Mostre fotografia – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Mon, 15 Mar 2021 12:52:35 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Surrealist Lee Miller https://www.cultmag.it/2021/03/07/surrealist-lee-miller-ricordo-di-una-mostra/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/03/07/surrealist-lee-miller-ricordo-di-una-mostra/#respond Sun, 07 Mar 2021 21:01:00 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6893 Era il 2019 quando, nelle sale di Palazzo Pallavicini a Bologna, inauguravamo la mostra Surrealist Lee Miller, una delle figure più affascinanti e misteriose del Novecento; modella di straordinaria bellezza, cuoca estrosa, impavida corrispondente di guerra ma soprattuto fotografa di eccelsa bravura.

In quell’anno, parlando con Vittoria e Maurizio, della ONO Arte Contemporanea di Bologna e l’archivio Lee Miller, decidemmo di portare la mostra in Italia, non sapendo effettivamente se saremmo riusciti a trovare un luogo adatto.

Ci provammo e, dopo tanto cercare, il sogno si realizzò!

Lee Miller nasce a Poughkeepsie, nello Stato di New York, il 23 aprile 1907, da Florence e Theodore, un personaggio eccentrico, da cui Lee apprende l’amore per la tecnologia, la caparbietà nel portare avanti i propri progetti e l’amore per la fotografia.

Lee era una ragazza dalla bellezza eterea, ma a renderla veramente irresistibile era l’aura che emanava la sua personalità ribelle, che alle bambole preferiva i giochi pericolosi in giardino e armeggiare nel suo piccolo laboratorio chimico.

La sua infanzia non fu spensierata, infatti, all’età di sette anni venne violentata da un amico di famiglia, il che comportò in lei un profondo turbamento psicologico aggravato dal contagio di una malattia venerea.

I genitori, per alleviare il dolore della figlia, accontentarono ogni sua richiesta, libertà che rese la già intraprendete Lee, ancor più sfrontata e dopo l’ennesima espulsione dal liceo, il padre fu costretto a mandarla a Parigi nel 1925, dove si iscrisse a una scuola di teatro che abbandonò subito dopo per vivere da bohémien.

Surrealist Lee Miller, Palazzo Pallavicini, 2019. ©Claudia Stritof

Theodore, preoccupato, la riporta in America dove Lee si iscrive nel 1926 all’Art Students League di New York, ma un avvenimento fortuito sta per cambiare drasticamente i suoi piani.

È il 1927, Lee Miller sta per attraversare una delle strade di New York e rischia di essere investita da un auto, se non fosse che Condé Nast – proprietario di “Vogue” e “Vanity Fair” – prontamente la afferra e la salva.

Lei per lo spavento balbetta qualcosa in francese e lui rimane colpito dalla giovane fanciulla dall’abbigliamento europeo; così nel marzo dello stesso anno il volto di Lee Miller viene utilizzato per illustrare un’ormai storica copertina di “Vogue” disegnata da Georges Lepape. Lee diventa il nuovo volto della società moderna e incarnazione della new woman.

Era innamorata della mondanità di New York, ma la vita parigina le mancava e decide di andare a Parigi.

Lee Miller appena arriva in città si reca nello studio di Man Ray, ma la portinaia la avverte che l’artista è appena partito per Biarritz e che farà ritorno solo tra un mese. Sconvolta dalla notizia Lee si reca in un caffè poco distante per bere un Pernod con molto ghiaccio, ma qualcosa accade: ecco Man Ray!

Inizia l’avventura surrealista di Lee Miller, che non solo diventa modella e musa ispiratrice di Man Ray, ma instaura con lui un profondo sodalizio artistico, che li porterà a realizzare insieme tra le più belle fotografie dell’epoca e fare importanti scoperte tecniche come la solarizzazione.

Lo stile della giovane Lee in poco tempo si fa tecnicamente maturo e concettualmente sofisticato grazie alle molte influenze che riceve in questo straordinario periodo della sua vita.

Roland Penrose and Picasso in Roland’s Studio, Farley Farm, Chiddingly, England 1950 by Lee Miller  © Lee Miller Archives, England 2021. All rights reserved. leemiller.co.uk Roland Penrose © Lee Miller Archives, England 2021. All rights reserved. leemiller.co.uk

Apre uno studio a Montparnasse nel 1930, da subito frequentato da una ricca clientela internazionale, che della sua collaborazione si avvalgono per realizzare fotografie commerciali, anche se il nucleo più importante di opere in è certamente quello rappresentato dalle immagini surrealiste, divertenti, misteriose e inquietanti.

Nel 1932 si trasferisce a New York per iniziare una nuova avventura e aprire uno studio fotografico, che ha un grande successo e lavora a ritmi serrati, dapprima dedicandosi ai lavori commerciali, per giungere solo in un secondo momento alla ritrattistica.

Lee Miller, essendo di natura inquieta ed estremamente esuberante, perde molto presto di interesse verso la vita newyorchese e, caso volle, che un giorno giungesse in città l’imprenditore egiziano Aziz Eloui Bey, conosciuto qualche tempo prima a Parigi grazie all’amica Tanja Ramm.

Lee e Aziz passano giorni intensi insieme nella tenuta di famiglia e un giorno Lee chiama la madre inaspettatamente e le dice: «stamattina ci siamo sposati!».

È il 19 luglio del 1934 e Lee si trasferisce al Cairo per vivere il suo idillio d’amore, anche se dopo un anno di permanenza inizia a emergere in lei una sensazione di inquietudine e insoddisfazione personale, che la spinge a partire verso Parigi.

La stessa sera del suo arrivo, va a un ballo surrealista dove incontra gli amici di vecchia data che, appena la vedono, le corrono incontro rimproverandola per essere sparita per cinque lunghi anni.

Surrealist Lee Miller, Palazzo Pallavicini, 2019. ©Claudia Stritof

Durante questa stessa festa rivede anche Julian Levy, gallerista newyorchese da cui Lee aveva esposto le proprie fotografie, e fu lui a presentargli Roland Penrose, collezionista d’arte con cui subito scocca il fatidico coup de foudre!

Qualcosa è cambiato in lei dopo aver riassaporato la vita spensierata di Parigi e anche Aziz se ne accorge.

Lee scappa dall’Egitto con l’intenzione di intraprendere un lungo viaggio insieme a Roland Penrose, ma la situazione precipita velocemente a causa dell’invasione della Polonia da parte di Hitler.

Tornati a Londra, lui viene incaricato di tenere lezioni sulle tecniche di mimetizzazione, mentre Lee lavora come fotografa per “Vogue”, all’epoca diretta dal fotografo Cecil Beaton, il quale inizialmente rifiuta il suo aiuto, ma che accetta all’indomani dello scoppio della guerra, dato che la maggior parte dei fotografi furono costretti ad arruolarsi.

Lee Miller dopo un anno fa richiesta di accreditamento alle forze armate Usa come corrispondente di guerra, attività suggeritagli dal nuovo fotografo di “Life”, David E. Scherman, suo grande amico, amante e compagno di viaggio per tutti gli anni dei tragici combattimenti.

I primi servizi di Lee sono dedicati alle protagoniste silenziose della guerra, le donne e al ruolo, anche se a queste immagini continua ad alternare quelle realizzate per la moda, che a queste date ambienta tra le macerie londinesi.

