresa Arriflex.

Kubrick under platform. ©Dmitri Kasterine

Kubrick under platform. ©Dmitri Kasterine

Dmitri Kasterine è nato in Inghilterra, il padre era un ufficiale dell’esercito Russo mentre la madre era inglese, prima di approdare alla fotografia, svolge diversi lavori: mercante di vini, broker, pilota di aerei e di auto da corsa. Negli anni ’60 tutto cambia e inizia a collaborare con agenzie e riviste importanti come fotografo, ritraendo i maggiori protagonisti dell’arte e della cultura degli ultimi decenni: Martin Amis, David Hockney, Francis Bacon, Samuel Beckett, Mick Jagger e molti altri artisti.

In questi anni viene a conoscenza dei film e della fama di Kubrick e decide di fotografarlo per la rivista Queer. Senza perder tempo Kasterine si reca negli Shepperton Studios dove Kubrick sta girando Il dottor Stranamore, alla fine di quella giornata, il regista gli chiede di lavorare per lui come fotografo, aggiungendo: “You stand in the right place”.

Dmitri ha lavorato con Kubrick sul set di 2001: Odissea nello spazio, de Il dottor Stranamore e Arancia Meccanica, veniva definito quello “speciale”, perchè girovagava sul set scattando immagini del dietro le quinte, che poi Kubrick avrebbe voluto inserire nei titoli di coda, cosa che però non fece mai.

Testo a cura di Claudia Stritof.

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Questo articolo è stato scritto in seguito alla visita presso la  ONO arte contemporanea di Bologna, che ha presentato la mostra Stanley Kubrick – Arancia Meccanica. Fotografie di DMITRI KASTERINE, la quale celebra il genio del fotografo e la pellicola di Kubrick, proprio in occasione del 45° anniversario dell’uscita del film nelle sale. Costumi futuristici, musica classica, scenografie pop, importanti richiami storici e colti dialoghi si susseguono incessanti sulle note di Rossini e del «buon vecchio Ludovico Van». Arancia Meccanica, un film diventato un cult per molte generazioni e una pietra miliare della cinematografia internazionale.

Stanley Kubrick – Arancia Meccanica Fotografie di DMITRI KASTERINE

ONO arte contemporanea, via Santa Margherita, 10 – Bologna

19 marzo- 7 maggio 2016

www.onoarte.com?utm_source=rss&utm_medium=rss

©Dmitri Kasterine.

©Dmitri Kasterine.

kubrick leaning on Moy. ©Dmitri Kasterine.

Kubrick leaning on Moy. ©Dmitri Kasterine.

Droogs in hall of flats. ©Dmitri Kasterine.

Droogs in hall of flats. ©Dmitri Kasterine.

Alex and droog with Adrienne over shoulder. ©Dmitri Kasterine.

Alex and droog with Adrienne over shoulder. ©Dmitri Kasterine.

Alex look into camera rape scaene. ©Dmitri Kasterine.

Alex look into camera rape scaene. ©Dmitri Kasterine.

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