Press – Collaborazioni di Cult Mag – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Sun, 14 Feb 2021 18:02:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Articoli da me scritti per altre riviste. In questa sezione i link di riferimento. https://www.cultmag.it/2021/02/14/mi-trovi-anche/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/02/14/mi-trovi-anche/#respond Sun, 14 Feb 2021 10:50:11 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6821

Addio a Giuseppe Rotunno, il mago della luce

Photolux Magazine,
8 febbraio 2020.

Jeff Bridges dietro l’obiettivo. Panoramiche dal set.

Photolux Magazine,
Issue 6 "Intersezione. Tra cinema e fotografia", 10 novembre 2020.

Le “fotografie animate”. Piccola storia di una scoperta che rivoluzionò il mondo

Photolux Magazine,
Issue 6 "Intersezione. Tra cinema e fotografia", 10 novembre 2020.

Matthieu Gafsou – “Human+”: Il divorzio della forma dalla materia

Photolux Magazine,
Issue 5 "Di Mondi Possibili", 9 luglio 2020.

Mario Giacomelli – Gente di Calabria

Photolux Magazine,
27 maggio 2020.

Alinari – Storia di un Archivio

Photolux Magazine, 11 maggio 2020.

Masayoshi Sukita – Stardust Bowie

Photolux Magazine, 6 marzo 2020.

Romano Cagnoni – L’essenza della storia

Photolux Magazine,
Issue#3 Mondi
15 novembre 2019.

Baron Wolman – Woodstock: un’utopica realtà

Photolux Magazine, 6 marzo 2020.

La conquista di una “magnifica desolazione” nelle fotografie NASA

Photolux Magazine, 
Issue#3 Mondi
15 novembre 2019.

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“Le sentinelle” di Claudia Gori https://www.cultmag.it/2019/05/24/le-sentinelle-di-claudia-gori/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/05/24/le-sentinelle-di-claudia-gori/#respond Fri, 24 May 2019 06:38:54 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6202 Serena ha trentotto anni ed è di Verona, sette anni fa le hanno diagnosticato l’elettrosensibilità (EHS) e la Sensibilità Chimica Multipla (MCS), due patologie poco conosciute, ma che iniziano a essere diffuse anche in Italia, dove si contano almeno seicentomila casi.

A farci rifettere su questo fenomeno è la fotografa Claudia Gori, con il progetto Le Sentinelle, il cui titolo è un chiaro riferimento alle molte persone da lei ritratte, definite così proprio perché considerate coloro che oggi sentono i sintomi di una patologia che un domani potrebbe diventare un fenomeno sempre più diffuso, ovvero l’ipersensibilità ai campi elettromagnetici.

Tra i sintomi che più di frequente sono stati riscontrati vi sono cefalee, insonnia, debolezza, deficit di concentrazione, dolori articolari e muscolari, eruzioni cutanee, alterazione dell’umore, disturbi uditivi, visivi e dell’equilibrio, il che compromette la qualità della vita di coloro che ne soffrono.

L’OMS, che ancora non ha riconosciuto l’elettrosensibilità come una patologia, nel 2005 ha pubblicato un Promemoria, in cui suggeriva di indicare questi fenomeni come «intolleranza idiopatica ambientale con attribuzione ai campi elettromagnetici», dove veniva anche spiegato come «alcuni soggetti lamentano sintomi leggeri e reagiscono evitando […] i campi, mentre altri sono colpiti in modo talmente grave da abbandonare il lavoro e cambiare interamente stile di vita».

Il progetto di Claudia Gori, realizzato in collaborazione con il giornalista Giacomo Alberto Vieri, proprio in questi giorni è in mostra all’IMP Festival – International Month of Photojournalism a Padova, un festival importante perché permette di conoscere da vicino il mondo del fotogiornalismo, portando alla nostra attenzione storie poco conosciute, alcune più ironiche, altre più tragiche, ma sempre importanti per comprendere i tanti piccoli frammenti di cui è composto il nostro presente.

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Pubblicato su frizzifrizzi (21 maggio 2019)

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Save the date | W. Eugene Smith: Pittsburgh. Ritratto di una città industriale https://www.cultmag.it/2018/09/27/save-the-date-w-eugene-smith-pittsburgh-ritratto-di-una-citta-industriale/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2018/09/27/save-the-date-w-eugene-smith-pittsburgh-ritratto-di-una-citta-industriale/#respond Thu, 27 Sep 2018 11:48:09 +0000 https://www.cultmag.it/?p=5678 Tutto sembra tacere se osservato da lontano: il fiume Monongahela scorre silenzioso nella notte, sull’acqua increspata dal vento si scorge il riflesso delle alte ciminiere mentre nubi vaporose s’innalzano al cielo formando una coltre impenetrabile allo sguardo desideroso di stelle.

Un uomo sull’asfalto nero danza tra lapilli infuocati, un altro fuma una sigaretta in una fugace pausa dal lavoro e una donna, poggiata su un parchimetro, volge lo sguardo pensieroso verso la strada.

W. Eugene Smith, USA, 1918-1978
Area residenziale / City Housing, 1955-1957
Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 33.97 x 26.67 cm Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh © W. Eugene Smith / Magnum Photos

Atmosfere evanescenti e volti inafferrabili, inquietante piacevolezza di un tempo che fu: questa è la sensazione che ho avuto al MAST di Bologna, osservando le fotografie di W. Eugene Smith,
acclamato fotoreporter americano che negli anni Cinquanta ha catturato in ogni suo più piccolo dettaglio la città di Pittsburg, in Pennsylvania.

Dalle vedute silenziose, all’immersione nella città, Smith non cela nulla di quel mondo ormai lontano dalla nostra contemporaneità. Sembra quasi udire le sonorità tipiche dell’epoca, quegli stessi suoni che all’incirca un decennio dopo Luigi Nono registrerà per comporre La FabbricaIlluminata: i rumori metallici provenienti dalle acciaierie, lo sfregare di lamiere simile al canto delle cicale durante un afoso pomeriggio estivo e il fragore cittadino che inonda in un sol colpo l’orecchio dell’ignaro scopritore della città dell’acciaio.