Sei settimane dopo il D-Day, va in Normandia per documentare il lavoro delle infermiere negli ospedali di prima linea; tornata in agosto a Londra, s’imbarca con la US Navy perché incaricata di raggiungere Saint-Malo per fotografare la fine dei combattimenti nella città, ma contrariamente alle notizie ricevute, la guerra non era finita e Lee è l’unica inviata sul posto.

Era una donna forte e coraggiosa, condivideva le razioni di cibo con i militari, recuperava i feriti sul campo di battaglia e fotografava i primi attacchi con le bombe a napalm, ma poco dopo la resa dei tedeschi, venne scoperta da un ufficiale in zone di guerra a lei interdette, violazione che le procurò un arresto immediato.

Terminato il periodo di reclusione, Lee arriva a Parigi il giorno della Liberazione ma il peggio doveva ancora avvenire, perché inizia per lei e Scherman un periodo di incessanti spostamenti che li porterà fino in Germania.

Lee decide di accreditarsi con l’Us Air Force e attraversa la Francia per partire alla volta di Torgau in Germania, per poi fermarsi a Norimberga, dove scopre che la Rainbow Company sarebbe entrata nel campo di concentramento di Dachau.

I due fotografi, Miller e Scherman, furono tra i primi ad accedere all’area e Lee rimase incredula per ciò che stava vedendo: l’odore era nauseabondo, le cataste di corpi erano innumerevoli, i moribondi giacevano disperati in pozze di vomito ed escrementi, mentre alcune SS erano state linciate dai prigionieri.

Di fronte a tale orrore la verità non poteva più essere celata e Lee sentì l’esigenza di raccontare ciò che aveva visto senza mezzi termini.

Lee e David alloggiarono anche a Monaco, luogo dove viene scattata quella che è una delle fotografie più conosciute di Lee Miller: lei nuda nella vasca da bagno appartenuta al Führer, mentre il giorno seguente i due fotografi partono verso Salisburgo, per seguire l’attacco dell’inespugnabile chalet appartenuto Hitler, fino a che non giunge la notizia ufficiale: la guerra è finita!

Tornata a Parigi Lee Miller ha un grave crollo psicologico dettato anche dall’uso che faceva di amfetamina, alcol e sonniferi ma, nonostante ciò, continua a viaggiare senza tregua.

La fine della guerra fu un momento di amara disillusione per Lee Miller, la quale si rese conto che il mondo era ancora dominato dall’interesse personale di criminali e politici corrotti. Ormai tutto le sembrava inutile.

Emotivamente fragile e fisicamente sfinita, torna a Londra e nell’estate del 1946 intraprende un viaggio con Roland in America.

 Roma Gypsies and Lee Miller, Brasov, Romania 1938 by Roland Penrose © Lee Miller Archives, England 2021. All rights reserved. leemiller.co.uk Roland Penrose © Lee Miller Archives, England 2021. All rights reserved. leemiller.co.uk

È un periodo molto felice: Roland acquista una nuova casa in campagna, Farley Farm, che diventa meta prediletta di artisti, critici e letterati, oltre a ospitare la sua ricca collezione d’arte contemporanea; nasce Anthony e Lee dedica sempre più tempo alla casa e al giardino.

I servizi per “Vogue” si fanno sporadici e la cucina diventa la nuova passione di Lee, tanto da venir riconosciuta come cuoca a livello internazionale.

Le uniche fotografie che scatta in questo periodo sono i ritratti degli amici impegnati in stravaganti attività a Farley Farm, una ricca collezione di immagini che sarà pubblicata su “Vogue” nel 1953 con il titolo Working Guests, l’ultimo articolo della carriera da giornalista di Lee Miller. 

Dal 1955 Lee subisce un grave turbamento psico-fisico: non si piace più, veste in modo sciatto e il whisky è la sua sola consolazione, inoltre Roland è sempre più impegnato a fondare l’Institute of Contemporary Arts ed è per giunta innamorato di una nuova compagna.

I tempi in cui Lee scattava penetranti fotografie sono ormai lontani e una sera mentre era a cena con l’amica Tanja Ramm le confessa: «mi hanno appena detto che ho il cancro. Non ho voglia di parlarne, ma so che non durerà a lungo».

Il declino fu veloce, Roland non la lasciò mai da sola e fu tra le sue braccia che Lee Miller morì il 21 luglio 1977.

Si chiude così il racconto su Lee Miller, una donna e artista che ha vissuto la sua vita vissuta sempre al massimo grado di intensità, in perenne ricerca di se stessa e delle infinite occasioni che l’esistenza poteva offrirle.

Surrealist Lee Miller, Palazzo Pallavicini, 2019. ©Claudia Stritof

È difficile raccontare una donna di tale caratura ma a emergere è sempre la sua duplice natura: donna ironica e divertente e fotografa empatica e rispettosa del dolore altrui, qualità umane che le hanno permesso di cogliere con grande sensibilità gli eventi più tragici del XX secolo.

Testi estrapolati dalla mostra "Surrealist Lee Miller" (Palazzo Pallavicini, Bologna, 2019 ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati 
Archivio Lee Miller
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Save the date | W. Eugene Smith: Pittsburgh. Ritratto di una città industriale https://www.cultmag.it/2018/09/27/save-the-date-w-eugene-smith-pittsburgh-ritratto-di-una-citta-industriale/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2018/09/27/save-the-date-w-eugene-smith-pittsburgh-ritratto-di-una-citta-industriale/#respond Thu, 27 Sep 2018 11:48:09 +0000 https://www.cultmag.it/?p=5678 Tutto sembra tacere se osservato da lontano: il fiume Monongahela scorre silenzioso nella notte, sull’acqua increspata dal vento si scorge il riflesso delle alte ciminiere mentre nubi vaporose s’innalzano al cielo formando una coltre impenetrabile allo sguardo desideroso di stelle.

Un uomo sull’asfalto nero danza tra lapilli infuocati, un altro fuma una sigaretta in una fugace pausa dal lavoro e una donna, poggiata su un parchimetro, volge lo sguardo pensieroso verso la strada.

W. Eugene Smith, USA, 1918-1978
Area residenziale / City Housing, 1955-1957
Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 33.97 x 26.67 cm Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh © W. Eugene Smith / Magnum Photos

Atmosfere evanescenti e volti inafferrabili, inquietante piacevolezza di un tempo che fu: questa è la sensazione che ho avuto al MAST di Bologna, osservando le fotografie di W. Eugene Smith,
acclamato fotoreporter americano che negli anni Cinquanta ha catturato in ogni suo più piccolo dettaglio la città di Pittsburg, in Pennsylvania.

Dalle vedute silenziose, all’immersione nella città, Smith non cela nulla di quel mondo ormai lontano dalla nostra contemporaneità. Sembra quasi udire le sonorità tipiche dell’epoca, quegli stessi suoni che all’incirca un decennio dopo Luigi Nono registrerà per comporre La FabbricaIlluminata: i rumori metallici provenienti dalle acciaierie, lo sfregare di lamiere simile al canto delle cicale durante un afoso pomeriggio estivo e il fragore cittadino che inonda in un sol colpo l’orecchio dell’ignaro scopritore della città dell’acciaio.

