Diario di viaggio – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Wed, 16 Feb 2022 07:59:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 La vibrante Essenza del Silenzio https://www.cultmag.it/2022/02/15/la-vibrante-essenza-del-silenzio/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2022/02/15/la-vibrante-essenza-del-silenzio/#respond Tue, 15 Feb 2022 06:27:00 +0000 https://www.cultmag.it/?p=7039 Cos’è cambiato dopo otto anni dalla scomparsa di Mari?

È complesso dirlo, sopratutto in questo periodo della mia vita.

Cercare le esatte parole, gli intervalli e rimettere in ordine i pensieri in modo sensato è molto difficile.

La scrittura non fluisce da qualche tempo! È un dato di fatto e, quando questo accade, credo che l’unica soluzione possibile sia il silenzio, così da dare spazio alla comprensione.

Troppa acqua è passata sotto questi ponti e – come qualcuno di importante ha già teorizzato con il suo celebre Pánta rheî -, tutto scorre.

Fin qua non fa una piega; in che modo tutto sia mutato, ancora non si comprende bene, nonostante il disegno si stia definendo.

Ultimamente mi è capitato di studiare il Compianto sul Cristo morto di Lorenzo Lotto, conservato a Recanati.

Un’opera bellissima in cui il Cristo livido ed esanime campeggia in primo piano; esso è sostenuto da Giuseppe di Arimatea dagli occhi inumiditi dal pianto, dall’Angelo con lo sguardo sgomento, mentre Maria Maddalena porge il suo ultimo saluto al Redentore e, infine, Maria, la figura che più di tutte ha destato il mio interesse.

Di lei vediamo pochissimo perché avvolta nel pesante manto blu dietro cui nasconde il proprio dolore. Gli unici dettagli visibili sono lo zigomo e la fronte aggrottata, a sottolineare lo stato d’animo dilaniato alla vista del figlio morto.

Dettagli che hanno fatto riemergere in me il ricordo di alcuni momenti vissuti il 12 febbraio 2014, giorno in cui diedi l’ultimo bacio a mia sorella.

Nitida è l’immagine di mia madre che, dignitosa, ma con il cuore in frantumi, accolse amici, parenti e conoscenti nei giorni del funerale di Mari.

Lei soffriva immensamente e nonostante questo, non ha mai mostrato (pubblicamente) il minimo segno di cedimento.

Ricordo che quel giorno mi disse di non lasciarmi sopraffare dal fragore confuso e dalla disperazione, perché la parte più difficile sarebbe arrivata dopo, quando saremmo rimaste sole ad ascoltare l’assordante silenzio che avrebbe invaso la nostra quotidianità.

Lei, che già conosceva così profondamente il dolore,  con quelle parole aveva cercato di proteggermi.

Io, ignara, non potevo immaginare che il viaggio si sarebbe rivelato così devastante.

Susan Sontag, in Malattia come metafora, scrive: «Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese».

Proprio come aveva predetto mia madre – e già dotata del mio “passaporto meno buono” – l’assordante Silenzio suonò puntuale alla nostra porta e da quel momento, mano per la mano, iniziammo il nostro cammino in terre arse e desolate, in cui, nel corso di questi anni, ho provato sensazioni mutevoli e contrastanti.

Nella mia lunga peregrinazione emozionale, alla ricerca di qualcuno diverso da me, che potesse mettere fine all’insopportabile Nulla, a un certo punto ho deciso di non affidarmi più a nessuno, di crescere e di fare affidamento solo sulle mie sensazioni, imparando ad ascoltare ciò che prima non riuscivo a udire.

Non sopportavo il Silenzio che continuava a ingombrare la mia mente con rumori assordanti e senza uno spartito da seguire.

Vagare, lasciarsi trasportare, fidarsi, annullarsi… non sentirsi. Chiaramente questa non era la strada da percorrere.

Il Silenzio ha sembianze mutevoli, sta a noi saper godere del suo aspetto migliore, scrutandolo dalla giusta prospettiva.

D’altro canto il silenzio sul pentagramma è rappresentato proprio con una “pausa” e, come afferma il fisico Gianni Zanarini, «nella musica come nel linguaggio, il silenzio è condizione necessaria per l’ascolto. È una pausa di silenzio quella che separa una parola dall’altra, una frase dall’altra, o anche una nota dall’altra, un motivo musicale dall’altro».

Il silenzio è un passaggio necessario affinché la parola o la musica possano esistere, diventando un’esperienza totalizzante se ci si ferma ad ascoltarlo.

Battiti di cuore, gesti, il proprio mutevole respiro… quello che credevo essere assordante silenzio, nella solitudine dei miei pensieri, ha manifestato la sua più vibrante Essenza e Presenza.

Dal nulla è emerso un suono, un battito vitale; seguito a breve distanza da un gong, il cui suono ha echeggiato nella radura vulcanica invadendo l’Essere.

Oggi non cerco più di sciogliere i fili, alla fine la musica risuona nell’anfiteatro, nonostante questi siano intricati e disordinati… proprio come avviene nel live da Pompei dei Pink Floyd.

Pink Floyd, Live da Pompei

Se dovessi descrivere ciò che io chiamo l’armonia del Silenzio, la sensazione che più si avvicina a tale stato, è proprio Echoes… su queste note proseguo il mio viaggio in terre sconosciute, circonfusa dalla luce delle persone che mi stanno accanto e che per primi hanno compreso il Silenzio e talvolta il mio bisogno di Solitudine.

Otto anni fa – in questi stessi giorni – baciavo la mano fredda di mia sorella e il mio Essere si annullava.

Oggi invece chiudo gli occhi e resto in contemplazione di un ancestrale melodia, la quale, sempre più, spero mi possa avvicinare a quella stessa compostezza e bellezza, che vedo nella persona che più amo.

Testo e vita di @Claudia Stritof.
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Il giorno del tuo 35° compleanno https://www.cultmag.it/2021/09/12/il-giorno-del-tuo-35-compleanno/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/09/12/il-giorno-del-tuo-35-compleanno/#respond Sun, 12 Sep 2021 18:12:18 +0000 https://www.cultmag.it/?p=7014 Lei aveva 27 anni, oggi sarebbero stati 35, mentre io vado per i 34.

Trentaquattro anni?! Ormai iniziano a essere tantini e percepisco il cambiamento in me e nei miei amici; cambiano le nostre abitudini e i nostri progetti di vita.

Addio alla meravigliosa spensieratezza della fanciullezza, quella che faceva credere invincibile e che rendeva la mente leggera. Non c’erano programmi, si assaporava la bellezza del momento, una chitarra intorno al falò, il treno dal sud per andare al concerto del Primo Maggio, la partita di calcetto a Camocelli e i viaggi in littorina.

Il passato è denso di ricordi e ogni tanto mi chiedo come sarebbe stata la mia vita con Mari accanto. Dove sarei stata oggi? Cosa avrei fatto? Sarei tornata giù o avrei abitato altrove? Avrei avuto una casa tutta mia o avrei continuato a fare i mie mille traslochi? 

E Lei? Lei sarebbe diventata Notaio? Avrebbe avuto dei figli e quindi io dei nipotini? Dove avrebbe vissuto? La nostra crociera sui fiordi l’avremmo fatta?

Domande. Tante domande, domande che non potranno mai avere una risposta e che ogni tanto si affastellano nella mia mente e mi fanno riflettere sulle decisioni prese in passato. La sua morte è stato il mio spartiacque, perché è stato quello l’esatto momento in cui la mia vita è cambiata.

Sono stata in balia di venti e burrasche. Ho tenuto il timone saldamente tra le mani, altre volte mi sono persa, altre ancora ritrovata. Ho sorriso, ho pianto, mi sono annoiata, mi sono divertita.

La vita è un percorso in continuo divenire, ci porta a mutare perennemente e se esattamente un anno fa cercavo con tutta me stessa un periodo di pausa e di silenzio dal rumore esterno, quest’anno invece comprendo di non essermi mai concessa quel tempo tanto agognato.

Una meravigliosa parola “tempo” e ancor di più lo è desiderare che questo si possa fermare come per magia su un dato momento vissuto per assaporare quel che si sta esperendo.

Quante volte durante la nostra vita accade questo? Raramente e me ne accorgo ora.

