Fotografia – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Fri, 16 Jun 2023 12:11:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Il ricordo. Nutrimento dell’anima. https://www.cultmag.it/2023/06/16/il-ricordo-nutrimento-dellanima/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2023/06/16/il-ricordo-nutrimento-dellanima/#respond Fri, 16 Jun 2023 11:13:36 +0000 https://www.cultmag.it/?p=7086 13 febbraio 2023

Stazione di Rosarno, ore 10:00 del mattino. Inizia iI mio solito viaggio della speranza!

Immersa nei pensieri e in punto imprecisato dell’Italia, mi volto e vedo un cartello con su scritto: “Santa Marinella”.

Eccola!

Il nome Marinella e il numero 13 mi accompagnano insistentemente da qualche giorno.

Le parole in questi mesi sono incarcerate nel mio essere. I sentimenti che io e mamma stiamo provando da ormai un anno sono intensi, sopratutto per lei, al cui dolore interiore si unisce quello fisico.

Accendo il computer, scrivo qualche parola senza avere un’idea precisa. Il viaggio prosegue e le parole sono confuse.

Ore 23.40: arrivo. Sono esausta. Comincia la routine e i giorni si susseguono frenetici.

Il pensiero al Suo scritto, come in ogni ricorrenza, è presente, ma la confusione non mi permette di mettere in ordine alle parole.

24 febbraio 2023

Ore 5:00 del mattino. Oggi è il mio compleanno. Ho deciso di non festeggiare. L’umore non è adatto. Cancello il promemoria da tutti i social, ma qualcosa accade: a scuola arriva il primo mazzo di fiori, a casa il secondo, le chiamate sono incessanti.

A nove anni dalla morte di Mari ho la conferma di essere circondata da persone meravigliose che rendono più agevole il mio viaggio in questa Vita.

Penso al presente e al passato; alle tappe raggiunte, al percorso fatto, agli interminabili ostacoli e a quelli ancora da affrontare.

Sento la pressione dei miei 35 anni. 3 concorsi in un anno e due ancora da fare. Vita da precaria!

“Dovrei, dovrei, dovrei…”

“A che punto sono della mia vita?”

“Cosa sto costruendo?”

Non ho più la concentrazione di qualche anno fa e neanche la stessa smisurata capacità di sognare. La realtà interiore si nutre di sogni, ma anche di tangibilità!

16 giugno 2023

Il mio terrore più grande è diventato realtà… eccomi nuovamente davanti a questo scritto interminabile.

Il mio faro, mia madre, mi ha lasciata.

In questi giorni molte persone mi hanno detto: «tua mamma si è ricongiunta a tuo padre e a tua sorella!»; «devi andare avanti» etc. Parole dette con affetto e anche con un po’ di imbarazzo, perché il dolore, sopratutto quello degli altri, spaventa.

Spero siano insieme, era il desiderio di mamma e a questo voglio pensare; ma il problema è per chi rimane perché ci si sente avvolti da una nube grigia con un mal di testa incessante e con una vita da rimodulare, senza sapere come, poiché l’unica bussola che si aveva, non c’è più.

In questi nove anni ho sondato il mio essere, l’ho messo per iscritto, l’ho ricomposto, come un archeologo che svolge ricerche sul campo.

Ho cercato di comprendere i miei sentimenti e, tramite la scrittura, ho trovato un equilibrio e tanta condivisione con chi come me stava affrontando lo stesso destino.

Il fisico austriaco Heinz von Foerster definisce gli esseri umani “macchine non banali”, che rispondono ad uno stesso input in base al loro stato interiore del momento vissuto; detto in altre parole, l’equilibrio emotivo raggiunto in questi nove anni è venuto meno e non esistono formule già scritte per affrontare la perdita.

Siamo macchine imprevedibili e rispetto a “prima” mi viene difficile vivere il vuoto che sento. Il mio essere è diverso e la perdita di una madre, non è quella di una sorella. 

Prima eravamo in due e, in due, abbiamo affrontato i nostri demoni interiori.

Momenti di solitudine, di tristezza, di confusione… lei c’era con i suoi consigli e illuminava il mio pensiero talvolta pessimista.

Non programmavo viaggi, sapevo che sarei “scesa giù” a casa appena fosse stato possibile e sapevo che lei sarebbe stata lì: avremmo preso il nostro caffè insieme la mattina per poi svolgere mille faccende durante la giornata.

All’improvviso… tutto questo non c’è più!

Dirò una banalità, ma le persone che amiamo hanno il 100% di possibilità di morire.

Ho assaporato l’importanza della condivisione e dell’amore, ho conosciuto il dolore della morte delle persone care e questa è la sostanza di cui sono fatta.

Lei mi ha insegnato la tenacia e la costanza nel sorridere. Mi ha insegnato a scegliere, mi ha spronata a dire sempre ciò che penso. Mi ha insegnato a non piegare mai la testa, mi ha insegnato ad amare genuinamente, mi ha insegnato la dignità nel dolore e l’importanza di non soccombere a esso.

Il male interiore dettato dalla perdita non è una frattura che si cura nel tempo, è incurabile, si porta dentro; fa parte di noi e si deve imparare a convivere.

Non conosco quanto tempo ci vorrà per scrivere questo nuovo capitolo, né conosco la strada da percorrere per raggiungere l’accettazione e la consapevolezza. Purtroppo quando si ha Saturno contro è difficile controllare gli eventi esterni e allora l’unica parola che mi viene in mente è rallentare; così come l’unica certezza è quella di prenderci cura della nostra mente e – nei limiti del possibile – decidere di fare qualcosa per Noi. Quell’Essere a cui non si è mai data priorità, ma che evidentemente l’aveva.

Sono stata fortunata ad avere Lei, ad avere Loro. Mamma era bella e, come ha detto Don Massimo, era Franca, di nome e di fatto. Diretta e vera nella sua splendente unicità.

Madre, sorella, amica, collega, ognuno aveva la sua Franca, sempre disponibile per una battuta, un consiglio, una cena sul terrazzo o davanti al caminetto e un discorso di politica.

Nel giorno del tuo compleanno. Auguri mia vita.

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IL GIORNO DEL TUO 36° COMPLEANNO https://www.cultmag.it/2022/09/13/il-giorno-del-tuo-36-compleanno/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2022/09/13/il-giorno-del-tuo-36-compleanno/#respond Tue, 13 Sep 2022 08:04:06 +0000 https://www.cultmag.it/?p=7062 Lei aveva 27 anni, oggi sarebbero stati 36, mentre io vado per i 35.

Tutto nella mia vita è cambiato da quando Mari non c’è più.

Tutto è in perenne movimento e se questo continuo oscillare un tempo animava il mio cuore, oggi le aspirazioni sono altre.

Negli anni credo di aver imparato a navigare nella tempesta da sola. Questo è avvenuto gradualmente, un processo lento, in cui si sono alternati momenti di sconforto, delusione e sofferenza.

Capisci che qualcosa è mutato quando le lacrime che un tempo scendevano copiose, ormai emergono raramente, per pochi minuti, solo quando lo stress arriva a limiti estremi.

Lacrime razionali e ben dosate, da vivere in silenzio e in solitudine.

Oggi, all’alba del compleanno di Mari, mi chiedo cosa mi faccia vibrare il cuore.

Un cuore che ho cercato di domare dalle mille ansie; un cuore in cerca di una stabilità e di una quotidianità. Un cuore che è dovuto diventare grande e che, oggi, richiede consapevolezza.

Per tanti anni ho pensato di essere io sbagliata. Le vite degli altri erano sempre un “più”; ma oggi mi chiedo: cosa rappresenta quel “più”? Cosa il mio “meno”?

Dopotutto la matematica non è un opinione e “meno per meno” fa “più”.

Bene, con il trascorrere degli anni, credo di essere diventata questo “più”. Come ha detto “quel” Victor Hugo, oggi può essere «il primo giorno del resto della mia vita» e domani, concretamente, lo sarà.

Inizierà una nuova fase di scoperta: un nuovo lavoro, nuove conoscenze, nuove paure ma con la voglia di affrontarle e con la voglia di essere all’altezza dell’inaspettato.

Il 13 settembre rappresenta il giorno del mio personale bilancio annuale e l’anno  appena trascorso è stato interessante, diverso, ricco di conoscenze e, in qualche caso, anche  di nuove amicizie.

Credevo fosse una parentesi e invece mi ritrovo di nuovo qui, in questa regione a me sconosciuta, ma con il sole, il mare e la statale molto simile alla costa ionica calabrese.