W. Eugene Smith, USA, 1918-1978
Operaio di un’acciaieria che prepara le bobine / Mill Man Loading Coiled Steel, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 22.86 x 34.61 cm Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection. © W. Eugene Smith / Magnum Photos

Eugene Smith giunge a Pittsburgh nel marzo del 1955, per realizzare un servizio sul bicentenario della fondazione della città. Il lavoro sarebbe dovuto durare solo poche settimane, ma si protrasse diversi anni, diventando con il tempo il progetto più ambizioso del fotografo americano.

Come scrive il curatore della mostra, Urs Stahel, «W. Eugene Smith lottava per rappresentare l’assoluto. Ben lungi dall’accontentarsi di documentare il mondo, voleva catturare, afferrare, almeno in alcune immagini, niente di meno che l’essenza stessa della vita umana», e ciò che Smith incontra a Pittsburgh è un’umanità lavoratrice e speranzosa nel futuro, con la voglia di riscattarsi dalla fame e dalla disperazione dettata dalla povertà dei tempi.

W. Eugene Smith, USA, 1918-1978 Bambini che giocano tra Colwell Street e Pride Street, Hill District / Children playing at Colwell and Pride Streets, Hill District, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 34.61 x 23.18 cm Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection © W. Eugene Smith / Magnum Photos

A fotografie di panorami, Smith, alterna volti cosparsi di fuliggine e gesti di grande ritualità e sacralità, singole immagini che come fossero tessere di un mosaico vanno a comporre un tappeto musivo di inestimabile bellezza, un ritratto corale, ricco di sfaccettature e di storie profonde.

All’epoca del servizio Smith ha trentasei anni ed è un acclamato fotoreporter, ma qualcosa inizia a turbarlo emotivamente: forse l’allontanamento da sua moglie Carmen e dai suoi quattro figli, forse la rottura con le riviste con cui da sempre aveva collaborato, più probabilmente l’emersione di un vissuto interiore inquieto che portava con sé da ormai troppo tempo.

Giunto a Pittsburgh, la sua anima ribelle, perfezionista e indagatrice, s’immerge alla scoperta di nuove profondità sociali: osserva e studia la storia della città e i suoi abitanti.

Nel primo mese scatta pochissime immagini, vuole capire cosa lo ha portato lì e cosa si cela nei meandri di questo Tartaro contemporaneo. Vuole cogliere il clima di incertezza e transitorietà che la città vive quotidianamente, non lasciandosi fuggire nulla: dai quartieri di nuova costruzione con villette a schiera, fino alla povertà delle baracche dei sobborghi operai.

W. Eugene Smith, USA, 1918-1978
Edilizia residenziale / Housing & Construction, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 33.34 x 25.40 cm Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection © W. Eugene Smith / Magnum Photos

La mostra W. Eugene Smith: Pittsburgh. Ritratto di una città industriale al MAST di Bologna è un racconto fatto attraverso 170 stampe vintage di inestimabile bellezza sociale e culturale, provenienti dalla ricca collezione del Carnegie Museum of Art di Pittsburgh, che testimoniano l’impresa titanica compiuta dal grande fotoreporter William Eugene Smith, proprio nell’anno in cui ricorre il
centenario della sua nascita e il quarantennale dalla sua scomparsa.

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W. Eugene Smith Pittsburgh Ritratto di una città industriale

QUANDO: fino al 16 settembre 2018
DOVE: MAST. | via Speranza 42, Bologna
INFO: mast.org

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Articolo di Claudia Stritof per FrizziFrizzi (10 settembre 2018)

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Gli Americani di Robert Frank https://www.cultmag.it/2017/01/10/gli-americani-di-robert-frank/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/01/10/gli-americani-di-robert-frank/#respond Tue, 10 Jan 2017 09:30:16 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4364 Jack Kerouac nella prefazione al libro Gli Americani di Robert Frank scrive: «Chi non ama queste immagini, non ama la poesia […] Robert Frank, svizzero, discreto, gentile, con quella piccola macchina fotografica che fa spuntare e scattare con una mano, ha saputo tirar fuori dall’America un vero poema della tristezza». Con queste semplici parole Kerouac esalta non solo la singolare tecnica dell’amico fotografo della Beat Generation – il quale coglie furtivamente immagini lungo le strade americane degli anni Cinquanta – ma sottolinea l’enorme valenza psicologica e sociologica che traspare dalle bellissime immagini del fotografo svizzero. Istanti fugaci di una vita che poi così speciale non è, ma che trova la sua vera bellezza e unicità nella semplice quotidianità dell’esistenza stessa.

Robert Frank, Rodeo, Detroit, Michigan, 1955

Il libro con il titolo Les Américains di Robert Frank è stato pubblicato per la prima volta nel 1958 in Francia dall’editore Robert Delpire, mentre l’anno seguente è edito dalla Grove Press negli Stati Uniti; il volume contiene scatti epifanici colti on the road  “quando il sole picchia forte […] e ti arriva la musica di un jukebox o quella di un funerale che passa. È questo che ha catturato Robert Frank nelle formidabili foto scattate durante il lungo viaggio attraverso qualcosa come quarantotto stati”. È il 1955 quando il fotografo si mette in viaggio a bordo di una macchina cigolante e malmessa con la moglie e i figli ed è in questa occasione – grazie a una borsa di studio ricevuta dalla Fondazione Guggenheim – che realizza un resoconto nudo e crudo di un’America contraddittoria colta nello scorrere incessante della vita di periferia: uomini e donne intenti a osservare un rodeo, stazioni di servizio, tram con a bordo i  passeggeri che curiosi osservano il fotografo, insegne di legno, manifesti pubblicitari, strade deserte e polverose, market di periferia, funerali e bande di paese. La serie composta da ottantatré scatti d’immensa intensità emotiva, si discosta da tutti i reportage fotografici precedenti, configurandosi invece come un racconto visivo tagliente e fedele al reale che non a caso è stato d’ispirazione per le successive generazioni di fotografi di reportage. Come ebbe a dire Elliott Erwitt in un’intervista: “Le immagini di Robert Frank potrebbero colpire qualcuno come sciatte – l’estensione dei toni non è giusta e cose del genere – ma sono di gran lunga superiori alle immagini di Ansel Adams per quanto riguarda la qualità, perché la qualità di Ansel Adams, se posso dirlo, è essenzialmente la qualità di una cartolina. Ma la qualità di Robert Frank è una qualità che ha qualcosa a che fare con ciò che egli sta facendo, con quella che è la sua mente”.

Robert Frank, Funerale, St.Helena, South Carolina, 1955

Il libro Gli Americani è diventato una pietra miliare dell’editoria fotografica perché le sue immagini riescono ad afferrare il trascorrere del tempo, nulla è eclatante nelle fotografie di Robert Frank ma tutto è rivelatorio: dai momenti di apatia a quelli di tristezza, da quelli di ilarità a quelli di gioia; non è l’istante decisivo di un qualche accadimento importante ma è la semplicità del qui e ora, del momento vissuto e colto empaticamente dal fotografo. Un concetto ben chiaro nella poetica di Robert Frank che afferma “le fotografie parlano di fotografia, dell’artista, delle sue immagini, di noi. Come tutta la grande arte che racconta la condizione umana, porta in sé l’identità dell’artista. Non sono vedute anonime. Non sono posti e gente anonimi. Sono le parole del poeta, sontuosamente ambigue e perfettamente bilanciate”. Le fotografie de Gli Americani, ancor oggi rimangono una testimonianza viva e un “poema per immagini” dedicato alla vita on the road e al fermento delle strade americane; fino al 19 febbraio l’intera serie sarà esposta alla Galleria Forma Meravigli di Milano, dov’è anche possibile ammirare, in una sala appositamente dedicata, stralci del testo originale e alcune delle edizioni pubblicate dal 1958 in poi, tra cui quella italiana con la copertina illustrata da Saul Steinberg. L’esposizione è accompagnata dall’omonimo libro pubblicato da Contrasto Editore.