Non è facile comprendere gli avvenimenti che ci accadono giornalmente, perché quando si provano sensazioni forti, quali il dolore o la felicità, si rimane accecati, inebriati, storditi, sottomessi.

Dal giorno in cui Lei è morta ho cercato disperatamente di dare un nome al dolore e ai sentimenti che provavo. Li affrontavo e li sondavo con la riflessione, la scrittura e la fotografia, ma solo oggi mi accorgo di avere dimenticato la cosa più importante: imparare a dare un nome a tutte le mie emozioni, comprese quelle positive, per affrontare con sicurezza e maturità il mio futuro.

Scrive Alda Merini: “ieri ho sofferto il dolore”. Una poesia struggente, come solo lei sa fare. Intrisa di maturità sentimentale e di una delicatezza dilaniante che attraversa il lettore e afferra  il cuore stringendolo in una morsa.

Questo fa un animo sensibile, consapevole del proprio Essere e del proprio vissuto: affronta le proprie emozione e le comprende.

Da un nome e un’identità al proprio Essere.

Tempo fa in un articolo di una psicologa, leggevo: “l’atto di ‘dare un nome’ spesso segna l’inizio di una vita […] Chiedersi come si chiama quello che ho dentro è un passaggio fondamentale nell’acquisizione di una vera scoperta di noi, che non finisce mai”. 

È difficile raggiungere l’intelligenza emotiva, ma va fatto, perché altrimenti si rischia di avere rimpianti e di non comprendere la propria realtà.

Lo scritto continua: “attraverso un importante ‘filo conduttore’, quello delle emozioni, dei vissuti e dei ricordi, possiamo comprendere meglio i nostri desideri, le nostre aspettative, le nostre reazioni: sono tutte importanti, da ascoltare con attenzione, da immaginare nel loro dispiegarsi ed attuarsi, fino alle estreme conseguenze. È come immaginarsi il film di quello che vorremmo, nei dettagli, aiuta a conoscersi, a precisarsi meglio gli obiettivi di vita, a favorirne la realizzazione, a modificarli evitando di inseguire effimeri, tanto deludenti, falsi obiettivi”.

Dare un nome a ciò che fino a questo momento non sapevamo definire segna l’inizio del viaggio.

Mi sono sempre mossa a velocità differenti, anche schizofreniche, e se nello scritto dell’anno scorso chiedevo a me stessa una pausa, oggi credo che, a un anno di distanza, io non abbia voglia di fermarmi.

Affrontare le paure, ascoltare il silenzio, elogiarlo, comprendere la fitta trama che si sta dipanando è ciò che credo essere necessario.

È impossibile dimenticare se stessi per cercare qualcosa che non si è, ma si può aggiustare il tiro e allora quel romanticismo pervasivo, quella smodata voglia di sognare e di sorprendere, con il giusto nome e consapevolezza, assumerebbe anche una solida e concreta forma.

Questa estate, dopo 7 anni dalla morte di Mari, ho deciso di sostituire il quaderno rosa all’interno della cappella dove è sepolta. Non avevo mai avuto il coraggio di leggerlo, credevo fosse irrispettoso farlo, perché, come me, molte persone in questi anni hanno scritto frasi d’amore e di speranza a lei dedicati. Un dialogo silenzioso e amorevole.

Dopo aver passato un intero giorno a guardarlo, alla fine ho deciso di lasciarmi traghettare dal fiume di parole e ho camminato in punta di piedi in tante vite differenti, compresa la mia.

C’è chi è stato male, ma ha avuto il coraggio di lottare contro una malattia devastante; chi ha voluto cambiare vita e Le chiedeva il coraggio per mollare tutto; c’è chi in sette anni ha realizzato il sogno di una vita.

Ho letto preghiere, ho provato speranza, ho sentito determinazione e vissuto ricordi, anche quelli della nostra infanzia. Ho letto messaggi indirizzati a me e parole d’amore dedicate a mia madre.

Parole in movimento, parole sature e consapevoli…

Merini chiudeva la sua poesia con un interrogativo: “perché l’immobilità mi fa terrore?”.

Un brindisi a te mia dolce sister nel giorno del tuo trentacinquesimo compleanno.

Sempre nel mio cuore.

Testo e vita di ©Claudia Stritof 
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Il Medioevo contemporaneo: I “Vattienti” di Nocera Terinese. https://www.cultmag.it/2021/04/02/il-medioevo-contemporaneo-i-vattienti-di-nocera-terinese/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/04/02/il-medioevo-contemporaneo-i-vattienti-di-nocera-terinese/#comments Fri, 02 Apr 2021 13:00:15 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1676 Vi racconto una storia: quella del paese Nocera Terinese e dei suoi abitanti.

Il piccolo borgo, situato in provincia di Catanzaro, è circondato da monti aguzzi lussureggianti di verde, quello dei suoi alberi e dei suoi rovi; mentre, qui e lì, si vedono pascoli di pecore e contadini.

Un borghetto ben curato, i cui abitanti sono ospitali e molto gentili, come spesso accade nei paesini dell’entroterra calabrese, che hanno fatto della loro cultura ancestrale un punto di forza.

A Nocera Terinese, durante la Settimana Santa, qualcosa accade perché le sue stradine si animano grazie alla presenza di “fuori sede” tornati a casa per le vacanze, di turisti e fotografi, che giungono da ogni dove per ammirare il famosissimo rito dei vattienti” (i flagellanti), che – con il loro sangue – tingono il paese di color rubino.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Appena si giunge a Nocera si ode dapprima il vociare dei fedeli e subito tra la folla appare la bellissima statua della Madonna con il Cristo portata a spalla dai membri della Confraternita, tutti vestiti di bianco e con il capo adorno da un serto. Con grande devozione e come sempre avviene durante le feste di paese, i confratelli fanno sfilare la Madonna per le stradine inerpicate del paese, procedendo con un andamento lento e posato, fermandosi di tanto in tanto per benedire gli abitanti, la cui devozione si scorge nel movimento incessante delle labbra bisbiglianti e dalle mani portate al petto, sulle spalle e alla fronte.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

In quella che potrebbe sembrare una normale processione pasquale, ecco spuntare all’improvviso il primo vattente.

Esce dal portone della propria casa, con al seguito la madre che con occhi ricchi d’amore, guarda il proprio figlio allontanarsi e iniziare il suo calvario.

L’uomo è vestito con una maglietta nera e con un pantaloncino della stessa tinta arrotolato al pube, porta in testa un panno tenuto da una pesante corona di spine, in una mano porta il cardo”un disco di sughero su cui sono fissate con uno strato di cera tredici schegge di vetro appuntite, volte a simboleggiare i dodici Apostoli e la figura di Cristo; infatti le punte sono di tute di egual altezza, fatta eccezione di una, più acuminata, volendo alludere al tradimento di Giuda.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Nell’altra il vattente mantiene in mano la rosa”, un secondo disco di sughero liscio con cui percuote le gambe. Esso è legato con un laccio a un giovane, trasfigurazione dell’Ecce Homo, proprio per sottolineare l’unitarietà delle due figure, ruolo solitamente ricoperto da un bambino con petto nudo e avvolto dalla vita in giù da un panno rosso che porta in braccio una croce rivestita da un nastro rosso e sul capo un serto.

Accanto a queste due figure vi è un terzo uomo, di solito un parente o un amico che versa sulle gambe del vattente un infuso di vino e aceto per disinfettare le ferite e prevenire la formazione di croste.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Il suono del cardo percosso sulla carne è netto e deciso, seguito subito dopo da rivoli di sangue che creano una pozza rossa ai piedi del vattente mentre i muscoli vibrano visibilmente per la tensione.

Senza che si possa prendere un attimo di respiro, in quest’atmosfera mistica e ancestrale, subito dopo si ode lo sfregare della rosa passata sulla gamba, il vino scivolare sulle gambe e ricadere sul lastricato e di nuovo il suono del cardo, della rosa e del vino… interrotto solo dall”inchino alla Madonna, per poi proseguire nella veloce corsa verso le diverse stazioni religiose del paese.

Mentre la Madonna prosegue il suo percorso, noi decidiamo di fare un giro per le stradine del paese e arriviamo alla grande piazza che è colma di sangue secco sulle pareti, sul lastricato e sulle scale.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Visitiamo la bellissima chiesa del paese, ma a un certo il suono del cardo sulla carne richiama nuovamente la nostra attenzione.