In questo anno sono ripartita nuovamente da zero. Non è facile ricominciare: farti conoscere, vivere di commenti e di opinioni; non avere gli amici di una vita accanto, far capire che dietro quei vestiti neri, fondamentalmente c’è altro.

Se da un lato si va incontro al “mistero”, dall’altra parte, cambiare sempre città, mi ha regalato la voglia di conoscere, la bellezza delle piccole emozioni e delle piccole aperture, che si trasformano in momenti importanti e necessari.

Una cena a San Biagio, una passeggiata nel bosco, un negroni bevuto in terrazza, un improbabile karaoke calabrese a mille chilometri di distanza da casa.

È bello essere curiosi… io lo sono sempre stata, ma è necessario farlo con genuinità e trasparenza.

Ogni lamento, ogni insoddisfazione, ogni critica, credo sia il sintomo di quel nostro personale “meno” da trasformare in “più” per migliorare.

Vivere il processo di cambiamento con coscienza, in modo da giungere alla consapevolezza di ciò che realmente si vuole per l’immediato e prossimo futuro.

Mai cambierei i miei “meno”, perché quei meno mi rappresentano; mi hanno dato la possibilità di navigare sola, di crescere senza avere paura del silenzio e, non in ultimo, di vedere la bellezza, anche laddove questa alcune volte sembra non esserci.

Per tutto questo devo dire grazie alle persone che mi circondano: da loro ho compreso cosa significhi non aver paura di fronte al dolore, il coraggio di lottare per chi si vuole bene; affrontare la vita con grinta e, non in ultimo, camminare sempre a testa alta.

Un amore “non liquido”, un sentimento reale e concreto, insegnatomi dalle donne della mia vita.

Dopotutto, come afferma Zygmunt Bauman, «l’amore non è un oggetto preconfezionato e pronto per l’uso. È affidato alle nostre cure, ha bisogno di un impegno costante, di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno».

Di fronte alle infinite possibilità dell’esistenza, sta a noi scegliere quali sono i “più” o i “meno” e «alcune scelte sono più facili e altre più rischiose».

A oggi molti sono i sentimenti che fanno vibrare il mio cuore, ma la necessità è quella di trovare sempre nuove sinfonie e nuova consapevolezza da costruire, giorno dopo giorno, in un processo continuo di ri-generazione.

Nel giorno del tuo trentaseiesimo compleanno brinderò a te mia dolce sister e anche a colei che mai ci ha lasciate sole. Colei che ci ha insegnato il vero senso dell’Amore, quello che ti fa credere che tutto sia possibile, che ti plasma, ti anima di genuinità e ti sprona a credere nei sogni, insegnandoti, al tempo stesso, ad affrontare quei “meno” che spesso la vita pone sulla strada dell’esistenza.

Brindo a Voi, mia forza, mia meraviglia, mia unica Vita.

Testo e vita di ©Claudia Stritof 
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Il Medioevo contemporaneo: I “Vattienti” di Nocera Terinese. https://www.cultmag.it/2021/04/02/il-medioevo-contemporaneo-i-vattienti-di-nocera-terinese/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/04/02/il-medioevo-contemporaneo-i-vattienti-di-nocera-terinese/#comments Fri, 02 Apr 2021 13:00:15 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1676 Vi racconto una storia: quella del paese Nocera Terinese e dei suoi abitanti.

Il piccolo borgo, situato in provincia di Catanzaro, è circondato da monti aguzzi lussureggianti di verde, quello dei suoi alberi e dei suoi rovi; mentre, qui e lì, si vedono pascoli di pecore e contadini.

Un borghetto ben curato, i cui abitanti sono ospitali e molto gentili, come spesso accade nei paesini dell’entroterra calabrese, che hanno fatto della loro cultura ancestrale un punto di forza.

A Nocera Terinese, durante la Settimana Santa, qualcosa accade perché le sue stradine si animano grazie alla presenza di “fuori sede” tornati a casa per le vacanze, di turisti e fotografi, che giungono da ogni dove per ammirare il famosissimo rito dei vattienti” (i flagellanti), che – con il loro sangue – tingono il paese di color rubino.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Appena si giunge a Nocera si ode dapprima il vociare dei fedeli e subito tra la folla appare la bellissima statua della Madonna con il Cristo portata a spalla dai membri della Confraternita, tutti vestiti di bianco e con il capo adorno da un serto. Con grande devozione e come sempre avviene durante le feste di paese, i confratelli fanno sfilare la Madonna per le stradine inerpicate del paese, procedendo con un andamento lento e posato, fermandosi di tanto in tanto per benedire gli abitanti, la cui devozione si scorge nel movimento incessante delle labbra bisbiglianti e dalle mani portate al petto, sulle spalle e alla fronte.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

In quella che potrebbe sembrare una normale processione pasquale, ecco spuntare all’improvviso il primo vattente.

Esce dal portone della propria casa, con al seguito la madre che con occhi ricchi d’amore, guarda il proprio figlio allontanarsi e iniziare il suo calvario.

L’uomo è vestito con una maglietta nera e con un pantaloncino della stessa tinta arrotolato al pube, porta in testa un panno tenuto da una pesante corona di spine, in una mano porta il cardo”un disco di sughero su cui sono fissate con uno strato di cera tredici schegge di vetro appuntite, volte a simboleggiare i dodici Apostoli e la figura di Cristo; infatti le punte sono di tute di egual altezza, fatta eccezione di una, più acuminata, volendo alludere al tradimento di Giuda.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Nell’altra il vattente mantiene in mano la rosa”, un secondo disco di sughero liscio con cui percuote le gambe. Esso è legato con un laccio a un giovane, trasfigurazione dell’Ecce Homo, proprio per sottolineare l’unitarietà delle due figure, ruolo solitamente ricoperto da un bambino con petto nudo e avvolto dalla vita in giù da un panno rosso che porta in braccio una croce rivestita da un nastro rosso e sul capo un serto.

Accanto a queste due figure vi è un terzo uomo, di solito un parente o un amico che versa sulle gambe del vattente un infuso di vino e aceto per disinfettare le ferite e prevenire la formazione di croste.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Il suono del cardo percosso sulla carne è netto e deciso, seguito subito dopo da rivoli di sangue che creano una pozza rossa ai piedi del vattente mentre i muscoli vibrano visibilmente per la tensione.

Senza che si possa prendere un attimo di respiro, in quest’atmosfera mistica e ancestrale, subito dopo si ode lo sfregare della rosa passata sulla gamba, il vino scivolare sulle gambe e ricadere sul lastricato e di nuovo il suono del cardo, della rosa e del vino… interrotto solo dall”inchino alla Madonna, per poi proseguire nella veloce corsa verso le diverse stazioni religiose del paese.

Mentre la Madonna prosegue il suo percorso, noi decidiamo di fare un giro per le stradine del paese e arriviamo alla grande piazza che è colma di sangue secco sulle pareti, sul lastricato e sulle scale.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Visitiamo la bellissima chiesa del paese, ma a un certo il suono del cardo sulla carne richiama nuovamente la nostra attenzione.

Usciamo di corsa e questa volta i vattienti sono tre, tutti piuttosto giovani; dopo aver impresso il loro “marchio” sulla chiesa, riprendono la corsa incessante, mentre le impronte dei piedi nudi sull’asfalto tradiscono la loro direzione.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Nel momento in cui i confratelli riportano la statua della Madonna all’interno della chiesa, un grande applauso risuona per le stradine del borgo, mentre i vattienti sono ormai rientrati in casa, dove ad attenderli sono le madri, le mogli e le famiglie , che nel frattempo hanno preparato un infuso caldo con rosmarino che lava la carne flagellata e cicatrizza i minuscoli fori sulla carne.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Finisce così la mia visita a Nocera Terinese e il mio viaggio in questa antica tradizione. Un avvenimento di forte impatto emotivo e spirituale, tanto che alla visione del primo vattente, non riuscì a scattare nemmeno una fotografia visto lo scorrere copioso del sangue sulle loro gambe, come se all’improvviso fossi stata trasportata nel Medioevo a mia insaputa; ma una volta realizzato ciò che stava accadendo è stato un momento unico ed emozionante.

Sono stata percorsa da un brivido, cercando di comprende sempre più affondo il motivo di tale flagellazione e di questo male auto-inflitto, ma poi capisci che ciò a cui stai assistendo, non è una finzione scenica, ma l’autenticità di un sentimento, quello religioso dei devoti, che comprensibile o meno che sia, adempiono ad un voto fatto per ottenere una grazia o perché già ottenuta.