Testo di Claudia Stritof pubblicato su Juliet art magazine online, 7 gennaio 2017.

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Gli Americani di Robert Frank
30 novembre 2016 – 19 febbraio 2017
Forma Meravigli
Via Meravigli 5, 20123 Milano
www.formafoto.it?utm_source=rss&utm_medium=rss

Robert Frank, Comizio politico, Chicago, 1956

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Secret Japan https://www.cultmag.it/2016/05/11/secret-japan/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/05/11/secret-japan/#respond Wed, 11 May 2016 19:22:07 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3878 In occasione del 150° anniversario della firma del Trattato di Amicizia e di Commercio tra Italia e Giappone (1866) – il quale diede avvio alle relazioni diplomatiche tra i due paesi – al Palazzo del Governatore di Parma, la mostra Giappone Segreto. Capolavori della fotografia dell’800, curata da Francesco Paolo Campione e Marco Fagioli, rende omaggio alle tradizioni e ai costumi del Sol Levante.

Ad accompagnare idealmente il visitatore sono le memorie di Enrico II di Borbone – fratello dell’ultimo regnante del Ducato di Parma – e Adelgonda di Braganza, che tra il 1887 e il 1889, intrapresero un lungo viaggio in Asia, e in particolare in Giappone, terra da cui il conte riportò un importante patrimonio artistico, che dal 1925 ha permesso la fondazione del Museo d’Arte Orientale di Venezia.

Ogawa Kazumasa (attr.), Artigiana in posa a lato di una parete di zoccoli tradizionali, 1890 circa

Ogawa Kazumasa (attr.), Artigiana in posa a lato di una parete di zoccoli tradizionali, 1890 circa

La mostra si configura come un intenso percorso nella storia e nell’arte di un paese antico: centoquaranta fotografie originali di importanti maestri giapponesi ed europei realizzate durante il periodo Meiji (1868-1912), anni in cui il Giappone fu investito da un profondo cambiamento culturale e sociale, in seguito all’apertura commerciale del paese ai mercati esteri.

Con l’Imperatore Mutsuhito, il Giappone passò da una politica di tipo feudale a una modernizzazione forzata, diventando meta prediletta di viaggiatori che volevano documentare la quotidianità e «i costumi di un mondo che appariva all’Occidente come la quintessenza di un Oriente senza tempo: una terra di geishe e samurai, di pagode e misteriosi costumi, per certi versi barbaro, ma per molti altri educato ed elegante».

Per rispondere all’abbondante richiesta, da parte dei globetrotter, di souvenir e immagini-ricordo del mondo nipponico, nacque un’arte unica, frutto del felice incontro fra la tecnica fotografica occidentale e la maestria dei pittori locali, capaci di applicare il colore su minuscole superfici, dando vita ad una delle più importanti scuole di fotografia del tempo: la Scuola di Yokohama, «un unicum, sia per l’omogeneità e la riconoscibilità del suo linguaggio, sia per l’originalità e per il valore dei principi estetici e stilistici che seppe esprimere».

Kusakabe Kimbei, Tre ragazze, 1880-1890

Kusakabe Kimbei, Tre ragazze, 1880-1890

Tra i maggiori interpreti di questo stile: Felice Beato, Raimund von Stillfried-Ratenicz, Adolfo Farsari, Ueno Hikoma, Kusakabe Kimbei, Tamamura Kōzaburō e Ogawa Kazumasa, che utilizzarono non solo la stampa all’albumina, ma anche supporti diversi associati a tecniche quali la fotolitografia, la litografia a colori, la pittura a olio fotografica, la collotipia, e infine il vetro per realizzare i gentō-ban, lastrine colorate a mano che venivano proiettate nella lanterna magica.

La prima sezione dell’esposizione è dedicata al viaggio dei globe-trotter lungo le antiche strade del Giappone, dominate da magnifici esempi architettonici, villaggi di modeste dimensioni, attraversati da sinuosi corsi d’acqua e ponti in legno. La seconda è invece incentrata sulla natura e sugli ameni paesaggi che contraddistinguono il territorio, per poi proseguire con la descrizione delle attività quotidiane e del commercio. E ancora, immagini dal mondo dell’arte, della danza e del teatro kabuki, a cui segue un interessante approfondimento sulla spiritualità degli abitanti e dei riti religiosi. Per finire le ultime due sezioni sono dedicate, l’una agli eroi dell’ultraesotico: samurai, tatuati, kendoka e lottatori di sumo, l’altra alle donne, alla loro immagine e all’idealizzazione della bellezza asiatica, che in questi anni diventò un vero e proprio stereotipo per l’Occidente.

Kusakabe Kimbei, Portantina (kago), ante 1893

Kusakabe Kimbei, Portantina (kago), ante 1893

Giappone Segreto. Capolavori della fotografia dell’800 è uno scrigno che raccoglie otto album-souvenir con le copertine in lacca  giapponese, carte de visite, stampe xilografiche policrome dei maestri dell’ukiyo-e, tra cui quelle di Hokusai, Hirochige e Utamaro, oltre a bellissimi esempi di arte decorativa, come un’armatura samurai del XVIII secolo, le maschere del teatro classico nō e alcuni kimono.

La mostra prodotta da Gamm Giunti, in collaborazione con il Museo delle Culture di Lugano e la  Fondazione Ada Ceschin e Rosanna Pilone di Zurigo, con il patrocinio del Comune di Parma, vuole rendere omaggio al recente accordo tra Parma e la Prefettura di Kagawa, prefigurandosi come un immersione totale nella cultura nipponica.

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Testo a cura di Claudia Stritof, pubblicato sulla rivista Juliet art magazine (19 aprile 2016).

Giappone Segreto. Capolavori della fotografia dell’800
Parma, Palazzo del Governatore, piazza Giuseppe Garibaldi, 2
5 marzo – 5 giugno 2016
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Maria Callas. The Exhibition https://www.cultmag.it/2016/05/11/maria-callas-the-exhibition/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/05/11/maria-callas-the-exhibition/#comments Wed, 11 May 2016 19:11:15 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3870 Una mostra curata da Massimiliano Capella alla Fondazione AMO, Arena Museo Opera di Verona, celebra il mito intramontabile della Divina: Maria Callas. The Exhibition si sviluppa come un intenso percorso nell’arte e nelle passioni della donna che ha cambiato la storia dell’opera.

Poco prima della sua morte, Maria Callas trascriveva in una lettera alcuni versi tratti da La Gioconda di Amilcare Ponchielli, prima opera da lei interpretata all’Arena di Verona nel 1947 sotto la direzione del maestro Tullio Serafin: «in quei fieri momenti tu sol mi resti. E al cor mi tenti l’ultima voce del mio destino, ultima croce del mio cammino», da questa frase mancava solo l’incipit, la parola “suicidio”. La sua scomparsa, come la sua vita rimangono avvolte da un alone di mistero, ma probabilmente quello di Maria Callas era un destino già scritto; una donna fatalista, traghettata nel viaggio della vita dalle proprie sconfinate passioni e dal proprio cuore.