W. Eugene Smith, USA, 1918-1978
Operaio di un’acciaieria che prepara le bobine / Mill Man Loading Coiled Steel, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 22.86 x 34.61 cm Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection. © W. Eugene Smith / Magnum Photos

Eugene Smith giunge a Pittsburgh nel marzo del 1955, per realizzare un servizio sul bicentenario della fondazione della città. Il lavoro sarebbe dovuto durare solo poche settimane, ma si protrasse diversi anni, diventando con il tempo il progetto più ambizioso del fotografo americano.

Come scrive il curatore della mostra, Urs Stahel, «W. Eugene Smith lottava per rappresentare l’assoluto. Ben lungi dall’accontentarsi di documentare il mondo, voleva catturare, afferrare, almeno in alcune immagini, niente di meno che l’essenza stessa della vita umana», e ciò che Smith incontra a Pittsburgh è un’umanità lavoratrice e speranzosa nel futuro, con la voglia di riscattarsi dalla fame e dalla disperazione dettata dalla povertà dei tempi.

W. Eugene Smith, USA, 1918-1978 Bambini che giocano tra Colwell Street e Pride Street, Hill District / Children playing at Colwell and Pride Streets, Hill District, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 34.61 x 23.18 cm Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection © W. Eugene Smith / Magnum Photos

A fotografie di panorami, Smith, alterna volti cosparsi di fuliggine e gesti di grande ritualità e sacralità, singole immagini che come fossero tessere di un mosaico vanno a comporre un tappeto musivo di inestimabile bellezza, un ritratto corale, ricco di sfaccettature e di storie profonde.

All’epoca del servizio Smith ha trentasei anni ed è un acclamato fotoreporter, ma qualcosa inizia a turbarlo emotivamente: forse l’allontanamento da sua moglie Carmen e dai suoi quattro figli, forse la rottura con le riviste con cui da sempre aveva collaborato, più probabilmente l’emersione di un vissuto interiore inquieto che portava con sé da ormai troppo tempo.

Giunto a Pittsburgh, la sua anima ribelle, perfezionista e indagatrice, s’immerge alla scoperta di nuove profondità sociali: osserva e studia la storia della città e i suoi abitanti.

Nel primo mese scatta pochissime immagini, vuole capire cosa lo ha portato lì e cosa si cela nei meandri di questo Tartaro contemporaneo. Vuole cogliere il clima di incertezza e transitorietà che la città vive quotidianamente, non lasciandosi fuggire nulla: dai quartieri di nuova costruzione con villette a schiera, fino alla povertà delle baracche dei sobborghi operai.

W. Eugene Smith, USA, 1918-1978
Edilizia residenziale / Housing & Construction, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 33.34 x 25.40 cm Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection © W. Eugene Smith / Magnum Photos

La mostra W. Eugene Smith: Pittsburgh. Ritratto di una città industriale al MAST di Bologna è un racconto fatto attraverso 170 stampe vintage di inestimabile bellezza sociale e culturale, provenienti dalla ricca collezione del Carnegie Museum of Art di Pittsburgh, che testimoniano l’impresa titanica compiuta dal grande fotoreporter William Eugene Smith, proprio nell’anno in cui ricorre il
centenario della sua nascita e il quarantennale dalla sua scomparsa.

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W. Eugene Smith Pittsburgh Ritratto di una città industriale

QUANDO: fino al 16 settembre 2018
DOVE: MAST. | via Speranza 42, Bologna
INFO: mast.org

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Articolo di Claudia Stritof per FrizziFrizzi (10 settembre 2018)

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Berenice Abbott. Topografie https://www.cultmag.it/2017/02/23/berenice-abbott-topografie/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/02/23/berenice-abbott-topografie/#respond Thu, 23 Feb 2017 20:51:36 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4530 “Innanzitutto definiamo cosa non è una fotografia. Una fotografia non è un dipinto, una poesia, una sinfonia, una danza. Non è solo una bella immagine, non un virtuosismo tecnico e nemmeno una semplice stampa di qualità. È o dovrebbe essere un documento significativo, una pungente dichiarazione, che può essere descritto con un termine molto semplice: selettività. La fotografia non potrà mai crescere fino a quando imiterà le altre arti visive. Deve camminare da sola, deve essere se stessa”.

Una frase famosa, più volte citata quando si parla della fotografa che l’ha pronunciata, Berenice Abbott, la quale non solo con queste poche parole esprime la sua posizione rispetto alla fotografia pittorialista d’inizio Novecento, ma è soprattutto un’esplicita dichiarazione di poetica personale e coerenza concettuale. Uguale solo a se stessa la fotografia, deve essere selettiva e indagatrice, deve cogliere i mutamenti in atto nella società e lo spirito del proprio tempo con il fine di comunicare al pubblico la concretezza e la scientificità del reale. Non poteva quindi che chiamarsi BERENICE ABBOTT. Topografie la prima mostra antologica a lei dedicata in Italia presso il Museo MAN di Nuoro, con la curatela di Anne Morin. 

L’esposizione presenta una selezione di ottantadue stampe originali realizzate dalla Abbott tra la metà degli anni Venti e i primi anni Sessanta, divise in tre sezioni ben strutturate attraverso le quali viene ripercorsa l’intera carriera della fotografa americana. Si parte dalla sezione dei ritratti che indubbiamente caratterizza l’inizio della sua carriera come assistente di Man Ray, che conosce a New York dopo essersi trasferita dall’Ohio per studiare scultura. Insieme decidono di partire alla volta di Parigi e qui sotto consiglio dell’artista dada realizza numerosissimi ritratti dei più importanti esponenti dell’avanguardia artistica e letteraria del tempo. La sua prima mostra personale si svolge alla galleria Le Sacre du Printemps nel 1926, un anno fatidico durante il quale apre anche il proprio laboratorio fotografico che diventa luogo d’incontro per intellettuali e artiste. Sempre a Parigi, la Abbott conosce il famoso fotografo Eugène Atget e subito rimane folgorata dalle sue bellissime immagini di una Parigi che sta scomparendo, fatta di angoli nascosti, mercatini delle pulci e insegne fatte a mano, tanto che sarà lei a fotografarlo in uno dei pochi ritratti pervenuteci dell’artista, così come sarà lei – dopo la morte del fotografo – ad acquistare molti dei suoi negativi promuovendone la conoscenza attraverso pubblicazioni e mostre sia in Europa che negli Stati Uniti.