Questa è la storia di antichi riti e credenza ancestrali, avvolte da un’aurea mistica che oscilla tra sacro e profano, così come diverse sono le teorie sull’origine del rito.

Storie di vita paesana e di riti popolari che continuano a vivere in un piccolo paesino calabrese, da visitare e condividere con i suoi abitanti, i noceresi, che di storie e leggende ne hanno da raccontare.

Testo e immagini ©Claudia Stritof. All rights reserved.
Articolo scritto in data 7/04/2015. Revisione del 2/04/2021.
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Surrealist Lee Miller https://www.cultmag.it/2021/03/07/surrealist-lee-miller-ricordo-di-una-mostra/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/03/07/surrealist-lee-miller-ricordo-di-una-mostra/#respond Sun, 07 Mar 2021 21:01:00 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6893 Era il 2019 quando, nelle sale di Palazzo Pallavicini a Bologna, inauguravamo la mostra Surrealist Lee Miller, una delle figure più affascinanti e misteriose del Novecento; modella di straordinaria bellezza, cuoca estrosa, impavida corrispondente di guerra ma soprattuto fotografa di eccelsa bravura.

In quell’anno, parlando con Vittoria e Maurizio, della ONO Arte Contemporanea di Bologna e l’archivio Lee Miller, decidemmo di portare la mostra in Italia, non sapendo effettivamente se saremmo riusciti a trovare un luogo adatto.

Ci provammo e, dopo tanto cercare, il sogno si realizzò!

Lee Miller nasce a Poughkeepsie, nello Stato di New York, il 23 aprile 1907, da Florence e Theodore, un personaggio eccentrico, da cui Lee apprende l’amore per la tecnologia, la caparbietà nel portare avanti i propri progetti e l’amore per la fotografia.

Lee era una ragazza dalla bellezza eterea, ma a renderla veramente irresistibile era l’aura che emanava la sua personalità ribelle, che alle bambole preferiva i giochi pericolosi in giardino e armeggiare nel suo piccolo laboratorio chimico.

La sua infanzia non fu spensierata, infatti, all’età di sette anni venne violentata da un amico di famiglia, il che comportò in lei un profondo turbamento psicologico aggravato dal contagio di una malattia venerea.

I genitori, per alleviare il dolore della figlia, accontentarono ogni sua richiesta, libertà che rese la già intraprendete Lee, ancor più sfrontata e dopo l’ennesima espulsione dal liceo, il padre fu costretto a mandarla a Parigi nel 1925, dove si iscrisse a una scuola di teatro che abbandonò subito dopo per vivere da bohémien.

Surrealist Lee Miller, Palazzo Pallavicini, 2019. ©Claudia Stritof

Theodore, preoccupato, la riporta in America dove Lee si iscrive nel 1926 all’Art Students League di New York, ma un avvenimento fortuito sta per cambiare drasticamente i suoi piani.

È il 1927, Lee Miller sta per attraversare una delle strade di New York e rischia di essere investita da un auto, se non fosse che Condé Nast – proprietario di “Vogue” e “Vanity Fair” – prontamente la afferra e la salva.

Lei per lo spavento balbetta qualcosa in francese e lui rimane colpito dalla giovane fanciulla dall’abbigliamento europeo; così nel marzo dello stesso anno il volto di Lee Miller viene utilizzato per illustrare un’ormai storica copertina di “Vogue” disegnata da Georges Lepape. Lee diventa il nuovo volto della società moderna e incarnazione della new woman.

Era innamorata della mondanità di New York, ma la vita parigina le mancava e decide di andare a Parigi.

Lee Miller appena arriva in città si reca nello studio di Man Ray, ma la portinaia la avverte che l’artista è appena partito per Biarritz e che farà ritorno solo tra un mese. Sconvolta dalla notizia Lee si reca in un caffè poco distante per bere un Pernod con molto ghiaccio, ma qualcosa accade: ecco Man Ray!

Inizia l’avventura surrealista di Lee Miller, che non solo diventa modella e musa ispiratrice di Man Ray, ma instaura con lui un profondo sodalizio artistico, che li porterà a realizzare insieme tra le più belle fotografie dell’epoca e fare importanti scoperte tecniche come la solarizzazione.

Lo stile della giovane Lee in poco tempo si fa tecnicamente maturo e concettualmente sofisticato grazie alle molte influenze che riceve in questo straordinario periodo della sua vita.

Roland Penrose and Picasso in Roland’s Studio, Farley Farm, Chiddingly, England 1950 by Lee Miller  © Lee Miller Archives, England 2021. All rights reserved. leemiller.co.uk Roland Penrose © Lee Miller Archives, England 2021. All rights reserved. leemiller.co.uk

Apre uno studio a Montparnasse nel 1930, da subito frequentato da una ricca clientela internazionale, che della sua collaborazione si avvalgono per realizzare fotografie commerciali, anche se il nucleo più importante di opere in è certamente quello rappresentato dalle immagini surrealiste, divertenti, misteriose e inquietanti.

Nel 1932 si trasferisce a New York per iniziare una nuova avventura e aprire uno studio fotografico, che ha un grande successo e lavora a ritmi serrati, dapprima dedicandosi ai lavori commerciali, per giungere solo in un secondo momento alla ritrattistica.

Lee Miller, essendo di natura inquieta ed estremamente esuberante, perde molto presto di interesse verso la vita newyorchese e, caso volle, che un giorno giungesse in città l’imprenditore egiziano Aziz Eloui Bey, conosciuto qualche tempo prima a Parigi grazie all’amica Tanja Ramm.

Lee e Aziz passano giorni intensi insieme nella tenuta di famiglia e un giorno Lee chiama la madre inaspettatamente e le dice: «stamattina ci siamo sposati!».

È il 19 luglio del 1934 e Lee si trasferisce al Cairo per vivere il suo idillio d’amore, anche se dopo un anno di permanenza inizia a emergere in lei una sensazione di inquietudine e insoddisfazione personale, che la spinge a partire verso Parigi.

La stessa sera del suo arrivo, va a un ballo surrealista dove incontra gli amici di vecchia data che, appena la vedono, le corrono incontro rimproverandola per essere sparita per cinque lunghi anni.

Surrealist Lee Miller, Palazzo Pallavicini, 2019. ©Claudia Stritof

Durante questa stessa festa rivede anche Julian Levy, gallerista newyorchese da cui Lee aveva esposto le proprie fotografie, e fu lui a presentargli Roland Penrose, collezionista d’arte con cui subito scocca il fatidico coup de foudre!

Qualcosa è cambiato in lei dopo aver riassaporato la vita spensierata di Parigi e anche Aziz se ne accorge.

Lee scappa dall’Egitto con l’intenzione di intraprendere un lungo viaggio insieme a Roland Penrose, ma la situazione precipita velocemente a causa dell’invasione della Polonia da parte di Hitler.

Tornati a Londra, lui viene incaricato di tenere lezioni sulle tecniche di mimetizzazione, mentre Lee lavora come fotografa per “Vogue”, all’epoca diretta dal fotografo Cecil Beaton, il quale inizialmente rifiuta il suo aiuto, ma che accetta all’indomani dello scoppio della guerra, dato che la maggior parte dei fotografi furono costretti ad arruolarsi.

Lee Miller dopo un anno fa richiesta di accreditamento alle forze armate Usa come corrispondente di guerra, attività suggeritagli dal nuovo fotografo di “Life”, David E. Scherman, suo grande amico, amante e compagno di viaggio per tutti gli anni dei tragici combattimenti.

I primi servizi di Lee sono dedicati alle protagoniste silenziose della guerra, le donne e al ruolo, anche se a queste immagini continua ad alternare quelle realizzate per la moda, che a queste date ambienta tra le macerie londinesi.

Sei settimane dopo il D-Day, va in Normandia per documentare il lavoro delle infermiere negli ospedali di prima linea; tornata in agosto a Londra, s’imbarca con la US Navy perché incaricata di raggiungere Saint-Malo per fotografare la fine dei combattimenti nella città, ma contrariamente alle notizie ricevute, la guerra non era finita e Lee è l’unica inviata sul posto.

Era una donna forte e coraggiosa, condivideva le razioni di cibo con i militari, recuperava i feriti sul campo di battaglia e fotografava i primi attacchi con le bombe a napalm, ma poco dopo la resa dei tedeschi, venne scoperta da un ufficiale in zone di guerra a lei interdette, violazione che le procurò un arresto immediato.