Usciamo di corsa e questa volta i vattienti sono tre, tutti piuttosto giovani; dopo aver impresso il loro “marchio” sulla chiesa, riprendono la corsa incessante, mentre le impronte dei piedi nudi sull’asfalto tradiscono la loro direzione.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Nel momento in cui i confratelli riportano la statua della Madonna all’interno della chiesa, un grande applauso risuona per le stradine del borgo, mentre i vattienti sono ormai rientrati in casa, dove ad attenderli sono le madri, le mogli e le famiglie , che nel frattempo hanno preparato un infuso caldo con rosmarino che lava la carne flagellata e cicatrizza i minuscoli fori sulla carne.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Finisce così la mia visita a Nocera Terinese e il mio viaggio in questa antica tradizione. Un avvenimento di forte impatto emotivo e spirituale, tanto che alla visione del primo vattente, non riuscì a scattare nemmeno una fotografia visto lo scorrere copioso del sangue sulle loro gambe, come se all’improvviso fossi stata trasportata nel Medioevo a mia insaputa; ma una volta realizzato ciò che stava accadendo è stato un momento unico ed emozionante.

Sono stata percorsa da un brivido, cercando di comprende sempre più affondo il motivo di tale flagellazione e di questo male auto-inflitto, ma poi capisci che ciò a cui stai assistendo, non è una finzione scenica, ma l’autenticità di un sentimento, quello religioso dei devoti, che comprensibile o meno che sia, adempiono ad un voto fatto per ottenere una grazia o perché già ottenuta.

Questa è la storia di antichi riti e credenza ancestrali, avvolte da un’aurea mistica che oscilla tra sacro e profano, così come diverse sono le teorie sull’origine del rito.

Storie di vita paesana e di riti popolari che continuano a vivere in un piccolo paesino calabrese, da visitare e condividere con i suoi abitanti, i noceresi, che di storie e leggende ne hanno da raccontare.

Testo e immagini ©Claudia Stritof. All rights reserved.
Articolo scritto in data 7/04/2015. Revisione del 2/04/2021.
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Strade principali e vie secondarie https://www.cultmag.it/2021/02/12/strada-principale-e-vie-secondarie/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/02/12/strada-principale-e-vie-secondarie/#respond Fri, 12 Feb 2021 08:26:55 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6745 Io ero la piccola, Lei la grande. Ci passavamo diciassette mesi di differenza e credevo che non mi avrebbe mai lasciata. Ho avuto una sorella ma, a soli 26 anni, mi è stata strappata via da un mostro famelico.

Se dovessi scrivere un romanzo sulla nostra storia, questo sarebbe l’inizio.

Scriverne non è mai stato facile, nonostante io l’abbia fatto regolarmente, a partire dal 12 marzo di quell’anno maledetto.

Il motivo? Trovare una via di uscita al dolore che mi stava annientando, prima a causa della malattia, poi per la sua assenza.

Ernest Hemingway ha scritto: “non c’è nulla di difficile nella scrittura. Tutto ciò che fai è sederti alla macchina da scrivere e sanguinare”.

Così è! Chi parla di sé, qualunque sia il mezzo di scrittura, “sanguina”!

In questi giorni nel mio personale “museo della memoria” ha fatto la sua comparsa il fotografo Settimio Benedusi con il progetto ES_SENZA del 2015.

Un lavoro che inizia con un autoritratto realizzato dal fotografo poco prima di andare alla messa commemorativa in suffragio del padre, morto otto anni prima.

Ritrattosi insieme alla madre Renza, i due soggetti, metaforicamente “nudi” di fronte ai nostri occhi, affrontano l’assenza; una dualità, questa tra presenza/assenza, che viene vissuta costantemente da coloro che hanno perso la persona amata.

Evidentemente sentita anche dallo stesso Benedusi, la cui fotografia, nata da un’esigenza di espressione personale, si è tradotta in una solida riflessione concettuale.

Settimio Benedusi, ES_SENZA, 2015 ©Settimio Benedusi

Quando qualcuno ci lascia si è ossessionati dalle sue fotografie e Benedusi non è da meno, ma lui non si limita a osservare le immagini con nostalgia o con photos, direbbero i greci, ma le estrapola dall’album di famiglia e le modifica con photoshop, cancellando la figura del padre, prefigurando il luttuoso evento e la solitudine da esso derivata.

Diversi tipi di “scrittura” ci portano a un unico fine: sondare il proprio passato e le proprie emozioni; guardarle in faccia senza aver paura. Sanguinare e reagire.

Il mio cammino è iniziato sette anni fa e dopo il primo scritto, letto in chiesa dalla voce spezzata di mia madre, sprofondai nel divano di casa attanagliando la mente con mille domande.

A un anno di distanza confesso di aver imparato a pronunciare la parola morte; una piccola bugia detta a me stessa probabilmente per sopravvivere alla perdita.

Rivivevo i nostri ricordi d’infanzia e pian piano riaffioravano quelli felici, dimenticando progressivamente la malattia.

Nel giorno del suo 31° compleanno, capivo di essermi smarrita nuovamente e mi appellavo alla sua sicurezza per ritrovare la via da percorrere.

Cercare Lei insistentemente mi ha portata a smarrirmi. Non si può essere un’altra persona, men che meno cancellare il passato, ma questo lo si può riscrivere; il che non vuol dire falsarlo, ma semplicemente cercare di comprenderne lo svolgimento, stando attenti a non rifugiarsi in esso troppo a lungo, perché si rischia di cadere in un oblio profondo, come è accaduto a me.

Che non fosse ancora tutto lineare nel mio percorso, risulta chiaro dallo scritto quattro anni senza te…, quando riemergeva in me la paura della malattia e cinque anni dopo mi sentivo impaurita come una moleca senza guscio.

Probabilmente Freud avrebbe definito questo ripresentarsi degli eventi traumatici una “coazione a ripetere” che mi ha impedito di prendere coscienza con trasparenza della situazione e che evidentemente mi destabilizzava.

Settimio Benedusi, ES_SENZA, 2015 ©Settimio Benedusi

Così, sei anni dopo, facevo di nuovo i conti con la malattia, motivo che mi ha convinta a pubblicare le uniche fotografie superstiti del nostro ultimo anno insieme.

L’energia liberata in tutti questi anni mi aveva stimolata e desideravo mettere ordine al caos; un lavoro che si è svolto in modo lento e graduale, con tanto dispendio di energia fisica e mentale.

Così l’anno scorso, di fronte al tappeto blue di Yves Klein al MAMAC di Nizza, capivo che era ormai giunto il tempo di iniziare a rileggere ciò che avevo scritto.

In questi anni più scrivevo e più “sanguinavo”, ma al tempo stesso più cercavo di rielaborare verbalmente e grammaticalmente le frasi sconnesse e troppo viscerali, più la comprensione giungeva, trovando quel distacco dall’emotività totalizzante e autodistruttiva. Un distacco tra l’Io narrante e l’Io vivente che altro non è che un modo per sopravvivere ai propri pensieri con lucidità, cercando di far cadere ogni maschera e illusione.

Nell’ultimo anno credo di aver preso coscienza sulla meta da raggiungere, dico “credo” perché ancora mi trovo nelle vie secondarie alla ricerca della via maestra da percorrere con sicurezza. Sento che non è ancora il momento di scrivere la parola fine al racconto del mio passato; ma ci siamo quasi.

Prima o poi, arriverà il momento in cui godere a piene mani dei piccoli momenti di felicità. Forse è una vana speranza, forse mi sentirò per sempre a metà. Queste sono altre domande destinate a restare senza risposta… ma il fatto che ormai io non me le ponga più con tanta insistenza, qualcosa vorrà dire.

Persa tra mille ricordi, parole e fotografie, ecco che anche oggi mi sono ritrovata nel mio Museo, rifugio e salvezza dell’anima.

Mari, sempre nel mio cuore: mia carezza, mia forza, mio coraggio. Come ogni anno, stasera brinderò a te mia dolce sister.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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Il giorno del tuo 34° compleanno https://www.cultmag.it/2020/09/13/il-giorno-del-tuo-34-compleanno/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/09/13/il-giorno-del-tuo-34-compleanno/#comments Sun, 13 Sep 2020 14:18:46 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6709 Esattamente un anno fa iniziavo lo scritto dedicato a Mari con una “congiunzione”; elemento grammaticale di unione tra passato e presente, in vista di un futuro che all’ora mi era sconosciuto.