Sotto l’influenza artistica di Atget la Abbott si dedica a progetti riguardanti gli importanti mutamenti che in quegli anni stanno avvenendo nelle grandi metropoli, e in particolare, con il ritorno a New York inizia il famoso lavoro Changing New York, a cui è anche dedicata la seconda sezione della mostra presso il MAN. Un progetto immenso e un archivio ricco di fotografie attraverso il quale la Abbott ha documentato giornalmente i mutamenti architettonici, topografici e urbanistici che negli anni Trenta hanno interessato la Grande Mela con “fotografie caratterizzate da forti contrasti di luci e ombre e da angolature dinamiche”. L’ultima sezione della mostra è invece dedicata alla fotografia scientifica, che ha caratterizzato la sua carriera dagli anni Quaranta in poi, prima diventando photo-editor della rivista Science Illustrated, poi durante gli anni Cinquanta dedicandosi alla realizzazione di illustrazioni sui principi della luce e della meccanica per il Massachusetts Institute of Technology. La mostra BERENICE ABBOTT. Topografie al MAN di Nuoro – realizzata grazie al contributo della Regione Sardegna e della Fondazione di Sardegna – celebra l’arte e la ricerca di questa straordinaria fotografa che morì il 9 dicembre 1991 lasciando ai posteri un corpus di opere di straordinario valore artistico e scientifico.

BERENICE ABBOTT. Topografie
a cura di Anne Morin
17 Febbraio 2017 – 21 Maggio 2017
Museo MAN, via S. Satta 27- 08100, Nuoro

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Testo di Claudia Stritof pubblicato su Juliet art magazine online (15/02/2017)

Dorothy Whitney, Paris, 1926 © Berenice Abbott_Commerce Graphics_Getty Images. Courtesy of Howard Greenberg Gallery, New York

Nightview, New York, 1932 © Berenice Abbott_Commerce Graphics_Getty Images. Courtesy of Howard Greenberg Gallery, New York

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Gli Americani di Robert Frank https://www.cultmag.it/2017/01/10/gli-americani-di-robert-frank/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/01/10/gli-americani-di-robert-frank/#respond Tue, 10 Jan 2017 09:30:16 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4364 Jack Kerouac nella prefazione al libro Gli Americani di Robert Frank scrive: «Chi non ama queste immagini, non ama la poesia […] Robert Frank, svizzero, discreto, gentile, con quella piccola macchina fotografica che fa spuntare e scattare con una mano, ha saputo tirar fuori dall’America un vero poema della tristezza». Con queste semplici parole Kerouac esalta non solo la singolare tecnica dell’amico fotografo della Beat Generation – il quale coglie furtivamente immagini lungo le strade americane degli anni Cinquanta – ma sottolinea l’enorme valenza psicologica e sociologica che traspare dalle bellissime immagini del fotografo svizzero. Istanti fugaci di una vita che poi così speciale non è, ma che trova la sua vera bellezza e unicità nella semplice quotidianità dell’esistenza stessa.

Robert Frank, Rodeo, Detroit, Michigan, 1955

Il libro con il titolo Les Américains di Robert Frank è stato pubblicato per la prima volta nel 1958 in Francia dall’editore Robert Delpire, mentre l’anno seguente è edito dalla Grove Press negli Stati Uniti; il volume contiene scatti epifanici colti on the road  “quando il sole picchia forte […] e ti arriva la musica di un jukebox o quella di un funerale che passa. È questo che ha catturato Robert Frank nelle formidabili foto scattate durante il lungo viaggio attraverso qualcosa come quarantotto stati”. È il 1955 quando il fotografo si mette in viaggio a bordo di una macchina cigolante e malmessa con la moglie e i figli ed è in questa occasione – grazie a una borsa di studio ricevuta dalla Fondazione Guggenheim – che realizza un resoconto nudo e crudo di un’America contraddittoria colta nello scorrere incessante della vita di periferia: uomini e donne intenti a osservare un rodeo, stazioni di servizio, tram con a bordo i  passeggeri che curiosi osservano il fotografo, insegne di legno, manifesti pubblicitari, strade deserte e polverose, market di periferia, funerali e bande di paese. La serie composta da ottantatré scatti d’immensa intensità emotiva, si discosta da tutti i reportage fotografici precedenti, configurandosi invece come un racconto visivo tagliente e fedele al reale che non a caso è stato d’ispirazione per le successive generazioni di fotografi di reportage. Come ebbe a dire Elliott Erwitt in un’intervista: “Le immagini di Robert Frank potrebbero colpire qualcuno come sciatte – l’estensione dei toni non è giusta e cose del genere – ma sono di gran lunga superiori alle immagini di Ansel Adams per quanto riguarda la qualità, perché la qualità di Ansel Adams, se posso dirlo, è essenzialmente la qualità di una cartolina. Ma la qualità di Robert Frank è una qualità che ha qualcosa a che fare con ciò che egli sta facendo, con quella che è la sua mente”.