Terminato il periodo di reclusione, Lee arriva a Parigi il giorno della Liberazione ma il peggio doveva ancora avvenire, perché inizia per lei e Scherman un periodo di incessanti spostamenti che li porterà fino in Germania.

Lee decide di accreditarsi con l’Us Air Force e attraversa la Francia per partire alla volta di Torgau in Germania, per poi fermarsi a Norimberga, dove scopre che la Rainbow Company sarebbe entrata nel campo di concentramento di Dachau.

I due fotografi, Miller e Scherman, furono tra i primi ad accedere all’area e Lee rimase incredula per ciò che stava vedendo: l’odore era nauseabondo, le cataste di corpi erano innumerevoli, i moribondi giacevano disperati in pozze di vomito ed escrementi, mentre alcune SS erano state linciate dai prigionieri.

Di fronte a tale orrore la verità non poteva più essere celata e Lee sentì l’esigenza di raccontare ciò che aveva visto senza mezzi termini.

Lee e David alloggiarono anche a Monaco, luogo dove viene scattata quella che è una delle fotografie più conosciute di Lee Miller: lei nuda nella vasca da bagno appartenuta al Führer, mentre il giorno seguente i due fotografi partono verso Salisburgo, per seguire l’attacco dell’inespugnabile chalet appartenuto Hitler, fino a che non giunge la notizia ufficiale: la guerra è finita!

Tornata a Parigi Lee Miller ha un grave crollo psicologico dettato anche dall’uso che faceva di amfetamina, alcol e sonniferi ma, nonostante ciò, continua a viaggiare senza tregua.

La fine della guerra fu un momento di amara disillusione per Lee Miller, la quale si rese conto che il mondo era ancora dominato dall’interesse personale di criminali e politici corrotti. Ormai tutto le sembrava inutile.

Emotivamente fragile e fisicamente sfinita, torna a Londra e nell’estate del 1946 intraprende un viaggio con Roland in America.

 Roma Gypsies and Lee Miller, Brasov, Romania 1938 by Roland Penrose © Lee Miller Archives, England 2021. All rights reserved. leemiller.co.uk Roland Penrose © Lee Miller Archives, England 2021. All rights reserved. leemiller.co.uk

È un periodo molto felice: Roland acquista una nuova casa in campagna, Farley Farm, che diventa meta prediletta di artisti, critici e letterati, oltre a ospitare la sua ricca collezione d’arte contemporanea; nasce Anthony e Lee dedica sempre più tempo alla casa e al giardino.

I servizi per “Vogue” si fanno sporadici e la cucina diventa la nuova passione di Lee, tanto da venir riconosciuta come cuoca a livello internazionale.

Le uniche fotografie che scatta in questo periodo sono i ritratti degli amici impegnati in stravaganti attività a Farley Farm, una ricca collezione di immagini che sarà pubblicata su “Vogue” nel 1953 con il titolo Working Guests, l’ultimo articolo della carriera da giornalista di Lee Miller. 

Dal 1955 Lee subisce un grave turbamento psico-fisico: non si piace più, veste in modo sciatto e il whisky è la sua sola consolazione, inoltre Roland è sempre più impegnato a fondare l’Institute of Contemporary Arts ed è per giunta innamorato di una nuova compagna.

I tempi in cui Lee scattava penetranti fotografie sono ormai lontani e una sera mentre era a cena con l’amica Tanja Ramm le confessa: «mi hanno appena detto che ho il cancro. Non ho voglia di parlarne, ma so che non durerà a lungo».

Il declino fu veloce, Roland non la lasciò mai da sola e fu tra le sue braccia che Lee Miller morì il 21 luglio 1977.

Si chiude così il racconto su Lee Miller, una donna e artista che ha vissuto la sua vita vissuta sempre al massimo grado di intensità, in perenne ricerca di se stessa e delle infinite occasioni che l’esistenza poteva offrirle.

Surrealist Lee Miller, Palazzo Pallavicini, 2019. ©Claudia Stritof

È difficile raccontare una donna di tale caratura ma a emergere è sempre la sua duplice natura: donna ironica e divertente e fotografa empatica e rispettosa del dolore altrui, qualità umane che le hanno permesso di cogliere con grande sensibilità gli eventi più tragici del XX secolo.

Testi estrapolati dalla mostra "Surrealist Lee Miller" (Palazzo Pallavicini, Bologna, 2019 ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati 
Archivio Lee Miller
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Tatuaggi e fotografia: ritratti di una passione. https://www.cultmag.it/2021/03/06/tatuaggi-e-fotografia-ritratti-di-una-passione/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/03/06/tatuaggi-e-fotografia-ritratti-di-una-passione/#respond Sat, 06 Mar 2021 16:13:00 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1945 Morto il 30 giugno 2010, Herbert Hoffmann è stato uno dei grandi nomi del tatuaggio e non ha certo bisogno di presentazioni; meno conosciuta è invece la sua attività di fotografo, un lavoro svolto con costanza fino alla fine dei suoi giorni.

Al 2002 risale il suo BilderbuchMenschen – Tätowierte Passionen 1878-1952 (Living Picture Books – Portrait of a Tattooing Passion 1878-1952), libro fotografico edito nel 2002, che contiene più di quattrocento immagini in bianco e nero scattate in oltre trent’anni di onorata carriera.

Sfogliando le pagine di questo meraviglioso libro fotografico si percepisce subito lo spirito indagatore di Hoffmann e la sua bravura come tatuatore, che gli hanno permesso nel tempo di essere riconosciuto come grande artista e, soprattutto, di far accettare un’arte che prima di lui si riteneva disonorevole, sopratutto nella Germania nazionalsocialista, contesto culturale e storico in cui il giovane Hoffmann cresce.

Herbert Hoffmann, Emma und Oskar Manischewski, 1958, Vintage Printe, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Negli scatti da lui realizzati si nota come l’attenzione non vada al dettaglio del tatuaggio, come accade in molte riviste specializzate, ma alle persone, ai loro atteggiamenti e ai loro rapporti.

Ritratti attraverso cui Hoffmann, involontariamente, compie un attento studio antropologico della personalità degli uomini e delle donne che da lui si recavano per farsi tatuare; denotando come l’importante non sia il tatuaggio in sé, ma le storie narrate che si celano dietro di esso e che portano il proprio corpo a diventare una tela dipinta su cui sono impressi i segni d’esistenza.

Herbert Hoffmann, Ulla Hansen, 1968, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Herbert Hoffmann nasce a Stettino nel 1919, città della Pomerania anteriore tedesca. La sua passione verso i tatuaggi nasce molto presto, quando da bambino guardava con meraviglia e stupore i corpi tatuati delle persone che incontrava per strada: solitamente proletari e uomini del popolo, che con fierezza mostravano i propri tatuaggi, nonostante nella Germania nazista fosse proibito tatuarsi, perché simbolo di pericolosità e di marginalità sociale.

Fino al 1939 il giovane Hoffmann lavora come fornaio, attività che sarà costretto a cessare perché viene chiamato alle armi e costretto ad arruolarsi. Dopo essere stato fatto prigioniero dall’Armata Rossa nel ’44, una volta liberato, va ad Amburgo dove decide di farsi tatuare una croce, un’ancora e un cuore, simboli delle virtù teologali, al cui interno è anche un cartiglio con le parole fede, speranza e carità.

È il 1949: per il giovane trentenne il tatuaggio sulla mano destra sarà solo il primo di una lunghissima serie.

Herbert Hoffmann, Wilhelm Wedekämper, 1960, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Apprende il mestiere da autodidatta e sperimenta le prime opere su uomini anziani che si affidano alle sue mani ancora inesperte, ma piene di talento.

Nel 1955 ottiene la licenza di tatuatore e apre il suo studio ad Amburgo e, sempre in questo stesso periodo, Hoffmann inizia a scattare con la Rolleiflex.

I tatuaggi oggi sono diventati la normalità: molti i testi dedicati alla sua storia e ancor di più le mostre a loro dedicate: da quella dedicata al tatuatore Marco Manzo, che ha portato i corpi delle sue donne al Maxxi di Roma, oppure Tattoo – Storie sulla pelle al museo, al museo M9 di Mestre, fino a giungere alla più recente Sergei Vasiliev – Russian Criminal Tattoo alla ONO arte contemporanea di Bologna.