Questo anno è trascorso e, dopo molti mesi, sappiamo essere stato un anno denso per tutti, colmo di incertezze e insicurezze. Un anno di progetti saltati, di altri creati, di vite da riscrivere, di parentesi da chiudere. Un anno di esigenze sorte, di dubbi instillati e di intense emozioni vissute.

Un anno che – visti gli ultimi avvenimenti – è assolutamente da portare a termine.

Settembre non è il mio mese portafortuna, non credo lo sia mai stato, ma lo amo, per la calma che questo dona allo spirito, per i profumi che accompagnano i pomeriggi di fine estate e le serate passate con il primo fresco autunnale.

Settembre per me è un mese un po’ ballerino, denso di ricordi e di concentrazione; il mio spartiacque emozionale, anche perché di solito significava partire e allontanarmi dalla mia famiglia per andare “su”. Oggi, invece, ho deciso di andare con calma, di fermarmi e riflettere.

Ciò che ho notato in questi giorni, riguardando le fotografie di quando eravamo piccole Mari e io, come, crescendo, fossimo rimaste caratterialmente uguali.

Io sempre pasticciona e mai in posa nelle fotografie, lei sempre impeccabile, sorridente e fotogenica.

Alle feste io mi divertivo arrampicandomi sugli alberi, come ancor oggi mi piace girovagare nella natura, lei invece prendeva il microfono cantava e ballava, come sempre. Ero sempre io a seguirla e lei molte volte si infastidiva essendo la sorella più grande.

Ma forse forse… era proprio questo il nostro bello.

Nell’ultimo periodo sto riflettendo molto sul presente e, le infinite elucubrazioni mentali, mi hanno spinta a pormi delle domande su come ho affrontato la sua perdita e come ho cercato di colmare la sua assenza.

Ho scritto tanto di lei, di noi… dei vari momenti affrontati: il dolore indelebile della malattia per molti anni e poi, pian piano, il sorgere di bellissimi ricordi vissuti insieme.

Mi sono accorta anche di averla cercata a un ritmo frenetico nelle altre persone, sperando di trovare all’esterno un legame come il nostro, speranza vanificata perché impossibile sostituire l’amore di una sorella o l’appoggio che lei poteva darmi in determinate situazioni, conoscendo ogni mia piccola titubanza o incertezza; ma probabilmente la cosa più grave è che ho cercato lei in me come un tornado impazzito.

Una continua ricerca che mi ha portata a convivere per molto tempo con una persona diversa da quella bambinetta dispettosa che si agita e scalpita all’interno di me.

Eravamo due parti diverse di un meraviglioso universo e ci compenetravamo per le nostre differenze. La cosa più complicata sta proprio in questo: ritrovare l’equilibrio da soli è difficile, ma è l’unica via per mantenere viva la propria essenza e salvare la propria unica meravigliosa esistenza.

Chi sono? Cosa farò? Qual’è il mio posto e con chi? Domande che mi hanno ossessionata per troppo tempo e che ora mi spingono a sostituire quella congiunzione con cui iniziai lo scritto dell’anno scorso, con una pausa, intensa in senso musicale, come un preciso momento di silenzio.

Ogni mia decisione avrà una conseguenza e di questo ne sono consapevole, ne sono stata sempre consapevole, perché l’unica cosa che non vorrei nella mia vita, sono i rimpianti.

Il passato, il modo in cui siamo cresciuti, le amicizie e le paure che nel corso degli anni si sono insediate in noi, velatamente agiscono e ci presentano il conto, che sia esso positivo o negativo. Più rifletto e più comprendo che ho sempre amato sorprendere e amo essere sorpresa, anche perché – ormai è una certezza – ogni volta in cui ho smesso di sorprendermi tutto è andato storto.

Qualcosa cambia e capisci che l’aria da assaporare è altra, che può esserci molto di più da pretendere da se stessi e anche dagli altri per stare bene.

Probabilmente sta qui il segreto: essere consapevoli, creare le proprie immagini del desiderio e immergersi in esse affinché la famosa legge d’attrazione si attui. Più facile a dirsi, che a farsi, ma da quel poco che ho capito in questa strana vita è che l’accettazione è il punto di partenza per scrivere nuove pagine di vita. 

Alcune volte la vita sembra sfuggire e allora è proprio quello il momento di prendersi una pausa per respirare e poi continuare il proprio tragitto.

Y. Klein, Senza titolo monocromo blu (IKB 3), 1960 © Adagp, Paris

Io l’ho capito poco tempo fa al museo di arte contemporanea di Nizza, quando mi sono trovata di fronte al tappeto blu di Yves Klein, un’opera che mi ha donato grade tranquillità e una strana sensazione di fluidità nel pensiero come antidoto all’insopportabile pesantezza della mente. 

Osservando quel blu oltremare ho sentito l’esigenza di afferrare il mio tempo, entrare in contatto con me stessa, controllare i pensieri assordanti e librarli nel vuoto.

Una potenza che invade l’Universo, sia quello fisico che quello mentale, questo è l’International Blu Klein, «la più perfetta espressione del blu», sintesi tra cielo e terra.

Klein non trovandolo pronto sul mercato dovette fermarsi, sperimentare e creare tale essenza cromatica. Un duro lavoro di ricerca, non facile certo, ma volto a creare la propria personale meraviglia.

Un concetto non così banale, soprattutto dopo il periodo denso che tutti abbiamo affrontato, perché il solo che ci consente di prenderci il tempo necessario per comprendere la vibrazione che ci ha percorso violentemente negli ultimi mesi.

Klein scriveva: «ora voglio andare oltre l’arte – oltre la sensibilità – oltre la vita. Voglio andare nel vuoto: la mia vita dovrebbe essere come la mia sinfonia del 1949, una nota continua, liberata dall’inizio alla fine, legata ed eterna al tempo stesso perché essa non ha inizio né fine… Voglio morire e voglio che si dica di me: Ha vissuto perciò vive».

Mari ha vissuto e io continuo a farlo. Anche quando sapeva che non ce l’avrebbe fatta, lei ha lottato. Io non sono lei, non lo sono mai stata, ma ci siamo sempre compenetrate e questa è stata la nostra forza ed è la mia.

Per molto tempo ho creduto di dover trovare una me che probabilmente non è mai esistita e se non tutte le cose giungono per casualità, in questi miei ultimi mesi una poesia scritta dalla mia bisnonna, Maria Macrì Lucà, mi è venuta in soccorso.

Sorella che taci e sorridi

che giaci

tra fiori odorosi di zagara bianchi,

con piccole mani,

congiunte sul cuore […]

tu senti sorella, il mio pianto,

Tu senti il mio canto!

Sorella, è già sera

per il cuore che non ebbe mattino!

Passò la bufera

sul dolce giardino della mia giovinezza

e tutto travolse, infranse, schiacciò […]

E allora sorella, tu sola sentisti

che tetro terrore mi colse,

che cupo silenzio m’avvolse!

Nel buio, nel fango, prostrata,

inutile cosa restai […]

e buio era il cuore e il pensiero […]

E allora, sorella che giaci,

tra fiori odorosi,

parlasti, con voce lontana, velata

ma chiara al cuore,

dicesti: “Sorella,

asciuga il tuo pianto!

Detergi le piaghe!

Sorridi! Cammina!

Sorella, la vita è un’istante

che passa veloce:

Si ferma, Si tace,

e viene, Sorella, nei Cieli

la Pace!”

Tutto si acquieterà.

La mia bisnonna, così come coloro che hanno amato e poi perso, conoscono quanto sia dura la strada per risorgere; basta fermarsi un attimo, darsi il tempo per riflettere e “impregnarsi con la più perfetta forma del blu”, per poi osservare con chiarezza pensieri e sentimenti.

Si deve andare avanti, questo può essere un percorso più o meno lungo, ma si deve fare, per non dimenticare chi si era ed essere se stessi con consapevolezza.

Buon trentaquattresimo compleanno, mia dolce sister… oggi, come ogni anno, brinderò a te. 

***

Testo ©di Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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La fotografia del ricordo. Sei anni senza te. https://www.cultmag.it/2020/02/12/la-fotografia-del-ricordo-sei-anni-senza-te/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/02/12/la-fotografia-del-ricordo-sei-anni-senza-te/#comments Wed, 12 Feb 2020 07:12:12 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6501 Eccoci giunti al sesto anno… il sesto della mia vita senza Mari.