Robert Frank, Funerale, St.Helena, South Carolina, 1955

Il libro Gli Americani è diventato una pietra miliare dell’editoria fotografica perché le sue immagini riescono ad afferrare il trascorrere del tempo, nulla è eclatante nelle fotografie di Robert Frank ma tutto è rivelatorio: dai momenti di apatia a quelli di tristezza, da quelli di ilarità a quelli di gioia; non è l’istante decisivo di un qualche accadimento importante ma è la semplicità del qui e ora, del momento vissuto e colto empaticamente dal fotografo. Un concetto ben chiaro nella poetica di Robert Frank che afferma “le fotografie parlano di fotografia, dell’artista, delle sue immagini, di noi. Come tutta la grande arte che racconta la condizione umana, porta in sé l’identità dell’artista. Non sono vedute anonime. Non sono posti e gente anonimi. Sono le parole del poeta, sontuosamente ambigue e perfettamente bilanciate”. Le fotografie de Gli Americani, ancor oggi rimangono una testimonianza viva e un “poema per immagini” dedicato alla vita on the road e al fermento delle strade americane; fino al 19 febbraio l’intera serie sarà esposta alla Galleria Forma Meravigli di Milano, dov’è anche possibile ammirare, in una sala appositamente dedicata, stralci del testo originale e alcune delle edizioni pubblicate dal 1958 in poi, tra cui quella italiana con la copertina illustrata da Saul Steinberg. L’esposizione è accompagnata dall’omonimo libro pubblicato da Contrasto Editore.

Testo di Claudia Stritof pubblicato su Juliet art magazine online, 7 gennaio 2017.

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Gli Americani di Robert Frank
30 novembre 2016 – 19 febbraio 2017
Forma Meravigli
Via Meravigli 5, 20123 Milano
www.formafoto.it?utm_source=rss&utm_medium=rss

Robert Frank, Comizio politico, Chicago, 1956

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Peggy Guggenheim: una donna fuori dagli schemi https://www.cultmag.it/2016/08/16/peggy-guggenheim-una-donna-fuori-dagli-schemi/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/08/16/peggy-guggenheim-una-donna-fuori-dagli-schemi/#respond Tue, 16 Aug 2016 13:52:52 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4095 Sono molte le donne che con coraggio e grande acume hanno avuto la forza di sovvertire le regole imposte dalla società a costo di sembrare spregiudicate. Una di queste è stata Peggy Guggenheim che con la sua “genuina follia” ha lasciato un segno indelebile nella storia contemporanea.

Nota ereditaria americana, Peggy si sposa giovanissima con il pittore Laurence Vail con il quale inizia un lungo percorso di crescita e conoscenza che la porta a cambiare radicalmente vita trasferendosi a Parigi. In questa città la Guggenheim vede emergere in totale libertà la sua stravagante personalità, stringendo intensi rapporti d’amicizia con letterati e artisti bohémien come Constantin Brâncuși, Samuel Beckett e Marcel Duchamp. In particolare è quest’ultimo a indirizzare la passione di Peggy verso l’arte d’inizio Novecento e a catapultarla nell’effervescente mondo artistico parigino. Per la Guggenheim quelli francesi sono anni felici, se pur destinati a durare poco a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale dalla quale è costretta a fuggire a causa delle sue origini ebraiche.

«A Marsiglia […] la moglie di Tanguy, Kay Sage, mi ha mandato un telegramma chiedendomi se ero disposta a pagare il viaggio di cinque artisti importanti […] Era molto complicato e un po’ pericoloso ma alla fine ci riuscì», con queste parole Peggy ricorda come fu effettivamente lei a portare in salvo alcuni artisti europei e le loro opere, infatti suoi erano i capolavori di Duchamp, Leger, Picabia, Dalì e del futuro marito Max Ernst, artisti che il regime nazista aveva definito “degenerati”. Per la prima volta i Surrealisti sbarcano in America, Peggy diventava la madre putativa degli europei facendoli esporre nella sua galleria Art of this Century, e accanto a loro un artista statunitense stava per diventare il protetto della giovane ereditiera: Jackson Pollock. Nasce l’Espressionismo astratto e la Guggenheim diventa la massima sostenitrice del gruppo, attirando su di sé aspre critiche, rafforzate dal recente divorzio con Ernst, tanto che la mostra degli americani viene interpretata come una vera e propria sfida al Surrealismo.

Nel 1948 Peggy viene invitata alla XXIV Biennale di Venezia per esporre al pubblico la sua straordinaria collezione che vede gli uni accanto agli altri artisti del calibro di Brâncuși, Giacometti, Kandinsky, Picasso, Mark Rothko, Arshile Gorky e naturalmente Pollock. Venezia affascina così tanto Peggy che decide di acquistare Palazzo Venier dei Leoni per trasferirsi definitivamente sul Canal Grande, per lei la città lagunare è un sogno a occhi aperti che solo con il trascorrere del tempo si trasforma in una prigione dorata, «il luogo adatto per venire a morire», immerso in una meravigliosa «sensazione di pace che accompagna la morte». Parole vere che denunciano una triste verità d’impotenza di fronte a un mondo che forse non era ancora pronto ad accogliere una donna così innovativa, soprattutto negli anni della ricostruzione post-bellica, quando miseria e disperazione erano il principale problema dell’Italia. Una donna dal grande carisma in questi mesi celebrata con la mostra Peggy Guggenheim in Photographscurata da Živa Kraus presso la Ikona Gallery di Venezia e realizzata in collaborazione con la Collezione Peggy Guggenheim, per il cinquecentesimo anniversario della nascita del Ghetto della città.

Man Ray (1890–1976) Peggy Guggenheim Parigi / Paris, ca. 1924 Stampa alla gelatina d’argento (cartolina) / Gelatin silver print (carte postale) Solomon R. Guggenheim Foundation, Venice Gift, Carla Emil and Rich Silverstein, 2011 © Man Ray Trust

Man Ray, Peggy Guggenheim, Parigi / Paris, ca. 1924. Solomon R. Guggenheim Foundation, Venice. Gift, Carla Emil and Rich Silverstein, 2011 © Man Ray Trust

L’esposizione si compone di 21 scatti realizzati dai più grandi artisti a lei contemporanei e da amici fidati come Man Ray che la raffigura con il bellissimo abito di Paul Poiret nel 1925, Berenice Abbott che invece la coglie giovane e speranzosa a Parigi, Rogi André che la raffigura in un abito futurista di Elsa Schiaparelli proprio nell’appartamento di Key Serge, mentre Peggy è raggiante con indosso l’abito di Mariano Fortuny nella foto di Ida Kar. Ma i fotografi che l’hanno immortalata sono tanti e nell’esaustiva mostra alla Ikona Gallery è possibile ammirare anche le immagini di Gianni Berengo Gardin, George Karger, André Kertész, Nino Migliori e molti altri artisti, che la raffigurano a lavoro, in atto di allestire una mostra o in momenti della sua vita privata. La mostra Peggy Guggenheim in Photographs è uno spaccato vivido e profondo nella vita di colei che forse più di tutti ha contribuito a cambiare la storia dell’arte del Novecento, perché Peggy è stata, sì, una collezionista lungimirante ma prima di tutto è stata una donna determinata con le sue gioie, i suoi dolori e i suoi amori.