C’è stato un un tempo in cui questi segni incisi sulla pelle non erano ben visti dalla società, ma con estrema lucidità e grazie alla sua Rolleiflex, Hoffmann è riuscito a cogliere un vivido ritratto di un mondo rimasto ai margini per fin troppo tempo, narrando così un mondo in continua evoluzione.

Frau Wulkow, ca. 1967,29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Come Herbert Hoffmann ha detto: «chi è estraneo al tatuaggio spesso vede solo corpi deturpati o raramente abbelliti da tatuaggi incancellabili che evocano sofferenze fisiche e rischi di infezioni […] ma per chi si tatua non è così. Nessuno si tatua per diventare più brutto, nè per masochismo! Chiunque si tatua, lo fa per dare a se stesso qualcosa di più: per essere più bello, per sentirsi e apparire più forte, più sexy, per dare sfogo a un dolore, un lutto, una gioia, un amore, per scongiurare una paura, un pericolo o per gioco […] Ci si tatua per esprimere i sentimenti più seri e profondi e per quelli più superficiali e frivoli e… perchè no?, per rivendicare il proprio diritto al gioco. Non ho mai incontrato qualcuno che si tatuasse per farsi del male! Spesso i tatuaggi che vediamo per strada non sono proprio bellissimi, questo però dipende dalla disinformazione e dal cattivo gusto dilagante, non da un intento autolesionista. Oggi sono brutti i vestiti, la moda, le automobili, le case, la pittura… e sono brutti molti tatuaggi… solo un’informazione corretta e libera da pregiudizi e luoghi comuni può insegnare a distinguere quelli belli da quelli brutti e aiutare a capire che un bel tatuaggio è un tatuaggio che ti rende più bello…».

Negli uomini del popolo, Hoffmann trova la sua personale fonte di ispirazione, decidendo di farsi guidare da loro verso universi sconosciuti e microcosmi unici, ma tutti talmente importanti da dover essere eternizzati in uno scatto… e questo lo farà fino al 2010, giunto all’età di 90 anni.

Testo  ©Claudia Stritof. All rights reserved
Photo Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann
Articolo del 15/06/2015 aggiornato in data 6 marzo 2021.
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Il padre dell’istantanea e dell’impossibile. https://www.cultmag.it/2020/01/08/il-padre-dellistantanea-e-dellimpossibile/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/01/08/il-padre-dellistantanea-e-dellimpossibile/#respond Wed, 08 Jan 2020 08:15:00 +0000 http://claudiastritof.wordpress.com/?p=99  “Non intraprendere un progetto a meno che non sia manifestamente importante e quasi impossibile”.

 – Edwin Land

Edwin Land (1909-1991), secondo per numero di brevetti solo a Thomas Edison, è stato definito l’ultimo dei grandi geni, inventore e fisico americano, ha rivoluzionato il concetto di fotografia con la creazione della Polaroid.

Nel 1926 Edwin Land lascia l’Università di Harvard e trascorre molte ore nella biblioteca pubblica di new York, sfogliando libri di fisica e ottica. Land è curioso, vorace di conoscenza e trae grande ispirazione da queste letture, in particolare dal testo di ottica di Robert W. Wood, la cui prima edizione uscì nel 1905, mentre la seconda nel 1915.

L’idea venne a Land quando rimase abbagliato dai fari di una macchina mentre passeggiava lungo un viale newyorchese, pensando che per evitare incidenti, dovesse creare un polarizzatore sottile ed economico. Dopo diversi esperimenti, mette a punto un foglio polarizzante, chiamato Polaroid, costituito da una pellicola di plastica in cui erano incorporati numerosi cristalli di erapatite.

Pochi anni dopo Land fondò la Polaroid Corporation, società creata insieme al professore di Harvard, George Wheelwrigh, che attirò l’attenzione di molte industrie come General Motors, General Electric ed Eastman Kodak, che nel 1934 divenne il primo cliente di Land.

Aprile 1947, Edwin H. Land dimostra il funzionamento della Polaroid.
Image ©Baker Library/Harvard Business School

La nascita della macchina fotografica di plastica è legata a un aneddoto personale, infatti, dopo un intero giorno trascorso a fare fotografie con la famiglia in vacanza a Santa Fe, Jennifer, la più piccola delle figlie di Land, ingenuamente chiese al padre come mai non fosse possibile vedere subito le immagini scattate. Ai tempi d’oggi la domanda apparirebbe assolutamente banale e scontata, ma all’epoca fu una domanda geniale che scatenò una vera e propria rivoluzione tecnologica.

Land in quel momento ebbe l’illuminazione e nel giro di un’ora chiamò il proprio avvocato per avviare le pratiche per brevettare una macchina in grado di sviluppare una fotografia positiva in sessanta secondi, grazie a pellicole dotate di un rivestimento fotosensibile a cui venivano aggiunte sostanze necessarie per lo sviluppo.

Leggenda o realtà, si racconta che durante una notte tempestosa, mentre Land si trovava all’Hotel Pennsylvania di New York scattò la sua prima istantanea.

Aveva 37 anni e prima di inventare la Polaroid, aveva già messo a punto altre interessanti scoperte: le lenti polarizzate, i filtri ottici, i visori notturni e nel 1938 annuncia anche la creazione del Vectograph, un sistema 3-D utilizzato in campo militare.

Land è stato un uomo estremamente creativo e innovativo, non solo nelle sue invenzioni, ma anche nel modo di commercializzarle, come avvenne quando invitò i dirigenti della Società Optical nella sala di un albergo, dove il bagliore del sole riflesso sul davanzale colpiva a sua volta un acquario in cui i pesci rossi erano al momento invisibili, Land consegnò loro un foglio polarizzato e guardandoci attraverso essi furono in grado di focalizzare i pesci. Le lenti polarizzate vennero subito acquistate per creare i primi occhiali con lenti polarizzate.

La prima Polaroid Land Camera fu venduta il 26 novembre 1948 al Jordan Marsh, un grande magazzino di Boston, che qualche ora dopo registrò il boom di vendite.

Il lavoro di Land negli anni continuò incessantemente: la Polaroid non solo venne amata da fotoamatori ma anche da grandi artisti che la adottarono come loro mezzo espressivo, tanto che fu lo stesso Land a raccogliere e acquistare molte fotografie di artisti famosi, talune volte scambiandole o barattandole macchine fotografiche.

Giunse a raccogliere 25.000 immagini tra cui quelle di Andy Warhol, Robert Frank e Ansel Adams, quest’ultimo anche consulente della ditta.

Il ’72 è invece l’anno di nascita della Polaroid SX-70, la prima macchina istantanea a colori che utilizzava un rullino di formato quadrato.

Test photograph of Meroë Marston Morse scatta una fotografia nei laboratori Polarois, 1940 ca. ©Polaroid Corporation Records. BAKER LIBRARY HISTORICAL COLLECTIONS, Harvard Business School.

Land fu una persona molto stravagante, sempre innovativa e mai ordinaria. Ottimista di natura, era dotato di grande sensibilità artistica e ingegno. Era alto meno di un metro e ottanta e si contraddistingueva per il ciuffo nero e gli occhi intensi. Sempre sopra le righe, come era solito ripetere: «se vale la pena di fare qualcosa, allora è meglio farla in eccesso».

Non è un caso che un grande visionario come Steve Jobs abbia dichiarato la sua ispirazione alla figura di Edwin Land. Abbandonando l’università, avviò da solo la sua fortuna aprendo due industrie e collaborato con politici e governatori. Edwin Land è un esempio straordinario di uomo che ha cambiato il suo percorso personale e dato avvio a una nuova grande epoca.

La favola creata da questo grande uomo stava per terminare nel febbraio 2008, quando giunge il triste annuncio che terminerà la produzione delle pellicole istantanee, dopo che nel 2007 era già cessata la produzione delle fotocamere.

Nei primi mesi del 2010 qualcosa è cambiato: il marchio è stato rilevato da un gruppo di dodici tecnici, ingegneri e chimici che hanno ricominciato la produzione delle pellicole, sono stati riaperti gli stabilimenti a Enschede, al confine tra l’Olanda e la Germania.

Il progetto è rinato con il nome di Impossible Project, riunendo dieci dei migliori ex dipendenti Polaroid che hanno condiviso la passione e la fede “in un sogno impossibile”, riuscendo a creare una nuova pellicola con lo scopo di portar in salvo milioni di Poaroid ancora funzionanti ma non più utilizzate.

APPROFONDIMENTI UTILI:

The Story of Edwin Land, The Harvard Gazette.