Jerry Tiffany, Ritratto fotografico di Maria Callas, New York, 1958. Collezione Ilario Tamassia.

Jerry Tiffany, Ritratto fotografico di Maria Callas, New York, 1958. Collezione Ilario Tamassia.

Fantastica nelle sue interpretazioni drammatiche, riuscì a trasformare i propri difetti in virtù, fece della sua voce graffiante e ruvida un punto di forza e lo stesso avvenne per il suo aspetto fisico tanto denigrato dalla stampa, diventato infine un’icona di stile, dai modi aggraziati e dall’aspetto sempre curato a cui corrispose un’importante svolta artistica, perché ora, a fare da contrappunto alla sua indimenticabile voce, c’e anche un «grande lavoro interpretativo che veicola tramite il proprio corpo». Una scoperta di se stessa che l’ha portata a incarnare con profonda empatia personaggi ricchi di pathos, che trasmetteva all’animo dello spettatore senza nessuna apparente difficoltà, non c’era ruolo che la Callas non potesse interpretare grazie alle sue immense doti di cantante e attrice, ma ciò che affascinava era soprattutto la sua aurea di donna, che nel profondo del proprio cuore celava un animo da bambina dagli occhi innocenti e alla continua ricerca di un amore eterno.

Mario Tursi, Maria Callas come Medea con il costume di scena disegnato da Piero Tosi per il film di Pasolini, 1968. ©Mario Tursi

Mario Tursi, Maria Callas come Medea con il costume di scena disegnato da Piero Tosi per il film di Pasolini, 1968. ©Mario Tursi

La mostra nella città scaligera ripercorre la vita travolgente della Divina: dalla nascita in America al suo ritorno in Grecia con la madre e la sorella, dove studia al Conservatorio grazie alla maestra Elvira de Hidalgo, per poi partire verso il Nuovo Continente e tentare la scalata artistica. A New York il successo non è immediato ma è qui che ottiene un’audizione con l’allora direttore della stagione operistica all’Arena di Verona, Giovanni Zenatello, il quale la scrittura a soli 24 anni. Nel 1947 Maria Callas debutta a Verona, città in cui non corona solo il sogno di diventare cantante ma anche quello di avere una famiglia, sposandosi di lì a poco con l’industriale veronese e suo pigmalione Giovanni Battista Meneghini. Arrivata all’apice del successo la Callas inizia inevitabilmente una parabola discendente: a questo periodo risalgono i primi contrasti con la Scala di Milano, l’amore con Meneghini finisce bruscamente e i tabloid scandalistici si scagliano su di lei mettendone in discussione l’arte e la personalità. Nel frattempo stringe rapporti con l’armatore greco Aristotele Onassis, un amore che nasce e si spegne lentamente in nove anni e dal quale Maria Callas non si riprenderà mai. Tradita e amareggiata la soprano si allontana dalle scene ma non prima di aver interpreto nuovamente la Medea,sotto la regia di Pier Paolo Pasolini, film galeotto dal quale nascerà un profondo sodalizio intellettuale e una sincera amicizia.

Tornerà sulle scene, ma la tragedia ormai faceva parte della sua vita e ulteriormente dilaniata dalla morte di Onassis prima e di Pasolini e Visconti poi, decide di rifugiarsi nella solitudine del suo appartamento parigino fino al sopraggiungere di quel fatidico 16 settembre 1977, quando muore all’età di 53 anni e le sue ceneri vengono disperse nel mar Egeo, quel mare che molte volte l’aveva cullata e accompagnata nel lungo viaggio della vita. In mostra fotografie, costumi e gioielli di scena, cimeli personali, documenti storici e giornali d’epoca che documentano la straordinaria vita di Maria Callas, che come scrisse l’amico Franco Zeffirelli, fu colei che con la sua voce «ci affascinò come un sortilegio, un prodigio che non si poteva definire in alcun modo, la si poteva soltanto ascoltare come prigionieri di un incantesimo, di un turbamento mai esplorato prima». La mostra è realizzata con il patrocinio del Comune di Verona, promossa dalla Fondazione Arena di Verona e prodotta e organizzata da Arthemisia Group.

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Testo a cura di Claudia Stritof, pubblicato sulla rivista Juliet art magazine (25 aprile 2016).

Maria Callas. The Exhibition
AMO Arena Museo Opera, Palazzo Forti, Verona
12 marzo – 18 settembre 2016
www.arenamuseopera.com?utm_source=rss&utm_medium=rss

Maria Callas in camerino mentre si prepara ad interpretare Ifigenia di Gluck, Milano 1957. In basso si vede la Sacra famiglia di Cignaroli.

Maria Callas in camerino mentre si prepara ad interpretare Ifigenia di Gluck, Milano 1957. In basso si vede la Sacra famiglia di Cignaroli.

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Bowie before Ziggy. Fotografie di Michael Putland https://www.cultmag.it/2016/03/14/bowie-before-ziggy-fotografie-di-michael-putland/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/03/14/bowie-before-ziggy-fotografie-di-michael-putland/#respond Mon, 14 Mar 2016 18:10:25 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3844

È il 24 aprile 1972 quando il fotografo Michael Putland, insieme alla giornalista Rosalind Russell, si reca nella residenza di David Bowie a Haddon Hall, per intervistare e fotografare il cantante per Disc magazine. Bowie li accoglie in casa sua e li fa accomodare ma chiede se prima dell’intervista può terminare la decorazione del soffitto della sua elegante casa in stile edoardiano.

Michael Putland, da attento fotografo, non si lascia sfuggire l’occasione e inizia a scattare qualche fotografia mentre il cantante è sulla scala, con un pennello in una mano, la sigaretta nell’altra e vestito con l’abito disegnato dall’amico e stilista Freddy Buretti, lo stesso che Bowie utilizzava nei suoi concerti e con il quale era stato ritratto dallo stesso Putland proprio qualche tempo prima nel concerto al Friars Aylesbury. L’unica differenza: gli stivaletti bianchi al posto di quelli rossi.

David Bowie at home, Beckenham Kent, UK, 1972 (©Michael Putland)

David Bowie at home, Beckenham Kent, UK, 1972
(©Michael Putland)

Bowie nelle fotografie è solare, sorridente, un magma incandescente di energia pronta ad esplodere, come effettivamente stava per accadere con la carismatica figura di Ziggy Stardust, venuta alla luce nell’album The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, la cui registrazione era terminata qualche settimana prima.

David Bowie si era trasferito nella residenza di Haddon Hall nel settembre del 1969, insieme alla compagna di allora Mary Angela Barnett. Questo era un luogo incantevole e ricco di creatività, che in quel periodo diventò il suo studio di registrazione, casa e “factory”, dove abitavano anche collaboratori e amici. Bowie gioca con la sua immagine, come avrebbe fatto per tutta la sua vita, ed è sempre più sicuro del suo aspetto mutevole ed eclettico: già in The Man Who Sold the World del 1970 è ritratto con una lunga chioma bionda ondulata, vestito man­dress di raso e stivali al ginocchio di pelle marrone, mentre nell’album Hunky Dory del 1971 Bowie ha lo sguardo rivolto al cielo e con le mani si accarezza i lunghi capelli biondi, un omaggio esplicito all’attrice Greta Garbo ritratta in questa posa dal fotografo Edward Steichen.