Articolo di Claudia Stritof per Juliet art magazine (luglio 2016)

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Peggy Guggenheim in Photographs
Ikona Gallery, Venezia
10 giugno – 27 novembre 2016
www.ikonavenezia.com?utm_source=rss&utm_medium=rss
www.guggenheim-venice.it?utm_source=rss&utm_medium=rss

Hermann Landshoff (1905–1986) Peggy Guggenheim e un gruppo di artisti in esilio / Peggy Guggenheim with a Group of Artists in Exile New York, 1942

Hermann Landshoff (1905–1986)
Peggy Guggenheim e un gruppo di artisti in esilio / Peggy Guggenheim with a Group of Artists in Exile
New York, 1942

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Omaggio a Gae Aulenti https://www.cultmag.it/2016/08/16/omaggio-a-gae-aulenti/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/08/16/omaggio-a-gae-aulenti/#comments Tue, 16 Aug 2016 13:25:25 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4088 S’intitola Omaggio a Gae Aulenti la mostra nata dalla collaborazione tra la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli di Torino e l’Archivio Aulenti di Milano, gestito dalla nipote e curatrice della mostra Nina Artioli. Un’esposizione che non vuole essere un resoconto freddo e distaccato sulla lunga carriera della Aulenti ma, come dice il titolo stesso, vuole celebrare una donna eclettica e indipendente.

La Aulenti studia al Politecnico di Milano, dove si laurea nel 1953, ed è in questa città che inizia la carriera come architetto dedicandosi con passione e caparbietà alla professione, il che le permette di affermarsi quasi subito sulla scena internazionale come progettista di nota fama, tra l’altro in un periodo in cui era molto difficile per le donne accedere al mondo del lavoro. La Aulenti, consapevole del proprio valore e delle proprie capacità, non si è mai fermata davanti agli ostacoli ma anzi ha sempre accolto positivamente le sfide che le venivano proposte, sperimentando brillantemente la contaminazione tra diverse arti: scenografia teatrale, allestimento, urbanistica, interior e industrial design.

Archivio Gae Aulenti, Milano – Foto di Santi Caleca

Archivio Gae Aulenti, Milano – Foto di Santi Caleca

La mostra Omaggio a Gae Aulenti non è solo una ricognizione dei progetti più famosi da lei realizzati nel corso degli anni ma una biografia visiva di una «delle personalità di maggior rilievo della cultura architettonica italiana del XX secolo», un percorso che si configura come un viaggio intimo, che inizia proprio dalla sua casa/studio di Milano, progettata nel 1974, e oggi sede dell’Archivio. Questo spazio per Gae Aulenti non era solo uno studio ma un rifugio dove ha condiviso gioie, idee e pensieri con i suoi amici e familiari, un grande spazio ove «c’erano tutti i suoi libri sistemati in lunghe librerie a suddivisione delle zone della casa, le lampade e i prototipi di molti dei suoi progetti di design, le opere di amici con i quali aveva collaborato o degli artisti per i quali aveva allestito mostre e che con lei avevano instaurato un rapporto speciale […] Una vera e propria stratificazione delle tracce del suo ricco percorso culturale, personale e professionale».

Omaggio a Gae Aulenti, Pinacoteca Agnelli, foto Margherita Borsano

Omaggio a Gae Aulenti, Pinacoteca Agnelli, foto Margherita Borsano

Le opere in mostra si susseguono come note su uno spartito, ben cadenzate e scandite secondo nuclei tematici e momenti salienti: dalla sala del design – in cui è esposta la famosa lampada Pipistrello disegnata nel 1965 – si passa a quella dedicata agli allestimenti che l’architetto ha curato sia per abitazioni private, sia per importanti mostre internazionali. Grande importanza è data anche alle scenografie teatrali e alle incredibili ristrutturazione museali come quella di Palazzo Grassi a Venezia, del Musée D’Orsay a Parigi e del Musée National d’Art Moderne al Centre Pompidou. Infine, non poteva mancare la celebrazione dei progetti architettonici come la realizzazione dell’Aeroporto di Perugia, dell’Asian Art Museum di San Francisco e del Museo Nazionale d’Arte Catalana a Barcellona.

Musée d'Orsay. Foto di Mario Carrieri

Musée d’Orsay. Foto di Mario Carrieri

Aulenti era una donna spinta da immensa curiosità e grande rispetto verso le altre culture, peculiarità che si nota fin dai suoi primi progetti internazionali, nei quali ha sempre rispettato il contesto di riferimento che naturalmente influenzava di volta in volta il suo stile architettonico. Più volte ha affermato come prima di progettare si dovesse «studiare la storia, la letteratura, la geografia, persino la poesia e la filosofia», con il fine di costruire architetture che eterne, e senza rischiare che queste diventino solo «un cumulo di macerie». Gae Aulenti le macerie le aveva viste e vissute in prima persona durante gli anni della ricostruzione post-bellica, un periodo cruciale per la definizione del tessuto urbanistico italiano che ha portato in molti casi a trasformare antichi luoghi ricchi di storia in borgate senza un’anima, un insegnamento importante per il suo essere architetto che ha reso il connubio tra cultura e arte un presupposto essenziale del suo lavoro.