Archive Edwin Land, BAKER LIBRARY HISTORICAL COLLECTIONS.

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I 1000 volti di Lombroso. La mostra. https://www.cultmag.it/2020/01/03/i-1000-volti-di-lombroso-la-mostra/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/01/03/i-1000-volti-di-lombroso-la-mostra/#respond Fri, 03 Jan 2020 17:39:58 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6471 «Vi sono persone che vanno in busca di ingiurie come del sostentamento; lieti se riescono a farsi dare dell’asino o del villano per affollarsi poi ai tribunali, e ricavarne danaro – sicchè vogliono vi si distingua quanto vale il titolo di bue, quanto quello di ciarlatano o di becco e lo si faccia a loro pagare».

Cesare Lombroso

Ci sono storie ampiamente narrate, storie poco conosciute e, infine, c’è una terza categorie di storie, quella celate, le quali sottostanno alle oscillazioni del tempo e che balzano all’attenzione pubblica in momenti particolari, vuoi per una mostra, vuoi per una ricorrenza.

Ritratto di criminale atavico. L’iscrizione a tergo della fotografia riporta il reato: “Uccisore della moglie dormiente con tre colpi di scure nella bocca per gelosia. Condannato a 27 anni.” Fotografo non identificato, stampa all’albumina, fine XIX inizio XX secolo.

Una di queste storie riguarda Cesare Lombroso, padre dell’antropologia criminale e della teoria dell’atavismo, al cui lavoro è dedicata la mostra I 1000 volti di Lombroso. Il fondo fotografico dell’archivio del Museo di Antropologia criminale dell’Università di Torino presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino.

Cesare Lombroso, tra i più importanti spiritisti europei, collezionista e scienziato, fu il creatore della teoria dell’atavismo criminale, che confermò «in una grigia e fredda mattina di dicembre esaminando il cranio di Giuseppe Vilella», brigante morto nel 1864 nell’Ospedale di Pavia. Quel giorno nel cranio esaminato trovò «un’enorme fossetta occipitale mediana e un’ipertrofia del vermis analoga a quella che si trova nei vertebrati inferiori. Alla luce di queste anomalie mi apparve, tutto a un tratto, come una larga pianura sotto un infiammato orizzonte, risolto il problema della natura del delinquente, che doveva riprodurre così ai nostri tempi i caratteri dell’uomo primitivo giù giù fino ai carnivori». Per Lombroso criminali si nasce, non si diventa!

Molte furono le forme di evidenza da lui utilizzate per perorare la causa, una fra tutte, i tatuaggi, copiosamente presenti sui corpi dei criminali e su quelli delle “popolazioni primitive” e fu proprio dall’unione di queste tesi, che Lombroso stilò l’identikit del delinquente atavico, ufficializzando le ricerche nel libro L’uomo delinquente (1876), la cui quinta edizione, del 1896, venne corredata da un Atlante contenente centinaia di ritratti fotografici di criminali e alienati.

Ritratto di individuo maschile. Lombroso raccoglieva immagini acquistate sul mercato, inviategli da colleghi o da lui stesso commissionate al fine di trovare evidenze a supporto della teoria del delinquente nato o atavico. Federico Castellani, stampa all’albumina, 1880 ca.

La mostra ripercorre la storia controversa di Cesare Lombroso e la nascita delle sue teorie, affrontando un lungo e denso percorso che si snoda in 5 sezioni.

Nella sezione introduttiva è presente una selezione delle diverse tipologie di fotografie raccolte da Lombroso, una macchina fotografica, uno stereografo per il disegno del profilo del cranio, una maschera mortuaria in cera di un detenuto, scritti di varia natura  e un ritratto a disegno.

La prima sezione è invece dedicata all’immagine del folle e alla nascita dell’antropologia criminale, ove si trovano esposti ritratti di alienati e malati psichici, manufatti di “mattoidi” (ovvero alienati con estro artistico) e il calco in gesso del cranio di Alessandro Volta per illustrare il rapporto tra creatività e nevrosi, già esplicato in Genio e Follia del 1864.

La seconda sezione è dedicata al brigantaggio, al delitto politico e alla criminalità minorile, infatti non dimentichiamo che a supporto delle sue teorie sulla devianza, Lombroso fece largo uso delle fotografie scattate ai briganti nel Sud d’Italia, per poi allargare l’interesse ai ritratti di anarchici, rivoluzionari e alla delinquenza minorile.

Altra sezione è dedicata alla donna delinquente: fotografie di crani di prostitute, immagini scattate all’interno di bordelli, ritratti di prostitute napoletane e argentine, oltre a una serie di carte de visite di delinquenti russe. Studi poi pubblicati insieme al futuro genero, Guglielmo Ferrero, nel primo trattato dedicato alla delinquenza di genere.

Criminale tatuato, detenuto a Bilbao. Il tatuaggio, che aveva iniziato a diffondersi negli ambienti del carcere e della caserma, fu individuato da Lombroso come una prova dell’atavismo criminale poichè gli storici dell’antichità e gli antropologi ne attestavano la diffusione tra le popolazioni primitive.  Fotografo non identificato, stampa su carta aristotipica , inizio XX secolo.

È difficile comprendere le teorie di Lombroso,  ma è importante capire il contesto storico, socio-culturale e scientifico in cui queste sono nate e, se i meridionali e le donne, venivano demonizzati, naturalmente non potevano mancare studi dedicati anche al razzismo e all’omosessualità.

Infine, visto il largo uso che Lombroso fece della fotografia, l’ultima sezione è dedicata alla fotografia segnaletica e alla Polizia scientifica, infatti ricordiamo che nel 1886 Lombroso propose di introdurre tecniche di investigazione scientifica comprendenti l’uso della fotografia, accanto al segnalamento descrittivo, antropometrico e dattiloscopico dei delinquenti e dei presunti tali, tutti metodi che vennero accolti da Salvatore Ottolenghi.

Il 19 ottobre 1909, Cesare Lombroso muore a Torino, all’età di settantaquattro anni, donando il suo corpo alla scienza. All’epoca molti avvallarono la sua teoria dell’atavismo, successivamente confutata, come disse il prof. Giacomo Giacobini: «è la scienza, che con il suo metodo, mette continuamente in discussione le proprie teorie e i propri assunti e questo è un messaggio molto importante da trasmettere al pubblico. Fa parte di quella funzione dei musei, che in museologia scientifica noi chiamiamo educazione museale». Oggi a Torino sorge il dove sorge il Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso, fondamentale per trasmettere la memoria di ciò che è stato e riflettere sul presente.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.


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Diane Arbus: vita e morte di un genio della fotografia https://www.cultmag.it/2019/12/22/diane-arbus-vita-e-morte-di-un-genio-della-fotografia/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/12/22/diane-arbus-vita-e-morte-di-un-genio-della-fotografia/#respond Sun, 22 Dec 2019 17:08:00 +0000 http://claudiastritof.wordpress.com/?p=155 «Penso che ci sia molta gente orribile nel mondo, e diventerà terribilmente difficile fotografare tutti, così se fotografo alcuni tipi generali di esseri umani ognuno li riconoscerà. Fu la mia insegnante, Lisette Model, che mi rese chiaro definitivamente che più specifici si è, più generali si sarà».

—  Diane Arbus

Da un po’ di tempo ormai mi sto dedicando alla lettura delle biografie di coloro che ritengo essere personaggi affascinanti, vuoi per la loro arte, vuoi per la loro vita, ma credo che si possano trarre molti insegnamenti utili comprendendo la forza e il coraggio di chi ha vissuto prima di noi.

Una biografia che consiglio di leggere è quella di  Diane Arbus, un’eccelsa fotografa, che fu d’ispirazione a numerosissimi artisti, uno tra tutti, Stanley Kubrick; infatti il regista si ispirò proprio a una sua fotografia per dar vita alle due famose gemelle di Shining.

La biografia scritta da Patricia Bosworth è veramente una lettura molto interessante se si vuole conoscere la vita della fotografa, anche perché lavoro completo di interviste e documenti originali consultati in prima persona dalla biografa, che ha deciso di arricchirla con dialoghi di amici, mentori e conoscenti di Diane.

© The Estate of Diane Arbus

Richard Avedon scrisse: «tutto quello che le accadeva sembrava misterioso, decisivo e inimmaginabile, naturalmente non per lei. E questo capita solo ai geni».