Sei anni dal giorno in cui quel maledetto mostro l’ha portata via da noi. Io avevo 26 anni, lei 27… e tra qualche giorno ne compirò 32. Strana questa esistenza!

Quest’anno ho deciso di parlare di lei attraverso una delle mie passioni più grandi: la fotografia, poiché, ancor oggi, sono tante le persone che mi chiedono perché ho smesso di fotografare.

Alla domanda, non è mai seguita una risposta. Un giorno della mia vita ho mollato… No, non è questa la verità.

Il mio aver riposto la reflex nell’armadio è stata una decisione nata in seguito a un progetto, che all’inizio non si configurava come tale ma che mio malgrado lo è diventato.

All’epoca scattavo giornalmente. Mi truccavo, impersonavo altri soggetti, guardavo negli occhi le persone e chiedevo loro di poterle fotografare; l’unico momento in cui non volevo scattare era quando “andava fatto”: feste, cene, compleanni. La responsabilità, in quel caso, passava a mia sorella.

Un giorno ricevetti una telefonata: «devi tornare a casa, Mari sta male. Stiamo andando all’ospedale di Reggio Calabria».

Impaurita e senza altre informazioni, prendo la macchina fotografa e una borsa con due vestiti, mi fiondo sul primo treno e inizio la mia discesa verso Rosarno.

Non avendo la giusta concentrazione per leggere e né la voglia di riposare, passavo il tempo guardando dal finestrino, ascoltando musica e ogni tanto passeggiavo nei vagoni claustrofobici di Trenitalia.

Ferma, davanti a una delle porte di uscita, scattai. Ancora non sapevo che quella sarebbe stata solo la prima fotografia di una lunga serie del nostro ultimo anno passato insieme. 

Finalmente ero giunta in ospedale. Eravamo lì senza nessuna notizia, in attesa  dei medici. Tra uno scherzo e un pisolino di Mari, arriva il pranzo. In quel preciso momento mi accorgo che aveva poca forza e che quel cucchiaio di plastica tra le sue dita sembrava pesare come un macigno. Non capendo il motivo, scattai una seconda fotografia.

Dopo i primi giorni passati a Reggio, siamo arrivate a Verona e nella città scaligera, io ho continuato a scattare. Prima dell’operazione, dopo l’operazione, la notte accanto a lei, quando ci annoiavamo, il giorno appena mi svegliavo, il pomeriggio in attesa di entrare in ospedale. Ancora durante la chemio, la radio e durante gli infiniti pomeriggi passati nel convitto delle suore.

Io e Mari non avevamo mai smesso di scattare. Lei fotografava me, io lei. Inconsapevolmente era nato un progetto. Volevamo documentare la malattia, volevamo spiegare cosa significasse avere un gliobliostama IV grado e cosa volessero dire chemio e radio. Lo facevamo per noi ed era una continua e dolorosa scoperta che lei viveva in prima persona, io osservandola, parlandoci e vedendo ogni suo cedimento.

Mia sorella era una cazzuta e nonostante la malattia ha continuato a svolgere la sua vita: studiava per diventare notaio, si è laureata, andava in palestra, gioiva, rideva e – a parte l’esser passate alla birra analcolica – cercava di svolgere una vita il più normale possibile.

Non sapevamo quale sarebbe stata l’ultima fotografia, né quando questo sarebbe avvenuto, anche se a un certo punto dovetti fare i conti con la realtà e scattare l’immagine che nessuno vorrebbe conservare nella propria memoria. Io lo feci perché ne avevo bisogno.

Inconsapevolmente, dopo la morte di Mari, ho continuato a scattare ossessivamente, non la vita nel suo scorrere – essendo diventata sostanzialmente un ghiro – ma la mia attenzione era andata verso un oggetto, che ogni giorno stava lì a ricordarmi che lei non c’era più: il manifesto mortuario.

Era affisso sulla cassettina dell’elettricità nella strada parallela al mio portone di casa. Nel tempo quel manifesto ha iniziato a svanire, a logorarsi, fino a quando qualcuno non lo ha strappato. Evidente non ero l’unica persona a cui quel manifesto faceva male, solo dopo scoprì essere stata mia nonna.

Innumerevoli giorni (mesi) di divano dopo, torno all’università e durante quel maledetto viaggio in treno succede l’irreparabile: rubano la mia valigia con la memoria esterna e il computer. Non avevo più nulla se non rari file che avevo spostato su dropbox.

Il viaggio a Lourdes. ©Claudia Stritof.

Eccoci giunti al momento in cui ho ufficialmente posato la mia reflex nella sua custodia e nascosta nell’angolo più buio del mio armadio.

Qualche tempo dopo, accade di nuovo qualcosa e senza che io me ne rendessi conto incomincio un nuovo progetto con l’’instantanea appena regalatami da Cristiano.

Da quel giorno ho iniziato a documentare la mia vita con l’intenzione di ricordare giorno per giorno gli avvenimenti, associandoli a un testo, affinché mi ricordassero chi ero e cosa stavo diventando. Era nato il progetto 365, che poi è durato tre anni della mia vita e a cui ho posto fine quest’anno: il 31 dicembre 2019.

La perdita della persona amata – una sorella, una figlia, un marito o una moglie – è qualcosa che non si riesce a comprendere e che mai dovrebbe essere esperito.

Ci si sente a metà, come se qualcuno ti avesse portato via una parte di cuore; ma ci si deve rialzare. Io grazie a mia madre – donna coraggiosa, mia fonte d’ispirazione e mio modello d’amore -, alla mia famiglia e alle molte persone che mi sono state vicine, ci sono riuscita. Non è stato semplice e qualche volte ricasco nel mio pessimismo universale, ma non oggi, perché la mia voglia di prendere a morsi questa vita è tanta perché, dopo sei anni e innumerevoli peripezie, ho imparato qualcosina in più dalla vita.

Ora tutto sta mutando e se ho una paura matta dei prossimi mesi, non vedo l’ora di iniziare a viverli. Non so se sto prendendo le decisioni giuste, non so quale sia la decisione giusta, ma è giusto seguire ciò che al momento ci rende felici. A rendermi felice è poter scrivere di fotografia al momento, così come alcune persone e sento che il mio volermi bene, fa bene anche a chi mi sta intorno perché provano le mie emozioni, così come vivono le mie gastriti.

Wadsworth Longfellow scrisse: «le feste più sacre sono quelle che celebriamo in silenzio e solitudine. Sono gli anniversari segreti del cuore, quando il fiume dei sentimenti rompe gli argini».

Oggi certamente non è una festa, ma una ricorrenza, quella dell’ultimo bacio con mia sorella, e ho voluto tramutare questo “anniversario del cuore”, in una riflessione, cercando di rompere quelle barriere mentali che mi costringono all’immobilità, alla paura e al dolore asfissiante che provo dentro. Perché si prova purtroppo e oggi, come ogni anno, sento di volerlo condividere con chi amo.

Condividiamo questo dolore con mia madre e, con il tempo, ho scoperto con molte altre persone, che la loro esperienza mi hanno raccontato e da cui sono uscita fortificata. Quello che ho capito è che guardare il dolore in faccia fa male, ma dobbiamo sempre ricordare di aver ereditato un miracoloso destino che, aperte parentesi avrebbe potuto non essere così bastardo, ma essendolo stato, non ci deve far dimenticare la grinta, la passione, la forza che abbiamo compreso di avere, seppur celata in qualche meandro del nostro cuore.

I miei cuori. ©Claudia Stritof.

Mari ha amato la vita più di ogni altra cosa, celebrandola con la massima intensità in ogni suo giorno di vita, io sono sempre stata un pò “bradipo”, ma ciò non toglie che devo dire grazie, perché ho amato e amo, ho anche perso tanto e ho sofferto, ma poi mi sono sempre rialzata.

È difficile venire a patti con se stessi e, alcune volte, si pensa di non aver meritato questa vita, ma non è vero. Ultimamente mi hanno detto «devi vivere nelle infinite possibilità», non pensare ai “non” e ai “ma”. Pensa che ci riuscirai, provaci e ti sorprenderai. Solo così si riuscirà a mutare il proprio punto di vista sul mondo.