La mostra Omaggio a Gae Aulenti è un racconto di vita intimo e privato, una mostra fortemente voluta non solo per celebrare il genio di un grande architetto, scomparso ormai quattro anni fa, ma per ricordare una donna che è stata madre, nonna, amica, confidente, lavoratrice instancabile, studiosa appassionata e curiosa viaggiatrice.

Articolo di Claudia Stritof pubblicato su Juliet art magazine (8 agosto 2016).

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Omaggio a Gae Aulenti
16 aprile – 28 agosto 2016
Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli
Via Nizza, 230/103 – Torino
www.pinacoteca-agnelli.it?utm_source=rss&utm_medium=rss

Gae Aulenti (1967), foto di Ugo Mulas

Gae Aulenti (1967), foto di Ugo Mulas

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Fernanda Pivano e Fabrizio De André. Ricordi tanti e nemmeno un rimpianto. https://www.cultmag.it/2016/05/23/fernanda-pivano-e-fabrizio-de-andre-ricordi-tanti-e-nemmeno-un-rimpianto/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/05/23/fernanda-pivano-e-fabrizio-de-andre-ricordi-tanti-e-nemmeno-un-rimpianto/#respond Mon, 23 May 2016 19:26:32 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3888 A Pavia presso il Salone Teresiano della Biblioteca Universitaria, la mostra Fernanda Pivano e Fabrizio De André. Ricordi tanti e nemmeno un rimpiantorende omaggio alla grande amicizia fra la scrittrice Nanda e il cantautore Faber, e al loro duplice legame con  il capolavoro della letteratura americana l’Antologia di Spoon River, dello scrittore Edgar Lee Masters, che proprio quest’anno compie cento anni.

Guido Harari, Fernanda Pivano e Fabrizio De André. ©Guido Harari

Guido Harari, Fernanda Pivano e Fabrizio De André. ©Guido Harari

C’era Frank Drummer, il matto del villaggio, Selah Lively, il giudice basso di statura, Wendell P. Bloyd, il blasfemo che accusò pubblicamente Dio di menzogna, Francis Turner, morto per amore, Trainor, il «miscelatore di sostanze chimiche» e Il suonatore Jones. Questi sono solo alcuni degli abitanti della Spoon River. Edgar Lee Masters per la composizione dei suoi epitaffi prese ispirazione dall’Elegia scritta in un cimitero campestre dell’inglese Thomas Gray e dagli epigrammi greci dell’Antologia Palatina, dando vita dal 1914 a 244 versi in forma di epigrafe, pubblicati sulla rivista Mirror con lo pseudonimo di Webster Ford prima, e dal novembre 1915 con il suo vero nome. L’Antologia di Spoon River è una raccolta di poesie d’inestimabile bellezza, che dalla sua pubblicazione non ha mai smesso di affascinare, grazie al linguaggio scarno che rivolge l’attenzione alla quotidianità del vivere, «brucianti confessioni di uomini e donne che attraverso la memoria riesumano la dannazione, il patetico o la miseria della loro vita». Personaggi meravigliosamente caratterizzati da Edgar Lee Masters, che naturalmente non potevano non affascinare la Pivano e De Andrè, l’una traducendo le poesie e l’altro prendendone ispirazione per l’album Non al denaro non all’amore né al cielo, del 1971

La mostra presso il Salone Teresiano è un racconto di fortunati incontri artistici: il primo quello di Fernanda Pivano, ancora allieva del Liceo classico D’Azeglio di Torino, col suo insegnante Cesare Pavese, il quale alla domanda su quali fossero le differenze tra la letteratura inglese e quella americana consegnava alla giovane l’Antologia di Spoon River. La Pivano, affascinata da quelle poesie, così amare e ironiche al tempo stesso, iniziò a tradurle, senza mostrarle a nessuno per molti anni, fino a che Pavese le lesse e decise di proporle alla casa editrice Einaudi, che le pubblicò nel 1943. In una delle lettere conservate presso l’Archivio storico della Fondazione Corriere della Sera, che custodisce le carte di Fernanda Pivano, Pavese scriveva: «l’inverosimile è avvenuto», perché sotto il regime fascista, la letteratura americana era fortemente osteggiata, ma per un mero, e fortunato errore, l’opera veniva pubblicata e Nanda, purtroppo, arrestata perché quel libro «parlava della pace, contro la guerra, contro il capitalismo, contro in generale tutta la carica del convenzionalismo. Era tutto quello che il governo non ci permetteva di pensare».

La seconda storia riguarda Fabrizio De André, che intervistato nel 1971 da Nanda, diceva: «avrò avuto diciott’anni quando ho letto Spoon River. Mi era piaciuto, forse perché in quei personaggi trovavo qualcosa di me. Nel disco si parla di vizi e virtù: è chiaro che la virtù mi interessa di meno, perché non va migliorata. Invece il vizio lo si può migliorare: solo così un discorso può essere produttivo».

Dell’album Non al denaro non all’amore né al cielo purtroppo rimane solo un frammento manoscritto de Il suonatore Jones, esposto in mostra, insieme ad autografi di altre canzoni in cui il cantautore ha ritratto: Il Pescatore, Marinella, Bocca di Rosa e Il Gorilla, che accompagnano idealmente il visitatore tra documenti, scritti e fotografie. Oltre a questi preziosi documenti, è possibile vedere la prima edizione dell’Antologia, grazie al prestito della Biblioteca Civica Bonetta di Pavia, fotografie che ritraggono la Pivano con celebri letterati americani, come Allen Ginsberg e Charles Bukowski, commovente è la copertina del disco con la dedica di Faber ai genitori, le foto in sala incisione pubblicate nei libri di Guido Harari e la fotografia da lui scattata la quale ritrae Faber e Nanda in un tenero abbraccio. Inoltre spartiti originali, dischi d’epoca, rassegne stampa e scatti di diversi artisti che ispirandosi a questi capolavori hanno dato vita a interessanti serie fotografiche come Spoon River a Central Park di Anna Venturini.