Diane Arbus amica dei più grandi artisti ma donna solitaria dallo sguardo vorace di verità, ha fatto del difetto una virtù, non camuffandolo ma facendolo emergere in tutta la sua imperfezione, perché «quello che cerco di descrivere è che è impossibile uscire dalla propria pelle ed entrare in quella altrui. La tragedia di qualcun altro non è mai la tua stessa» e ognuno di noi ha le proprie piccole ferite e le proprie piccole gioie che con il passare del tempo ci formano e vengono trasposte sulla propria epidermide o riflesse nei propri comportamenti.

Diane Nemerov, nasce a New York il 14 marzo 1923, da una ricca famiglia ebrea di New York, proprietaria dei grandi magazzini Russek’s. L’incontro con quello che diventerà il futuro marito, Allan Arbus, avviene molto giovane, alla sola età di 14 anni.

Durante la seconda guerra mondiale Allan lavora come fotografo per l’esercito, carriera che Diane e il marito decideranno di intraprendere una volta finito il conflitto bellico. All’inizio Diane fa da assistente ad Allan, ma ben presto grazie agli insegnamenti di Berenice Abbott, di Aleksej Česlavovič Brodovič e infine di Lisette Model, affina la tecnica e apprende l’arte della fotografia.

È soprattuto con Lisette che Diane trova la sua personale cifra stilistica e si avvicina ai primi soggetti da cui era particolarmente attratta, superando la sua grande timidezza.

© The Estate of Diane Arbus

Diane è ormai dedita alla fotografia e scatta incessantemente con una Nikon 35mm. In questo periodo conosce Kubrick, all’epoca un fotografo alle prime armi, poi Robert Frank e la moglie Mary, fino a quando nel 1960, entra in contatto con l’Hubert’s Museum, dove si esibivano molti personaggi particolari, di cui la fotografa diventa amica e confidente.

Il rapporto con Allan si incrina e Diane inizia la sua vita da sola, facendo sempre nuove scoperte, conosce anche Emile De Antonio, che le mostra il film Freaks di Tod Browning, uscito nel 1932, che per lei è una rivelazione.

Le sue immagini fanno fatica a essere pubblicate, se non grazie all’appoggio dell’amico Marvin Israel, all’epoca appena nominato art director di Harper’s Bazaar.

Chi conosce la biografia di Diane Arbus sa bene, che lei è anche conosciuta per l’uso che ha fatto della Rolleiflex, che utilizza dal 1962, vincendo l’anno successivo la sua prima borsa di studio data dal Guggenheim, fino al 1965 quando tre sue immagini vengono esposte in una mostra collettiva al MoMA, e ancora, nel ’67 trenta immagini esposte nella mostra New Documents.

La Arbus inizia a fare scuola e molti giovani fotografi apprezzano il suo stile e amano i suoi soggetti: prostitute, emarginati, giocolieri, gemelli, bambini, nudisti e disabili, tutti ritratti che le hanno fatto attribuire il soprannome di “fotografa dei mostri”, un appellativo che lei odiava, ma che sui malgrado non è mai riuscita a cancellare.

Si racconta che le modelle avevano paura a farsi ritrarre da lei perché riusciva a cogliere un’immagine senza veli, diretta, reale e talvolta anche crudele di chi si poneva davanti al suo obiettivo. Un ritratto vacillante tra repulsione e familiarità, così come ha confermato Viva, famosa modella degli anni ’60, quando la Arbus la colse nuda sul divano con gli occhi capovolti quasi come fosse svenuta.

New Documents allestimento della mostra tenutasi al MoMa di New York dal 28 febbraio al 7 maggio 1967. ©MoMa

Donna coraggiosa e grandissima fotografa, Diane si suicida il 26 luglio 1971, ingerendo un’ingente dose di barbiturici e tagliandosi le vene nella sua vasca da bagno, è stata la prima donna americana a esporre alla Biennale di Venezia, esattamente un anno dopo la sua morte. A celebrarla come grande maestra della fotografia altre mostre importanti da citare, come la mostra monografica ad Aperture e “Diane Arbus Revelations” del 2004.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati

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APPROFONDIMENTI CONSIGLIATI:

Il bellissimo archivio di Diane Arbus è conservato al Metropolitan Museum di New York.
Patricia Bosworth, Diane Arbus, A Biography, New York, Newton & Co.
Diane Arbus, An Aperture Monograph, New York, Aperture 1972.
Diane Arbus, Magazine Work, New York, Aperture 1984.
Diane Arbus, Family Albums, Yale University Press 2003.
Il film Fur: un ritratto immaginario di Diane Arbus di Steven Shainberg (2006).
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Gian Maria Volonté: intellettuale eretico https://www.cultmag.it/2019/12/19/gian-maria-volonte-eretico-intellettuale/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/12/19/gian-maria-volonte-eretico-intellettuale/#respond Thu, 19 Dec 2019 08:24:29 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6273 Uomo di grande acume e di misteriosa bellezza, Gian Maria Volonté è stato un attore di eccelsa bravura. Impossibile dimenticarlo nei panni di Ramon Rojo nel film Per un pugno di dollari di Sergio Leone, in quelli di El Indio in Per qualche dollaro in più, dell’imprenditore Enrico Mattei, del mafioso Lucky Luciano, di Aldo Moro, Renato Braschi, Michelangelo e Caravaggio.

Attore di innato talento, affinato da uno studio «matto e disperatissimo», Volonté è stato anche un attento osservatore del mondo a lui contemporaneo e un coraggioso contestatore. Nato a Milano il 9 aprile 1933, fin da giovane dimostra avere un’anima ribelle: abbandona la scuola per svolgere diversi lavoretti, fino a quando – dopo un breve soggiorno in Francia per raccogliere mele – si iscrive all’Accademia Internazionale d’Arte Drammatica di Roma, sotto l’insegnamento di Orazio Costa.

A Cavallo della Tigre di Luigi Comencini, 1961. Foto di Enrico Santelli ©Archivio fotografico della Cineteca Nazionale, Roma

In questo periodo recita in molti teatri, crede nelle sue potenzialità e interpreta personaggi drammatici e tremendamente reali; è espressivo ma non manierista e, se il teatro è la sua casa, a farlo conoscere al grande pubblico saranno televisione e cinema. Viene chiamato da Dullio Coletti per recitare nel film Sotto dieci bandiere e Un uomo da bruciare dei fratelli Taviani, quest’ultima pellicola sulla vita del sindacalista siciliano ucciso dalla mafia, Salvatore Carnevale, un film che consolida le certezze intellettuali di Volonté, studia il movimento operaio, parla con i contadini e legge Marx, la sua attenzione ai problemi reali cresce smisuratamente e l’avvicinamento a tematiche impegnate si fa sempre più vivo.

Come lo stesso attore affermò: «io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondono a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c’è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione. Essere attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressiste di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario tra l’arte e la vita».

Volonté non recita semplicemente un copione, ma esperisce sulla sua stessa pelle la vita di un altro da sé: studia, conosce e comunica attraverso un’eccelsa mimica e un’imprevedibile gestualità.

«Io non entro e non esco dai personaggi – disse l’attore – non esiste, secondo me, una tecnica unica e precisa. Si può interpretare un personaggio in totale immersione, ma può avvenire anche il contrario […] Io so bene quali percorsi faccio, però ho sempre un fondo di scetticismo nel parlarne perché mi rendo conto che in questo Paese tutti pensano che si possa essere o non essere attori, in qualsiasi momento. Invece non è vero, ci sono discipline che richiedono anni di frequentazione».

Il suo metodo era ferreo e questo lo ha raccontato anche Giuliano Montaldo quando disse: «se doveva interpretare un personaggio negativo, era negativo anche durante le pause, durante la notte, durante i momenti di pranzo e cena, si immedesimava talmente nel personaggio da diventare altro, una totale immersione nel personaggio vivendo insieme a lui».

La Ragazza con la valigia di Valerio Zurlini, 1961. Foto di Leo Massa ©Archivio fotografico della Cineteca Nazionale, Roma

Se nel 1964 Volonté ha i primi problemi con la censura per Il Vicario, opera di aperta denuncia contro i sottaciuti rapporti tra Pio XII con il regime nazista, negli anni successivi fa l’incontro più importante per lui con Elio Petri, esponente del cinema verità, che lo chiama per prendere parte nel 1967 in A ciascuno il suo, pellicola che vince il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes e il premio come migliore attore protagonista ai nastri d’argento nel 1968. Sarà sempre con Petri che Volonté recita in La classe operaia va in paradiso, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Todo modo, un vero e proprio atto di accusa verso la DC.