In un articolo letto pochi giorni fa, la psicologa Marie Laure Colonna, definiva i fratelli come un solo essere umano diviso a metà. Un’identità molteplice che si manifesta attraverso il più nobile dei sentimenti: l’amore che non svanirà mai.

Dopo sei anni, posso dire di aver imparato a gestire alcuni pensieri, ma la voglia di poter parlare con lei, di raccontarle le mie giornate e condividere la mia vita con lei non è mutata. Ho piuttosto imparato a convivere con il ricordo e vivere del suo amore, come di quello che mi circonda. Come disse, Susan Sontag, nel libro Davanti al dolore degli altri, «è la passività che ottunde i sentimenti», sta a noi rinnovarli con il dono dell’emozione, della condivisione e con la voglia di star bene “qui e ora”.

Come ogni anno, stasera con un negroni brinderò a te mia dolce sister. Sempre nei mie pensieri e nella mia vita.

Testo e fotografie di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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Il “Canto di Natale”, un insegnamento valido tutto l’anno. https://www.cultmag.it/2019/12/24/il-canto-di-natale-un-insegnamento-valido-tutto-lanno/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/12/24/il-canto-di-natale-un-insegnamento-valido-tutto-lanno/#respond Tue, 24 Dec 2019 11:35:29 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6370 È arrivato il periodo dei film natalizi e tra gli immancabili, A Christmas Carol, film tratto dal romanzo scritto da Charles Dickens nel 1843, un’opera commovente e stimolante per il pensiero.

Quasi ogni anno, dalla data di uscita del film, il 2009, mi piace vederlo accanto al caminetto, con le miei pantofole pelose, mentre sgranocchio le mandarle al cioccolato, perché a Natale divento il classico stereotipo natalizio: felice delle lucine, delle ghirlande, delle mandorle al cioccolato. Mi perdo nell’osservare le bancarelle, mangiare crauti, stinco e castagne (per me tipico piatto natalizio). Una vera felicità per me, ma certo non per chi mi sta intorno, che solitamente non sopporta la mia euforia, a esclusione di colei da cui molto ho ereditato la passione, mia madre.

Il mio spirito natalizio nasce il 3 dicembre 2016 alle ore 20:52, quando per la prima volta sono arrivata a una conclusione sconcertante: «a fanculo il Natale! Ho voluto far finta di crederci da tre anni a questa parte, ma era un’illusione». Parole che scrissi di getto sulla mia agenda, insieme alla frase: «non si può essere felici», che letto così, suona come la versione negativa del «non può piovere per sempre» de Il Corvo.

Sta di fatto che quel giorno decisi di spegnere le luci dell’albero, fino a quando il destino beffardo non fece il suo corso.

Ricordo che all’epoca della drastica decisione ero in ospedale con mamma e proprio lì, nelle sale asettiche e impregnate di odore di disinfettante, le lucine hanno deciso di seguirmi.

Il 7 dicembre 2016, un’infermeria dell’ospedale mi chiede una mano per trasportare un pacco davanti alla stanza di mia madre dove era comparso, senza che me ne accorgessi, un alberello di natale. Non ci potevo credere, una vera congiura!

Sta di fatto che quelle lucine ogni notte erano lì a illuminare la stanza e a ricordarci che il Natale era alle porte. Quella stessa sera confesso a un amico la mia avversione verso gli alberelli luminosi e lui mi rispose: «Nooo, non farlo Claudia, […] egoisticamente io ho bisogno di te che mi fai vivere ancora questa festa».

Frontespizio del libro A Christmas Carol con le illustrazioni di John Leech.

Da quel giorno le cose sono cambiate, sono successi tanti eventi nella mia vita e in parte ho mutato il mio punto di vista. Lavoro su me stessa da ormai molti anni, cadendo talune volte, ma cercando sempre di rialzarmi. So che non potrà più essere quello che è stato ed è difficile essere felici in un giorno così, quando chiaramente senti che avresti voluto viverlo diversamente, però cerco di ritrovare lo stesso spirito e la stessa voglia di festeggiare come quando “c’era un prima e come quando eravamo tutti insieme”.

Oggi eccomi qui, accanto al camino, godendomi coloro che amo, perché infondo tutto sto “gran pippone” sul Natale vuole avere una conclusione, che è anche abbastanza scontata: credo che il Natale possa insegnarci tanto in merito ai nostri comportamenti quotidiani, perché – proprio in questi giorni – abbiamo il tempo di stare a casa con chi amiamo.

Ho sentito dire i regali sono oggetti dovuti e se è così non fateli; se è puro “capitalismo”, allora regalate una foto del vostro momento più bello insieme. Svegliatevi prima di lei o di lui e preparate la colazione e una lettera.

L’importante non è l’oggetto ma la sorpresa nella più banale quotidianità, come portate un cartoccio di castagne calde quando fuori è freddo, un barattolo di tonno se questo è particolarmente amato e vi posso giurare che poi sarete pienamente appagati. La cosa strana è che, oltre aver strappato un sorriso alla persona che amate, voi vi sentirete felici.

Riprendo in mano Canto di Natale di Charles Dickens e rifletto: lo Spirito del Natale passato è una figura luminosa che conduce Scrooge attraverso la sua infanzia e lo sappiamo bene, il passato può essere stato felice o triste, ma in qualunque caso è lì a ricordarci chi siamo stati. Abbiamo amato, siamo stati amati, abbiamo perso e abbiamo incontrato nuove persone e, anche se non possiamo cambiare ciò che è stato, possiamo semplicemente prendere quei ricordi e far in modo che questi possano renderci più forti nel presente.

Lo Spirito del Natale presente mostra a Scrooge la festa di Natale in casa del suo dipendente, che nonostante la povertà e la malattia del figlio, è felice insieme alla sua famiglia: ciò che più conta a Natale, ma sopratutto è ciò che più conta nei restanti 364 giorni dell’anno. Si potrà litigare, si potranno dire cattiverie, ma si sa che queste ci verrano perdonate dalle persone che amiamo, perché semplicemente ci conoscono e sappiamo benissimo che basta un piccolo gesto per cambiare un momento di incomprensione.

Lo Spirito del Natale futuro mostra a Scrooge un oscuro destino e l’unico modo per renderlo migliore è cambiare la sua vita nel presente.

Leggere Dickens vuol dire riflettere su ciò che siamo stati, ci pone davanti alla nostra felicità, ai nostri rimpianti o alle nostre tristezze, facendoci ripercorrere con la mente il nostro vissuto, fino al punto in cui tutto è cambiato. Dall’altra parte ci fa guardare al nostro presente, ci fa voltare verso le persone che amiamo e che possiamo abbracciare ora, perché sono lì intorno a noi, oppure – se queste sono lontane – nulla ci impedisce di sentirle o fare una videochiamata.

Il presente è ora… e nell’incertezza dei mesi futuri, del continuo susseguirsi di accadimenti, alcuni scelti, altri imposti da cui si cerca di districarsi per ritagliarsi quel minimo di tranquillità per sorridere sempre, la cosa più razionale sarebbe prendere sotto braccio lo Spirito del Natale futuro e proseguire per la propria strada.

Questi tre fantasmi Dickens li ha creati per mostrare a Scrooge quale fosse il significato del Natale, un periodo di pace e di amore condiviso ma, fuor di metafora, credo che altrettanto importante sia stare bene con se stessi e con le persone che ci circondano, perché realmente non sappiamo cosa accadrà un domani, e se un domani tutto dovesse mutare, allora è sempre meglio non aver rimpianti.

Come scrive Dickens: «onorerò il Natale nel mio cuore, e cercherò di conservarmi in questo stato d’animo per tutto l’anno. Vivrò nel passato, nel presente e nel futuro, e i tre spiriti saranno sempre presenti in me».

***

Fine della sdolcinatezza natalizia, ora potete pure non fare regali, non accendere lucine e odiare le feste, questo è lecito, ma spero abbiate capito che non è il soggetto principale dello scritto! Un caloroso abbraccio, come non mai!

Testi di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati
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Il giorno del tuo compleanno https://www.cultmag.it/2019/09/13/il-giorno-del-tuo-compleanno-3/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/09/13/il-giorno-del-tuo-compleanno-3/#respond Fri, 13 Sep 2019 16:46:55 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6261 …e ripartiamo da 13! Un numero che a molti non dice nulla, ma per me molto importante. Un numero che da un mese a questa parte si manifesta giornalmente davanti ai miei occhi.