Articolo di Claudia Stritof pubblicato su Juliet art magazine (2 maggio 2015)

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Fernanda Pivano e Fabrizio De André.
Ricordi tanti e nemmeno un rimpianto.
Biblioteca Universitaria di Pavia, Strada Nuova, 65
10 marzo – 25 maggio 2016
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La guerra di Piero

La guerra di Piero

 

]]> https://www.cultmag.it/2016/05/23/fernanda-pivano-e-fabrizio-de-andre-ricordi-tanti-e-nemmeno-un-rimpianto/feed/ 0 3888 Secret Japan https://www.cultmag.it/2016/05/11/secret-japan/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/05/11/secret-japan/#respond Wed, 11 May 2016 19:22:07 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3878 In occasione del 150° anniversario della firma del Trattato di Amicizia e di Commercio tra Italia e Giappone (1866) – il quale diede avvio alle relazioni diplomatiche tra i due paesi – al Palazzo del Governatore di Parma, la mostra Giappone Segreto. Capolavori della fotografia dell’800, curata da Francesco Paolo Campione e Marco Fagioli, rende omaggio alle tradizioni e ai costumi del Sol Levante.

Ad accompagnare idealmente il visitatore sono le memorie di Enrico II di Borbone – fratello dell’ultimo regnante del Ducato di Parma – e Adelgonda di Braganza, che tra il 1887 e il 1889, intrapresero un lungo viaggio in Asia, e in particolare in Giappone, terra da cui il conte riportò un importante patrimonio artistico, che dal 1925 ha permesso la fondazione del Museo d’Arte Orientale di Venezia.

Ogawa Kazumasa (attr.), Artigiana in posa a lato di una parete di zoccoli tradizionali, 1890 circa

Ogawa Kazumasa (attr.), Artigiana in posa a lato di una parete di zoccoli tradizionali, 1890 circa

La mostra si configura come un intenso percorso nella storia e nell’arte di un paese antico: centoquaranta fotografie originali di importanti maestri giapponesi ed europei realizzate durante il periodo Meiji (1868-1912), anni in cui il Giappone fu investito da un profondo cambiamento culturale e sociale, in seguito all’apertura commerciale del paese ai mercati esteri.

Con l’Imperatore Mutsuhito, il Giappone passò da una politica di tipo feudale a una modernizzazione forzata, diventando meta prediletta di viaggiatori che volevano documentare la quotidianità e «i costumi di un mondo che appariva all’Occidente come la quintessenza di un Oriente senza tempo: una terra di geishe e samurai, di pagode e misteriosi costumi, per certi versi barbaro, ma per molti altri educato ed elegante».

Per rispondere all’abbondante richiesta, da parte dei globetrotter, di souvenir e immagini-ricordo del mondo nipponico, nacque un’arte unica, frutto del felice incontro fra la tecnica fotografica occidentale e la maestria dei pittori locali, capaci di applicare il colore su minuscole superfici, dando vita ad una delle più importanti scuole di fotografia del tempo: la Scuola di Yokohama, «un unicum, sia per l’omogeneità e la riconoscibilità del suo linguaggio, sia per l’originalità e per il valore dei principi estetici e stilistici che seppe esprimere».

Kusakabe Kimbei, Tre ragazze, 1880-1890

Kusakabe Kimbei, Tre ragazze, 1880-1890

Tra i maggiori interpreti di questo stile: Felice Beato, Raimund von Stillfried-Ratenicz, Adolfo Farsari, Ueno Hikoma, Kusakabe Kimbei, Tamamura Kōzaburō e Ogawa Kazumasa, che utilizzarono non solo la stampa all’albumina, ma anche supporti diversi associati a tecniche quali la fotolitografia, la litografia a colori, la pittura a olio fotografica, la collotipia, e infine il vetro per realizzare i gentō-ban, lastrine colorate a mano che venivano proiettate nella lanterna magica.

La prima sezione dell’esposizione è dedicata al viaggio dei globe-trotter lungo le antiche strade del Giappone, dominate da magnifici esempi architettonici, villaggi di modeste dimensioni, attraversati da sinuosi corsi d’acqua e ponti in legno. La seconda è invece incentrata sulla natura e sugli ameni paesaggi che contraddistinguono il territorio, per poi proseguire con la descrizione delle attività quotidiane e del commercio. E ancora, immagini dal mondo dell’arte, della danza e del teatro kabuki, a cui segue un interessante approfondimento sulla spiritualità degli abitanti e dei riti religiosi. Per finire le ultime due sezioni sono dedicate, l’una agli eroi dell’ultraesotico: samurai, tatuati, kendoka e lottatori di sumo, l’altra alle donne, alla loro immagine e all’idealizzazione della bellezza asiatica, che in questi anni diventò un vero e proprio stereotipo per l’Occidente.

Kusakabe Kimbei, Portantina (kago), ante 1893

Kusakabe Kimbei, Portantina (kago), ante 1893

Giappone Segreto. Capolavori della fotografia dell’800 è uno scrigno che raccoglie otto album-souvenir con le copertine in lacca  giapponese, carte de visite, stampe xilografiche policrome dei maestri dell’ukiyo-e, tra cui quelle di Hokusai, Hirochige e Utamaro, oltre a bellissimi esempi di arte decorativa, come un’armatura samurai del XVIII secolo, le maschere del teatro classico nō e alcuni kimono.

La mostra prodotta da Gamm Giunti, in collaborazione con il Museo delle Culture di Lugano e la  Fondazione Ada Ceschin e Rosanna Pilone di Zurigo, con il patrocinio del Comune di Parma, vuole rendere omaggio al recente accordo tra Parma e la Prefettura di Kagawa, prefigurandosi come un immersione totale nella cultura nipponica.

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Testo a cura di Claudia Stritof, pubblicato sulla rivista Juliet art magazine (19 aprile 2016).