La mostra Bowie before Ziggy è un omaggio che ONO arte contemporanea e Michael Putland hanno deciso di dedicare a David Bowie, dopo le già riuscite mostre precedenti, in cui ogni volta si è indagato un aspetto diverso della carriera del cantante. Un’esposizione che regala allo spettatore un Bowie intimo e rilassato nella sua residenza, a cui si aggiungono degli scatti pre- e post-Ziggy Stardust e altri provenienti dallo Station to Station Tour, oltre al lavoro grafico di Terry Pastor, designer che realizzò la copertina di Ziggy Stardust e Hunky Dory.

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 Testo a cura di Claudia Stritof pubblicato su Frizzifrizzi (14 marzo 2016)

Annie Lennox and David Bowie performing at the Freddie Mercury tribute at Wembley stadium, 1992 (©Michael Putland)

Annie Lennox and David Bowie performing at the Freddie Mercury tribute at Wembley stadium, 1992
(©Michael Putland)

(© Terry Pastor)

© Terry Pastor

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Behind the scenes: Arancia Meccanica. Fotografie di Dmitri Kasterine. https://www.cultmag.it/2016/03/13/behind-the-scenes-arancia-meccanica-fotografie-di-dmitri-kasterine/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/03/13/behind-the-scenes-arancia-meccanica-fotografie-di-dmitri-kasterine/#respond Sun, 13 Mar 2016 10:33:46 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3796 All’inizio fu il silenzio, poi lo schermo rosso e a seguire le note di The Funeral March of Queen Mary di Henry Purcell, arrangiata da Walter Carlos e Rachel Elkin. Così inizia Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, un film che non ha certo bisogno di presentazioni.

Alex guarda dritto in camera, il suo sguardo è sicuro, fiero e mai titubante. La cinepresa si allontana ed «Eccomi là. Cioè Alex e i mie drughi. Cioè Pit, Georgie e Dim. Eravamo seduti nel Korova milkbar arrovellandoci il gulliver per sapere cosa fare della serata», e tra un bicchiere di Latte + e l’altro, il pensiero non poteva che volgere «all’esercizio dell’amata ultraviolenza».

Un incalzare di crudeltà fisica e psicologica che si sussegue senza soluzione di continuità fino alla fine del film: dal Korova milkbar, la scena si sposta in un sottopasso dove i quattro ragazzi aggrediscono un barbone ubriaco, poi vanno in un teatro abbandonato e affrontano la banda rivale capeggiata da Billy Boy, sulle note della Gazza Ladra di Gioacchino Rossino, un energico, vitale, drammatico balletto che mette in scena la giocosità e la violenza del loro comportamento; quindi scorrazzano nelle campagne londinesi su una fiammante “Durango”, chiaramente rubata, per giungere alla villa dei coniugi Alexander, che vengono picchiati e umiliati sulle note di Singin’ in the Rain.

Dmitri Kasterine, Four Droogs. ©Dmitri Kasterine

Dmitri Kasterine, Four Droogs. ©Dmitri Kasterine

Dmitri Kasterine, fotografo britannico di notevole spessore, coglie tutto questo: l’armonica, tragica, grottesca violenza dei drughi e l’atmosfera rarefatta del making of.

In una di queste fotografie Stanley Kubrick siede con Kasterine sotto una piattaforma costruita per proteggere le macchine da presa, mentre fuori piove. I due chiacchierano, lo sguardo di Kubrick è fisso verso l’obiettivo, un po’ annoiato e un po’ pensieroso. Il fotografo non ci pensa un attimo e scatta. Stivaloni in primo piano, gambe incrociate, Kubrick con una mano si tira indietro i capelli, mentre con l’altra tiene la sua cinepresa Arriflex.

Kubrick under platform. ©Dmitri Kasterine

Kubrick under platform. ©Dmitri Kasterine

Dmitri Kasterine è nato in Inghilterra, il padre era un ufficiale dell’esercito Russo mentre la madre era inglese, prima di approdare alla fotografia, svolge diversi lavori: mercante di vini, broker, pilota di aerei e di auto da corsa. Negli anni ’60 tutto cambia e inizia a collaborare con agenzie e riviste importanti come fotografo, ritraendo i maggiori protagonisti dell’arte e della cultura degli ultimi decenni: Martin Amis, David Hockney, Francis Bacon, Samuel Beckett, Mick Jagger e molti altri artisti.

In questi anni viene a conoscenza dei film e della fama di Kubrick e decide di fotografarlo per la rivista Queer. Senza perder tempo Kasterine si reca negli Shepperton Studios dove Kubrick sta girando Il dottor Stranamore, alla fine di quella giornata, il regista gli chiede di lavorare per lui come fotografo, aggiungendo: “You stand in the right place”.

Dmitri ha lavorato con Kubrick sul set di 2001: Odissea nello spazio, de Il dottor Stranamore e Arancia Meccanica, veniva definito quello “speciale”, perchè girovagava sul set scattando immagini del dietro le quinte, che poi Kubrick avrebbe voluto inserire nei titoli di coda, cosa che però non fece mai.

Testo a cura di Claudia Stritof.

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Questo articolo è stato scritto in seguito alla visita presso la  ONO arte contemporanea di Bologna, che ha presentato la mostra Stanley Kubrick – Arancia Meccanica. Fotografie di DMITRI KASTERINE, la quale celebra il genio del fotografo e la pellicola di Kubrick, proprio in occasione del 45° anniversario dell’uscita del film nelle sale. Costumi futuristici, musica classica, scenografie pop, importanti richiami storici e colti dialoghi si susseguono incessanti sulle note di Rossini e del «buon vecchio Ludovico Van». Arancia Meccanica, un film diventato un cult per molte generazioni e una pietra miliare della cinematografia internazionale.

Stanley Kubrick – Arancia Meccanica Fotografie di DMITRI KASTERINE

ONO arte contemporanea, via Santa Margherita, 10 – Bologna

19 marzo- 7 maggio 2016

www.onoarte.com?utm_source=rss&utm_medium=rss

©Dmitri Kasterine.

©Dmitri Kasterine.

kubrick leaning on Moy. ©Dmitri Kasterine.

Kubrick leaning on Moy. ©Dmitri Kasterine.

Droogs in hall of flats. ©Dmitri Kasterine.

Droogs in hall of flats. ©Dmitri Kasterine.

Alex and droog with Adrienne over shoulder. ©Dmitri Kasterine.

Alex and droog with Adrienne over shoulder. ©Dmitri Kasterine.

Alex look into camera rape scaene. ©Dmitri Kasterine.

Alex look into camera rape scaene. ©Dmitri Kasterine.