Dopo aver superato un periodo molto duro a causa di un tumore ai polmoni, Volenté comincia nuovamente a recitare, nonostante i tempi siano ormai cambiati e dopo tanti successi muore il 5 dicembre 1994 a Florina, in Grecia, sul set de Lo sguardo di Ulisse, dove avrebbe interpretato la parte del direttore della cineteca di Sarajevo assediata durante la guerra nella ex Jugoslavia.

Per meglio approfondire la poliedrica figura di Gian Maria Volonté, fino al 22 dicembre, è possibile visitare la mostra a lui dedicata in occasione della XVIII edizione del Festival del cinema di Porretta Terme, proprio nella località dove nel 1971 Gian Maria Volonté ed Elio Petri presentarono in anteprima mondiale, La classe operaia va in paradiso. Inaugurata il 6 dicembre, giorno in cui si è stato celebrato il venticinquesimo anno dalla sua scomparsa, la mostra è stata realizzata in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati
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Alinari: storia di un archivio https://www.cultmag.it/2019/06/19/alinari-storia-di-un-archivio/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/06/19/alinari-storia-di-un-archivio/#respond Wed, 19 Jun 2019 06:41:29 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6101 Di qualche tempo fa è la notizia che lʼarchivio fotografico Alinari non sarà più presente nella sua storica sede fiorentina di Via Nazionale, perché – come si legge sul sito della CGIL – il palazzo è stato venduto, il patrimonio è oggetto di trattativa e per una parte dei dipendenti vi sarà una cessazione dei rapporti di lavoro.

Una notizia che fa riflettere oggi, ma che già negli anni scorsi, aveva allarmato numerosi fotografi e studiosi come Gianni Berengo Gardin, Giovanna Calvenzi, Ester Coen, Mario Cresci, Mimmo Jodice, Bruno Toscano e Roberta Valtorta, i quali avevano espresso un accorato appello per la tutela e valorizzazione dell’archivio.

I libri della Fratelli Alinari, le mostre da loro curate, nonché l’organizzazione e la valorizzazione dell’archivio hanno rappresentato per molti appassionati e non, un punto di riferimento imprescindibile per la cultura italiana.

A livello personale, la mia passione nei loro confronti nasce da piccola, quando sfogliavo alcuni dei libri presenti nella mia libreria con immagini in bianco e nero che riportavano la dicitura Fratelli Alinari.

Sempre più incuriosita dallo scoprire chi fossero questi Alinari, una volta trasferitami a Firenze, ho iniziato a frequentare il Museo, fino al drammatico giorno in cui questo ha chiuso. Successivamente ho acquistato tutti i volumi di “Fotologia”, rivista imprenscindibile per una ricognizione sul passato e per lo studio della fotografia; poi due anni fa, finalmente, ho avuto l’occasione di assistere a un restauro nei loro laboratori grazie alla sincera disponibilità dimostratami da chi vi lavora con passione.

La storia dell’archivio è quella di tre fratelli, Leopoldo, Giuseppe e Romualdo, che nel 1852 aprono un laboratorio fotografico a Firenze e fondano, due anni più tardi, la società Fratelli Alinari.

La passione verso la fotografia nasce dopo aver studiato presso i calcografi Bardi e già nel 1856 pubblicano Photographies de la Toscane et des Ètats Romains, catalogo in un unico foglio che evidenzia quelli che sono i loro interessi verso il patrimonio artistico italiano, in unʼepoca in cui lʼItalia era ancora un paese frammentato e in attesa di essere unificato. 

Il prestigio degli Alinari cresce smisuratamente, i tre fratelli aprono diverse filiali e sono sempre alla ricerca di novità, così da instaurare una fitta rete di scambi internazionali che permette loro di acquisire un patrimonio archivistico di inestimabile importanza, tenendosi aggiornarti sulle ultime novità tecnico-scientifiche ma anche culturali, creando in Italia, un vivace cenacolo di appassionati e continui confronti con istituzioni pubbliche e private.

All’epoca, nello storico palazzo di Via Nazionale, in cui gli Alinari si trasferiscono nel 1863, lavorano circa trenta dipendenti con un’organizzazione ben strutturata, molto rigida, in cui vi sono laboratori di sviluppo, la stamperia, l’archivio e la sala posa (frequentata giornalmente da illustri personaggi italiani e stranieri), e inoltre a questo affiancavano anche un’importante attività di ricognizione sul patrimonio culturale, come testimonia la prima celebre campagna fotografica della Cappella Sistina, avvenuta nel 1890.

Dopo una serie di sfortunate morti in casa Alinari, la ditta dal 1890 passa in mano di Vittorio, il figlio di Leopoldo, intellettuale colto e raffinato, che inizia anche la pubblicazione di importanti volumi ispirati alla letteratura nazionale, come la Divina Commedia e il Decameron. 

Nonostante il fermento che anima l’entusiasta Vittorio, questo viene meno quando muore il piccolo figlio Carlo, dramma personale che porta l’erede di Casa Alinari a cedere la società alla Fratelli Alinari I.D.E.A. (Istituto di edizioni artistiche), il cui archivio viene salvato da 94 azionisti di cui ognuno deteneva il 5% del capitale.

Fratelli Alinari, La creazione di Adamo, affresco, Michelangelo Buonarroti (1475-1564), Volta della Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano, 1890 ca. ©Archivi Alinari, Firenze.

Siamo giunti alla data del 1920 e i negativi catalogati sono più di 70.000, un patrimonio di inestimabile valore, dal punto di vista qualitativo, documentario, artistico e per la divulgazione scientifica, perché allʼinterno dellʼarchivio, con il passare del tempo, sono entrati a far parte innumerevoli fondi o singole immagini, come l’archivio Anderson e Brogi (acquistati dal Senatore Giorgio Cini), oppure con l’attuale proprietà, che vede Claudio De Polo alla direzione, se ne sono aggiunti molti altri come quello di Italo Zannier, Von Gloeden, Michetti, Lattuada o Wulz. Per non dimenticare le meravigliose cornici – da quelle più sontuose a quelle più povere dei pescatori bretoni -, i dagherrotipi, le innumerevole camere e strumenti ottici e i tantissimi album fotografici con le legature in legno, in lapislazzuli e molto altro ancora.

Quello nell’archivio Alinari è un viaggio nel tempo, fatto di racconti, alcuni già narranti, altri ancora da scoprire… se solo ci fermiamo a cercare, osservare e conoscere, ma anche a SALVAGUARDARE e CUSTODIRE.

Gli archivi sono una fonte inestimabile di conoscenza, fondamentale per la crescita culturale del paese, ma spesso vengono abbandonati al loro destino, così come spesso viene dimenticata la catalogazione del patrimonio, lo studio dello stato conservativo delle opere, la loro messa in sicurezza e di conseguenza la loro valorizzazione. Tematiche che gli addetti ai lavori conosco bene, ma che forse dovrebbero interessare tutti, diventando argomento centrale nella nostra attualità.

L’Archivio Alinari ha sicuramente contribuito a creare la Cultura nel nostro paese e, come scrivono i dipendenti della Fratelli Alinari, «vogliamo domandarci pubblicamente quali saranno le sorti del patrimonio e soprattutto delle risorse umane che da anni si sono occupate della sua valorizzazione, sviluppando con esso un forte rapporto identitario».

La domanda che si pongono i dipendenti è una: «cosa seguirà quindi al più grande trasloco di fotografia al mondo»? E a questa ne vogliamo aggiungere un’altra: cosa sarà delle persone il cui rapporto di lavoro cesserà e che fino a oggi sono state alle dipendenze degli Alinari?

La sede verrà sgomberata entro il 30 giugno e al suo posto troveranno posto venti appartamenti, molti dei quali già venduti. La Regione Toscana ha dichiarato di voler acquistare il fondo (e il tavolo di discussione sembra essere già avviato), così come il Comune, disposto dalle ultime notizie di voler trovare un luogo adatto alla sua consultazione. L’importante è che tutte le Istituzioni competenti intervengano con un’azione comune, garantendo così la sopravvivenza e l’accessibilità all’importante Archivio dei Fratelli Alinari, fondamentale per lo studio e la conoscenza collettiva.

Attenderemo con ansia ulteriori aggiornamenti.

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Ringrazio il preparato personale dell’archivio per il confronto rispetto ad alcuni approfondimenti e per la disponibilità dimostratami a suo tempo. Esperienza unica.

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Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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