Giappone Segreto. Capolavori della fotografia dell’800
Parma, Palazzo del Governatore, piazza Giuseppe Garibaldi, 2
5 marzo – 5 giugno 2016
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09_Farsari_EnricoII

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Maria Callas. The Exhibition https://www.cultmag.it/2016/05/11/maria-callas-the-exhibition/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/05/11/maria-callas-the-exhibition/#comments Wed, 11 May 2016 19:11:15 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3870 Una mostra curata da Massimiliano Capella alla Fondazione AMO, Arena Museo Opera di Verona, celebra il mito intramontabile della Divina: Maria Callas. The Exhibition si sviluppa come un intenso percorso nell’arte e nelle passioni della donna che ha cambiato la storia dell’opera.

Poco prima della sua morte, Maria Callas trascriveva in una lettera alcuni versi tratti da La Gioconda di Amilcare Ponchielli, prima opera da lei interpretata all’Arena di Verona nel 1947 sotto la direzione del maestro Tullio Serafin: «in quei fieri momenti tu sol mi resti. E al cor mi tenti l’ultima voce del mio destino, ultima croce del mio cammino», da questa frase mancava solo l’incipit, la parola “suicidio”. La sua scomparsa, come la sua vita rimangono avvolte da un alone di mistero, ma probabilmente quello di Maria Callas era un destino già scritto; una donna fatalista, traghettata nel viaggio della vita dalle proprie sconfinate passioni e dal proprio cuore.

Jerry Tiffany, Ritratto fotografico di Maria Callas, New York, 1958. Collezione Ilario Tamassia.

Jerry Tiffany, Ritratto fotografico di Maria Callas, New York, 1958. Collezione Ilario Tamassia.

Fantastica nelle sue interpretazioni drammatiche, riuscì a trasformare i propri difetti in virtù, fece della sua voce graffiante e ruvida un punto di forza e lo stesso avvenne per il suo aspetto fisico tanto denigrato dalla stampa, diventato infine un’icona di stile, dai modi aggraziati e dall’aspetto sempre curato a cui corrispose un’importante svolta artistica, perché ora, a fare da contrappunto alla sua indimenticabile voce, c’e anche un «grande lavoro interpretativo che veicola tramite il proprio corpo». Una scoperta di se stessa che l’ha portata a incarnare con profonda empatia personaggi ricchi di pathos, che trasmetteva all’animo dello spettatore senza nessuna apparente difficoltà, non c’era ruolo che la Callas non potesse interpretare grazie alle sue immense doti di cantante e attrice, ma ciò che affascinava era soprattutto la sua aurea di donna, che nel profondo del proprio cuore celava un animo da bambina dagli occhi innocenti e alla continua ricerca di un amore eterno.

Mario Tursi, Maria Callas come Medea con il costume di scena disegnato da Piero Tosi per il film di Pasolini, 1968. ©Mario Tursi

Mario Tursi, Maria Callas come Medea con il costume di scena disegnato da Piero Tosi per il film di Pasolini, 1968. ©Mario Tursi

La mostra nella città scaligera ripercorre la vita travolgente della Divina: dalla nascita in America al suo ritorno in Grecia con la madre e la sorella, dove studia al Conservatorio grazie alla maestra Elvira de Hidalgo, per poi partire verso il Nuovo Continente e tentare la scalata artistica. A New York il successo non è immediato ma è qui che ottiene un’audizione con l’allora direttore della stagione operistica all’Arena di Verona, Giovanni Zenatello, il quale la scrittura a soli 24 anni. Nel 1947 Maria Callas debutta a Verona, città in cui non corona solo il sogno di diventare cantante ma anche quello di avere una famiglia, sposandosi di lì a poco con l’industriale veronese e suo pigmalione Giovanni Battista Meneghini. Arrivata all’apice del successo la Callas inizia inevitabilmente una parabola discendente: a questo periodo risalgono i primi contrasti con la Scala di Milano, l’amore con Meneghini finisce bruscamente e i tabloid scandalistici si scagliano su di lei mettendone in discussione l’arte e la personalità. Nel frattempo stringe rapporti con l’armatore greco Aristotele Onassis, un amore che nasce e si spegne lentamente in nove anni e dal quale Maria Callas non si riprenderà mai. Tradita e amareggiata la soprano si allontana dalle scene ma non prima di aver interpreto nuovamente la Medea,sotto la regia di Pier Paolo Pasolini, film galeotto dal quale nascerà un profondo sodalizio intellettuale e una sincera amicizia.

Tornerà sulle scene, ma la tragedia ormai faceva parte della sua vita e ulteriormente dilaniata dalla morte di Onassis prima e di Pasolini e Visconti poi, decide di rifugiarsi nella solitudine del suo appartamento parigino fino al sopraggiungere di quel fatidico 16 settembre 1977, quando muore all’età di 53 anni e le sue ceneri vengono disperse nel mar Egeo, quel mare che molte volte l’aveva cullata e accompagnata nel lungo viaggio della vita. In mostra fotografie, costumi e gioielli di scena, cimeli personali, documenti storici e giornali d’epoca che documentano la straordinaria vita di Maria Callas, che come scrisse l’amico Franco Zeffirelli, fu colei che con la sua voce «ci affascinò come un sortilegio, un prodigio che non si poteva definire in alcun modo, la si poteva soltanto ascoltare come prigionieri di un incantesimo, di un turbamento mai esplorato prima». La mostra è realizzata con il patrocinio del Comune di Verona, promossa dalla Fondazione Arena di Verona e prodotta e organizzata da Arthemisia Group.

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Testo a cura di Claudia Stritof, pubblicato sulla rivista Juliet art magazine (25 aprile 2016).

Maria Callas. The Exhibition
AMO Arena Museo Opera, Palazzo Forti, Verona
12 marzo – 18 settembre 2016
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Maria Callas in camerino mentre si prepara ad interpretare Ifigenia di Gluck, Milano 1957. In basso si vede la Sacra famiglia di Cignaroli.

Maria Callas in camerino mentre si prepara ad interpretare Ifigenia di Gluck, Milano 1957. In basso si vede la Sacra famiglia di Cignaroli.

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