Il 13 settembre è nata Marinella e per me è sempre stato un giorno speciale perché, se in altri tempi avremmo festeggiato insieme, oggi questa data è il mio speciale momento di riflessione, un momento di stasi dal flusso continuo della vita.

La vera domanda è: si può iniziare uno scritto con una congiunzione, ovvero con un elemento che viene usato nel discorso per collegare tra loro due parti della preposizione o del periodo?

Se l’ho fatto una ragione c’e e questa è semplicissima: la pura e semplice voglia di andare avanti, senza dimenticare ciò che è stato.

In questo periodo tutte le mie certezze (e le mie insicurezze) stanno mutando vorticosamente: progetti finiti, altri da iniziare, email inaspettate, cene saltate, programmi da riscrivere.

Se dovessi descrivere questo periodo, lo definirei piuttosto complesso, dove il segno di interpunzione da utilizzare probabilmente sarebbe un punto, un segno che indica la fine di un discorso, ma se il tempo mi ha realmente insegnato qualcosa è che non voglio porre fine al passato facendo finta che questo non sia esistito per proteggermi da sentimenti dolorosi.

In 5 anni dall’assenza di Mari molte cose sono cambiate: lavoro, scuola di specializzazione, città in cui ho vissuto… e ora, a quasi 32 anni, ecco di nuovo l’incertezza del domani. Oggi però mi sono svegliata con occhi nuovi e ho meno paura di ieri, perché, come dice Francesco, ho cambiato punto di vista. 

Sono molte le cose che fanno paura: il buio, i film horror, la solitudine, la perdita, l’incertezza del domani o iniziare un nuovo lavoro, ma pensandoci realmente – e qui sto per dire una banalità – è solo quando superi le tue paure che ti senti realmente libero.

Questo semplice postulato lo avevo dimenticato ed è stato uno dei quattro protagonisti del libricino dal titolo Chi ha spostato il mio formaggio? a ricordarmelo:

«Ridolino si rese di nuovo conto che l’oggetto delle nostre paure non è mai tanto spaventoso quanto noi lo immaginiamo. La paura che noi stessi alimentiamo con la nostra immaginazione è peggiore della realtà», e io molte volte ho adottato questo comportamento autolesionista, bloccando la mia mente in un vortice di insicurezze e di paure da cui avvolte è stato terrificante uscirne, semplicemente perché mi sono sentita persa, dimenticandomi di tutto ciò che era stato fino a quel momento, della determinazione conquistata e della caparbietà avuta.

Persi nel labirinto si ha paura, si teme di non trovare la strada e l’errore che si può fare è quello di star fermi ad aspettare che le paure svaniscano sole, invece di guardare verso nuovi orizzonti.

Cosa c’entra questo con il compleanno di mia sorella?

Un pò tutto e un pò niente, ma è proprio riflettendo su lei e su di noi, su ciò che sicuramente sarebbe diventata e su ciò che sono diventata io oggi, che i pensieri sono scaturiti.

Lei anche ha avuto paura, ma ha sempre continuato a lottare nelle situazioni più estreme e dolorose… ha creduto di poter vincere il mostro, ha fatto di tutto per realizzare i suoi sogni di vita fino alla fine e io questo l’ho visto e mai lo potrò dimenticare.

Con lei ho imparato il valore della vita, l’ho visto nei suoi occhi e ho visto la morte prendere il sopravvento sul suo corpo e nonostante questo lei non ha mai perso il suo indescrivibile coraggio.

Visto che lo scritto è iniziato con una congiunzione, mi sembra giusto continuare a sovvertire le regole, così l’unica frase che sopraggiunge è una domanda: che cosa faresti se non avessi paura?

Io ancora non ho una risposta a questa domanda ma proseguo con la mia vita, cercando sempre di trasformare quello che è un punto di arresto in una nuova rinascita… in una congiunzione.

Tanti auguri mia dolce sister… come avremmo fatto se fossimo state insieme, oggi festeggeremo e brinderemo alla tua eterna bellezza! 

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati

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“Che strada devo prendere?” chiese Alice allo Stregatto. https://www.cultmag.it/2019/07/05/6247/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/07/05/6247/#respond Fri, 05 Jul 2019 12:47:56 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6247 Qualche giorno fa ho ascoltato un’intervista fatta ad Alice Pasquini, street artist e illustratrice romana che, dopo aver realizzato murales a Oslo, New York, Copenaghen, etc., è arrivata, per puro caso, a Civitacampomarano, un piccolo paesino del Molise.

Ciò che più mi ha colpito di questa storia è il perché ci è giunta: circa un anno fa Alice riceve una email da una ragazza che la invita a visitare il paese per realizzare degli interventi nel piccolo borgo, il quale – come molti altri in Italia – con il tempo si è spopolato.

Ciò che non sapeva la mittente della email è che quello era il paesino dove il nonno della Pasquini era nato.

Un caso? Il destino? Non lo so! Sta di fatto che da queste fortuite coincidenze (le stesse che Paul Eluard avrebbe definito “appuntamenti”), il paesino ha ritrovato nuova linfa vitale, perché oggi ospita numerosi murales e opere che hanno inondato di colore le stradine, portando numerosi turisti nel borgo.

Foto di ©Jessica Stewart www.romephotoblog.com?utm_source=rss&utm_medium=rss

Strade diverse che si sono incrociate e dal cui incontro è emersa l’essenza del luogo, perché come ha scritto Bernard Shaw, «è attraverso l’arte che si guarda la propria anima». Per giungere a tale meraviglia ci è voluto del tempo, sicuramente un periodo di riflessione e anche di pausa. Ci saranno stati momenti di grinta, come di scoraggiamento, ma alla fine, dopo essersi fermati per capire quale fosse la strada migliore da intraprendere per realizzare i propri desideri, il sogno si è avverato.

È come se a un certo punto ci si ritrovasse davanti a uno specchio… e ci si chiedesse: «e ora da che parte vado?». La stessa domanda che Alice (questa volta l’Alice di Lewis Carroll) pone allo stregatto, quando si ritrova a un bivio:

“Che strada devo prendere?” chiese Alice. 

Stregatto: “Dove vuoi andare?”.

“Non lo so”, rispose Alice.

“Allora, – disse lo Stregatto – non ha importanza”.

Effettivamente alcune volte per cercare una via maestra, si dovrebbe solo rischiare e percorrere alla cieca una determinata strada, stando attenti a vivere il momento, accorgendosi che realmente questo lo si sta vivendo, senza troppo tirare le briglie per paura di perdersi.

Per inciso, atteggiamento che naturalmente io non ho adottato, non capendo che proprio l’ansia di cercare questa cazzo di strada, alcune volte fa perdere di vista ciò che realmente si vive, lasciandosi sopraffare dai pensieri. Alcune volte le strade si incrociano, le persone anche, e se questi incontri non hanno una ragione ben precisa, possono però dare dei frutti vivi e gustosissimi.

La domanda che mi sopraggiunte è una: quando ci accorgiamo di esser riusciti a far tesoro del nostro passato?

Alcune volte si capisce che questo è ancora prepotentemente presente da alcuni particolari della nostra vita, che talune volte emergono quando la maschera che si indossa per un qualche motivo inaspettato viene a cadere. Alcune volte si fa finta di non vedere questi particolari, ma si sentono e si conoscono, «di solito – anche – Alice si dava degli ottimi consigli, però poi li seguiva raramente».

John Tenniel, Alice nel paese delle Meraviglie, illustrazioni dalla prima edizione del libro di Lewis Carrol.

Spesso notiamo un cambiamento personale, ma per uno strano caso non lo capiamo pienamente, così si adottano varie strategie per affrontarlo che invece di aiutarci ci rendono la strada più faticosa; si cerca una strada che probabilmente stiamo già percorrendo, tutto muta e forse l’unica cosa da fare è fermarci, giusto il tempo per comprenderlo, che siano ore o settimane. Anche i ragazzi del borgo molisano si saranno fermati a riflettere su come valorizzare la loro terra: hanno guardato al passato, hanno riflettuto e proprio dalle spoglie di ciò che era, hanno dato nuova forma all’oggi.

Percorsi personali, strade sicure e strade impervie, vite nuovi, borghi viventi… la domanda è sempre una: perdersi aiuta a ritrovarsi?!