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Youth Codes: 40 anni dalla nascita del Punk. https://www.cultmag.it/2016/03/11/youth-codes-40-anni-dalla-nascita-del-punk/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/03/11/youth-codes-40-anni-dalla-nascita-del-punk/#respond Fri, 11 Mar 2016 08:58:54 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3781 Il 18 marzo alla Matèria Gallery di Roma inaugura la mostra Youth Codes, a cura di Gianpaolo Arena e Niccolò Fano. Un’esposizione che rende omaggio al Punk e ai suoi 40 anni, mettendo a confronto due serie fotografiche: Punks di Karen Knorr e Olivier Richon e Colossal Youth del fotografo tedesco Andreas Weinand.

La prima serie Punks è stata realizzata negli anni tra il 1976 e il 1977 a Londra, dove i due artisti Karen Knorr e Olivier Richon, ancora studenti presso il Polytechnic of Central London, hanno documentato da vicino l’emergente scena punk che gravitava intorno ai famosi clubs londinesi come il Roxy di Covent Garden e Global Village di Charing Cross. Un’occhio indiscreto, il loro, che con un «approccio talvolta più formale rispetto ad altri lavori dedicati alla cultura punk», si propone l’intento di evidenziare e rendere manifesti i simboli della nascente subcultura.

Untitled, dalla serie Punks di Karen Knorr & Olivier Richon.

Untitled, dalla serie Punks di Karen Knorr & Olivier Richon.

La seconda serie, intitolata Colossal Youth è stata realizzata dal fotografo tedesco Andreas Weinand, tra il 1988 e il 1990 a Essen in Germania. Il fotografo ritrae la gioventù tedesca e l’influenza che il punk ha avuto nella società, a dieci anni di distanza dalla prima importante ondata di ribellione. Le sue foto a colori, sono uno spaccato sull’esistenza umana: ragazzi che si svagano al mare facendo la verticale, ragazzi che si perdono nelle proprie elucubrazioni mentali e ancora giovani che esprimono rabbia, gioia e noia, mentre festeggiano, litigano o dormono. Ciò che Andreas Weinand cattura è la quotidianità del vivere nel suo contesto socio-culturale, raccontata con uno stilo diaristico, mai distaccato e sempre partecipe.

Le immagini della mostra Youth Codes sono intime e delicate, non hanno alcuna pretesa di giudicare, ma al contrario la voglia di far capire in profondità un fenomeno importante, come lo è stato quello del punk. Una storia lunga 40 anni che ha inizio negli Stati Uniti, quando sul palco del CBGB’s suonano Richard Hell, i Ramones e i Television, mentre Legs McNeil e John Holmstrom fondano la fanzine Punk, rivista che diventa la portavoce ufficiale della fervida vita musicale e artistica newyorchese.

Andreas Weinand, Colossal Youth.

Andreas Weinand, Colossal Youth.

In questi anni a New York c’e anche Malcom McLaren, manager per un breve periodo dei New York Dolls, che una volta tornato a Londra nel 1975 decide di aprire, con la sua compagna di allora Vivianne Wastwood, la boutique SEX. Il negozio in breve tempo viene frequentato da musicisti e giovani, i quali vanno da McLaren per passare il loro tempo parlando di musica. E’ qui che si formano i Sex Pistols, ed è qui che nasce la moda delle t-shirt strappate, giubbotti in pelle, e jeans logori con catene e borchie.

E’ il 1976, Londra registra alti tassi di disoccupazione giovanile e la crisi economica dilania il paese, i ragazzi si ribellano ad una società austera e conservatrice, in questo clima si propaga il punk, cultura etichettata dai mass-media come pericolosa e sovversiva mentre i ragazzi definiti «individui annoiati o aggressivi, figure irriverenti» e scapestrate.

Untitled, dalla serie Punks di Karen Knorr & Olivier Richon.

Untitled, dalla serie Punks di Karen Knorr & Olivier Richon.

Oltre ai già citati Sex Pistols, nascono i Damned, i Clash e le Slits, il punto di ritrovo sono i concerti, dove il più delle volte avvengono risse e scazzottate, le canzoni sono urlate al microfono e i suoni sono sporchi. In poche parole, è la nascita del Punk!

La mostra Youth Codes alla Matèria Gallery ci permette di ripercorrere tutto questo, indagando non solo la nascita del punk londinese, ma anche mostrando gli effetti e gli sviluppi che questo importante fenomeno culturale e sociale ha avuto nel tempo.

Testo a cura di Claudia Stritof.

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Youth Codes

Matèria Gallery, via Tiburtina 149, Roma

18 marzo – 28 aprile 2016

contact@materiagallery.com

www.materiagallery.com?utm_source=rss&utm_medium=rss

Andreas Weinand, Colossal Youth.

Andreas Weinand, Colossal Youth.

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]]> https://www.cultmag.it/2016/03/11/youth-codes-40-anni-dalla-nascita-del-punk/feed/ 0 3781 Jakob Tuggener, il poeta visivo dei contrasti https://www.cultmag.it/2016/03/11/jakob-tuggener-il-poeta-visivo-dei-contrasti/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/03/11/jakob-tuggener-il-poeta-visivo-dei-contrasti/#respond Fri, 11 Mar 2016 08:51:34 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3785 Un’anteprima assoluta per l’Italia è la mostra dedicata al fotografo svizzero Jakob Tuggener inaugurata presso gli spazi del MAST – Manifattura di arti, sperimentazione e tecnologia di Bologna, in occasione di Artefiera. Nato a Zurigo nel 1904, Tuggener è stato un fotografo unico nel suo genere, dando vita a un archivio d’immagini di notevole importanza per l’apprezzamento del clima d’inizio Novecento in Europa.

La rassegna, curata da Martin Gasser e Urs Stahel, si configura come duplice esposizione incentrata su due importanti lavori: Fabrik 1933-1953. Poetica e impronta espressionistica nelle immagini industriali e Nuits de bal 1934-1950. I balli nell’alta società elvetica e il lavoro invisibile, attraverso i quali i due curatori hanno voluto porre l’accento sulla poliedricità artistica di Jakob Tuggener, non solo encomiabile fotografo ma un vero “poeta dell’immagine”. Come ha esaustivamente scritto il critico Max Eichenberger: «un singolare alchimista che, pur se in quantità ridotte, è in grado di tramutare il piombo in oro», sottolineando la peculiarità più grande del fotografo svizzero, in qualità di attento osservatore della quotidianità, subito trasposta in poesia visiva grazie alla grande sensibilità fotografica, pittorica e cinematografica.

La serie Fabrik, comprende 150 stampe originali, tratte sia dall’omonimo libro fotografico edito nel 1943, sia da altre immagini di lavoratori catturate in viaggio per il paese. Quella di Jakob Tuggener è un’indagine sociale ad ampio spettro sui lavoratori dell’industria bellica in Svizzera durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale che, oltre a ripercorrere la storia dell’industrializzazione del suo paese, pone importanti interrogativi sul «potenziale distruttivo del progresso tecnico indiscriminato il cui esito, secondo l’autore, era la guerra in corso, per la quale l’industria bellica svizzera produceva indisturbata». Da questa sezione dedicata al mondo dell’industria – e in qualche modo più attenta ai temi sociali quali il lavoro, la guerra e le condizioni di vita degli operai – il percorso espositivo prosegue sotto forma di proiezione, con la serie Nuits de bal. Scatti seducenti in cui i soggetti sono donne e uomini dell’alta società elvetica intenti a danzare per tutta la notte sulle note di un pianoforte in una sala da ballo.