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.

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CALABRIA ON THE ROAD… Santa Severina e Sersale https://www.cultmag.it/2019/06/02/calabria-on-the-road-santa-severina-e-sersale/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/06/02/calabria-on-the-road-santa-severina-e-sersale/#respond Sun, 02 Jun 2019 14:45:24 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6158 In Calabria vi sono dei luoghi magnifici, inaspettati e lontano da qualsiasi meta “turistica” canonica, ma che di turismo, accoglienza, cultura e racconti potrebbero vivere. Uno di questi l’ho visitato ormai molti anni fa, durante un classico viaggio estivo fatto con gli amici di una vita.

Dopo una vaga organizzazione, abbiamo caricato le macchine, preparato gli zaini e siamo partiti con tanta voglia di vedere e conoscere la nostra Calabria. Già avevo scritto dei magnifici luoghi visitati nelle tappe precedenti ovvero, Fiumefreddo Bruzio, Isola di Cirella, San Nicola Arcella, la Sila e Lorica… ma all’appello mancano ancora le ultime tappe: Santa Severina e Sersale.

Il paese di Santa Severina è stata una tappa intermedia e purtroppo, come accade in ogni viaggio, siamo giunti tardi per ritardi, vari ed eventuali, sulla sulla tabella di marcia, così abbiamo deciso di fermarci giusto il tempo per pranzare.

Santa Severina si presenta così come l’ha descritta Gian Teseo Casoppero nella poesia Sylvae: «c’e una città turrita nelle terre calabresi, di non oscuro nome, là dove scorre l’onda del nebbioso Neto, posta sull’alto di un monte, su rupi rocciose, e meglio di ogni altra cinta da lunga cerchia difensiva», un piccolo ma accogliente comune arroccato, che è situato in provincia di Crotone.

Iniziando a camminare nelle piccole vie del paese, subito si è aperto uno spettacolo di inaudita bellezza, un borgo antico in pietra ben conservato, silenzioso e poco popolato. Pochissime le persone incontrate durante il tempo lì trascorso, se non una o due famiglie di turisti stranieri, sotto il sole cocente del sud in agosto.

Santa Severina, Calabria. ©Claudia Stritof

Arriviamo nel centro storico, dove decidiamo di sederci in uno dei pochi bar aperti al momento, con i suoi tavolini in piazza e da qui iniziamo ad ammirare realmente il luogo, con la Piazza Campo, maestosa e lineare con la sua ellissi disegnata in travertino sul grigio porfido a simboleggiare una rosa dei venti, dal cui centro, come afferma uno dei due architetti che ha ideato il progetto, Giuseppe Patanè: «partono 8 aghi triangolari orientati secondo i punti cardinali che seguono la direzione dei venti, rappresentati da altrettanti volti incorniciati in piccole ellissi», poco più in là – all’esterno dell’ellisse  – vi sono incisi i simboli astrologici del Sole e dei pianeti, alcuni simboli alchemici e ancora le quattro stagioni, i simboli del tempo, il ciclo dell’oro, lo spirito dei metalli e infine il Sole e la Luna.

Santa Severina, Calabria. ©Claudia Stritof

Dalla bellissima piazza la nostra attenzione è stata catturata al piccolo Battistero, un gioiello dell’architettura bizantina, che già Paolo Orsi ebbe premura di scoprire e segnalare. Purtroppo al nostro arrivo l’edificio era chiuso, ma alcuni signori presenti in piazza vedendoci molto incuriositi, si sono avvicinati a noi e un ragazzo del luogo ci chiede gentilmente se siamo interessati a visitarlo.

Chiaramente noi, come gli altri pochi turisti presenti, rispondiamo senza esitare e prese le chiavi per farci accedere nel piccolo scrigno, il ragazzo inizia a raccontarci con assoluta bravura la storia, i restauri e le varie fasi costruttive dell’edificio.

Santa Severina, Calabria. ©Claudia Stritof

Se l’edificio già dell’esterno ci aveva affascianti, all’interno la sorpresa è stata grande: la sua pianta circolare, la cupola centrale con il «lanternino cieco cilindrico», così come dettagliatamente lo aveva descritto Paolo Orsi, all’interno retto da otto colonne di spoglio, mentre sulla muratura vi sono tracce di affreschi e al centro il tardo fonte battesimale.

Una scoperta meravigliosa e una visita che è stata possibile grazie al cortese e appassionato cicerone, che poi ci ha consigliato di dirigerci verso la vicina cattedrale e al castello normanno, che non abbiamo potuto visitare perché ormai l’ora era tarda, così fatto l’ultimo giro nelle bellissime viuzze ricche di fiori e vegetazione, ci siamo diretti verso le macchine anche perché iniziava a piovere, solo dopo qualche ora e innumerevoli campi bruciati dall’arsura estiva giungiamo finalmente a Sersale.

All’inizio non sapevamo dove montare le tende, ma come al solito arrivano in soccorso i vecchini seduti in piazza con il loro immancabile cappello in testa e bastone poggiato sul bracciolo della sedia in plastica, che ci hanno consigliato di campeggiare lungo il fiume. Ringraziati i signori, che avremmo visto l’indomani nella stessa posizione, ma con una tazzina di caffè sul tavolo, ci dirigiamo verso questo luogo.

Purtroppo lo spazio era esiguo, per cui decidiamo di andare altrove e mentre vagavamo tra le infinite curve di Sersale, troviamo una zona picnic, con luoghi tavoli in legno e la zona per fare la griglia, dove decidiamo di sostare, anche perché ormai era giunta la sera.

Una volta sistemata la zona, iniziamo finalmente a grigliare la molta carne che avevamo acquistato e mentre prepariamo il tutto per la cena e ascoltiamo della musica, sentiamo degli strani rumori provenire da una zona indefinita del bosco. Essendo tutti cuor di leone, all’inizio ci siamo un pò allarmati, ma all’improvviso ecco che dal buio sbucano due occhi lucidi e poi altri ancora, e di fronte a noi meravigliosi daini che sentendo la musica – e probabilmente l’odoro del cibo – si avvicinano a noi.

Con questa scena davanti agli occhi e dopo innumerevoli canzoni… andiamo a dormire.

Il giorno seguente, motivati e inconsapevoli, andiamo finalmente alle Riserva Naturale Regionale delle Valli Cupe, un’area naturalistica di grande bellezza che non avremmo mai pensato di trovare in Calabria. Iniziamo il nostro cammino, o meglio la discesa, lungo il sentiero ben segnalato e circondato dalla natura rigogliosa con innumerevoli specie botaniche e per fortuna, con anche delle panchine lungo il percorso su cui riposarsi.

La strada è lunga, molto lunga, e per chi non è allenato, il ritorno è traumatico, ma l’esplorazione vale assolutamente la pena, perché con la nostra lentezza si scende verso il grandissimo canyon dalle pareti ripidissime.

Dopo aver camminato a lungo, visto rane, granchietti, cascate e rocce sovrumane, torniamo in tenda per prepararci per andare alla scoperta del paese e cercare anche un luogo in cui mangiare. Come al solito ci siamo affidati alle persone del luogo, che ci hanno fatto scoprire Lo scacco macco, un luogo di cui mi sono innamorata follemente perché, nonostante fossimo in tanti, il proprietario ci ha accolti nel secondo turno per la cena e, non meno importante, perché la cena è stata veramente eccezionale, oltre ad aver scherzato e conosciuto il figlio del proprietario, molto piccolo ma già appassionato di musica. Chissà se ha portato avanti questa sua passione?!

Sersale, Calabria. ©Claudia Stritof

Il nostro viaggio si è concluso nel miglior modo possibile con i ragazzi del locale… e mai ci fu viaggio più bello, ricco di imprevisti e di emozioni contrastanti, di pensieri e riflessioni, di incomprensioni e comprensioni; di cibo, mare e montagna, tutto a brevissima distanza, ma anche di nuove conoscenze e incontri unici con persone che probabilmente non rivedremo più, ma che sempre ricorderemo nei nostri racconti.

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I tappa di viaggio: Calabria on the road… Fiumefreddo Bruzio e Isola di Cirella.

II tappa di viaggio: Calabria on the road… San Nicola Arcella.

III tappa di viaggio: Calabria on the road… Lorica e la Sila

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