Senza mai tradire la sua natura indagatrice, il fotografo ancora una volta esplora la società nel suo complesso e con assoluta naturalezza ne coglie gesti e movenze che sembrano scorrere sugli schermi come fossero un film muto. Da subito si percepisce il clima di festa emanato da questi luoghi: la purezza dei cristalli e delle sete bianche, la sensualità delle schiene nude e la morbidezza dei pellicciotti indossati dalle eleganti signore, come anche l’ilarità e la gaiezza del momento. Ma ciò che non sfugge è ancora una volta il contrasto tra questi sfarzosi elementi e la compostezza dei lavoratori invisibili – musicisti, camerieri, cuochi, maître e valletti – che per tutta la notte vegliano silenziosamente sugli ospiti. Il poeta della «seta e delle macchine» come Tuggener stesso ebbe modo di affermare, in cui gli opposti diventano un modo di guardare la realtà e di viverla intensamente «senza mai tralasciare le sfumature più tenui tra i due poli».

Questa su Jakob Tuggener è una mostra importante, un racconto visivo narrato dallo sguardo partecipe e mai disinteressato del fotografo, grazie al quale ci è stato tramandato il ritratto di un’epoca drammatica, del ventennio da lui vissuto. La mostra promossa dalla Fondazione MAST è realizzata in collaborazione con la Fondazione Jakob Tuggener di Uster e la Fondazione Svizzera per la fotografia di Winterthur.

Articolo di Claudia Stritof pubblicato su Juliet art Magazine (7 marzo 2016)

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Jakob Tuggener
MAST, via Speranza 40-42, Bologna
27 gennaio 2016 – 17 aprile 2016
www.mast.org?utm_source=rss&utm_medium=rss

Ballo ungherese, Grand Hotel Dolder, Zurigo, 1935 © Jakob Tuggener Foundation, Uster

Ballo ungherese, Grand Hotel Dolder, Zurigo, 1935 © Jakob Tuggener Foundation, Uster

Lavoro in caldaia 1935 © Jakob Tuggener Foundation, Uster

Lavoro in caldaia 1935 © Jakob Tuggener Foundation, Uster

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Women in action. La storia della Body Art dagli anni Sessanta a oggi. https://www.cultmag.it/2016/03/04/women-in-action-la-storia-della-body-art-dagli-anni-sessanta-a-oggi/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/03/04/women-in-action-la-storia-della-body-art-dagli-anni-sessanta-a-oggi/#respond Fri, 04 Mar 2016 17:21:45 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3104 A Merano Arte – dal 6 febbraio al 10 aprile 2016 – la mostra GESTURES – Women in action, curata da Valerio Dehò, ripercorre la storia della Body Art dagli anni Sessanta a oggi, attraverso l’opera di artiste internazionali che hanno segnato profondamente la storia dell’arte del Novecento.

Il corpo da sempre è stato uno specchio su cui si riflettono i cambiamenti sociali e culturali in atto nella società, ed è proprio dagli anni Sessanta che inizia ad assume la sua centralità grazie alle proteste dei movimenti giovanili e alle rivendicazione di genere. L’arte non poteva rimanere immune rispetto alle importanti rivoluzioni che stavano avvenendo, tanto che il corpo dell’artista è diventato, proprio in quegli anni turbolenti, un manifesto di esistenza, un corpo «militante», il quale ha reso esplicite importanti tematiche collettive e private volte a scardinare preconcetti e diktat di una società essenzialmente bigotta.

Il percorso nella mostra Gestures – Women in action inizia in presenza del famoso violoncello dell’artista e musicista Charlotte Moorman e con la proiezione del video realizzato durante la sua performance, mentre una grande fotografia di Marina Abramovic campeggia sulla parete del museo che dal piano terra si eleva fino al terzo piano. Tra le prime artiste in mostra c’e Yoko Ono, pioniera della Body Art, che dalla fine degli anni Cinquanta militava nel gruppo dei Fluxus, corrente che con le sue azioni voleva negare la comune distinzione tra arte e vita. Famosa la performance Bed In realizzata con il marito John Lennon nel 1969, ma forse ancor di più Cut piece del 1965, in cui Yoko Ono invitava il pubblico a tagliare i vestiti da lei indossati, costringendolo a esercitare, volente o nolente, una violenza attiva sulla donna.

In mostra anche le fotografie delle performance di Marina Abramovic, caratterizzate da una lunga e meditata preparazione psichica e da una ferrea disciplina fisica «attraverso le quali ha esplorato i limiti della sopportazione corporea, le potenzialità della mente e della concentrazione», così come avviene per Gina Pane, presente con una fotografia tratta dalla performance Azione sentimentale del 1973. L’opera dell’artista italiana è accostata a quella della cubana Ana Mendieta, alla quale seguono le ripetizioni ossessive della giapponese Yayoi Kusama, le provocazioni femministe di Valie Export e quelle più corporalmente umilianti di Carolee Schneemann, la quale attraverso le sue incisive performance contestava con assoluta lucidità il corpo divenuto mero oggetto del desiderio maschile.

Proseguendo lungo il percorso della mostra si arriva agli anni Ottanta che indubbiamente sono stati segnati dalle mutazioni ibride di Orlan, mentre il confine tra pubblico e privato è indagato nella serie Mon ami del 1984 di Sophie Calle. E ancora le opere di Jeanne Dunning, dell’iraniana Shirin Neshat, della giovane fotografa italiana Silvia Camporesi con la serie Il sale della terradel 2006, della triestina Odinea Pamici e infine della performer guatemalteca Regina José Galindo, la quale attraverso le sue azioni – definite atti psicomagici – eleva il corpo svuotato, mortificato e violato in poesia panica simbolo di vita e di lotta.

GESTURES – Women in action, realizzata in collaborazione con The Cultural Broker e 123 Art è un percorso intenso ed emozionalmente penetrante che permette di comprendere fino in fondo l’enorme importanza culturale e politica che queste artiste hanno avuto sulla società contemporanea, interpretando e assurgendo il loro corpo a simbolo di protesta, provocazione e memento contro tutto ciò che il comune senso del pudore avrebbe voluto celare e non rendere mai manifesto.

Articolo di Claudia Stritof pubblicato su Juliet art magazine (28 febbraio 2016).

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Valie Export, Smart Export, 1970

VALIE EXPORT, Smart Export, 1970 ©VALIE EXPORT by Siae 2016

Gina Pane, Azione sentimentale, 1973 © Gina Pane by Siae 2016

Gina Pane, Azione sentimentale, 1973 © Gina Pane by Siae 2016

Yoko Ono. Cut Piece. 1964. Performed by Yoko Ono in New Works of Yoko Ono, Carnegie Recital Hall, New York, March 21, 1965. Photograph by Minoru Niizuma. © Minoru Niizuma. Courtesy Lenono Photo Archive, New York.

Yoko Ono. Cut Piece. 1964. Performed by Yoko Ono in New Works of Yoko Ono, Carnegie Recital Hall, New York, March 21, 1965. Photograph by Minoru Niizuma. © Minoru Niizuma. Courtesy Lenono Photo Archive, New York.

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GESTURES – Women in action
Merano Arte, Edificio Cassa di Risparmio, Portici 163, Merano
6 febbraio 2016 – 10 aprile 2016
www.kunstmeranoarte.org?utm_source=rss&utm_medium=rss

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