Icon – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Fri, 12 Mar 2021 18:20:23 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Tatuaggi e fotografia: ritratti di una passione. https://www.cultmag.it/2021/03/06/tatuaggi-e-fotografia-ritratti-di-una-passione/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/03/06/tatuaggi-e-fotografia-ritratti-di-una-passione/#respond Sat, 06 Mar 2021 16:13:00 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1945 Morto il 30 giugno 2010, Herbert Hoffmann è stato uno dei grandi nomi del tatuaggio e non ha certo bisogno di presentazioni; meno conosciuta è invece la sua attività di fotografo, un lavoro svolto con costanza fino alla fine dei suoi giorni.

Al 2002 risale il suo BilderbuchMenschen – Tätowierte Passionen 1878-1952 (Living Picture Books – Portrait of a Tattooing Passion 1878-1952), libro fotografico edito nel 2002, che contiene più di quattrocento immagini in bianco e nero scattate in oltre trent’anni di onorata carriera.

Sfogliando le pagine di questo meraviglioso libro fotografico si percepisce subito lo spirito indagatore di Hoffmann e la sua bravura come tatuatore, che gli hanno permesso nel tempo di essere riconosciuto come grande artista e, soprattutto, di far accettare un’arte che prima di lui si riteneva disonorevole, sopratutto nella Germania nazionalsocialista, contesto culturale e storico in cui il giovane Hoffmann cresce.

Herbert Hoffmann, Emma und Oskar Manischewski, 1958, Vintage Printe, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Negli scatti da lui realizzati si nota come l’attenzione non vada al dettaglio del tatuaggio, come accade in molte riviste specializzate, ma alle persone, ai loro atteggiamenti e ai loro rapporti.

Ritratti attraverso cui Hoffmann, involontariamente, compie un attento studio antropologico della personalità degli uomini e delle donne che da lui si recavano per farsi tatuare; denotando come l’importante non sia il tatuaggio in sé, ma le storie narrate che si celano dietro di esso e che portano il proprio corpo a diventare una tela dipinta su cui sono impressi i segni d’esistenza.

Herbert Hoffmann, Ulla Hansen, 1968, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Herbert Hoffmann nasce a Stettino nel 1919, città della Pomerania anteriore tedesca. La sua passione verso i tatuaggi nasce molto presto, quando da bambino guardava con meraviglia e stupore i corpi tatuati delle persone che incontrava per strada: solitamente proletari e uomini del popolo, che con fierezza mostravano i propri tatuaggi, nonostante nella Germania nazista fosse proibito tatuarsi, perché simbolo di pericolosità e di marginalità sociale.

Fino al 1939 il giovane Hoffmann lavora come fornaio, attività che sarà costretto a cessare perché viene chiamato alle armi e costretto ad arruolarsi. Dopo essere stato fatto prigioniero dall’Armata Rossa nel ’44, una volta liberato, va ad Amburgo dove decide di farsi tatuare una croce, un’ancora e un cuore, simboli delle virtù teologali, al cui interno è anche un cartiglio con le parole fede, speranza e carità.

È il 1949: per il giovane trentenne il tatuaggio sulla mano destra sarà solo il primo di una lunghissima serie.

Herbert Hoffmann, Wilhelm Wedekämper, 1960, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Apprende il mestiere da autodidatta e sperimenta le prime opere su uomini anziani che si affidano alle sue mani ancora inesperte, ma piene di talento.

Nel 1955 ottiene la licenza di tatuatore e apre il suo studio ad Amburgo e, sempre in questo stesso periodo, Hoffmann inizia a scattare con la Rolleiflex.

I tatuaggi oggi sono diventati la normalità: molti i testi dedicati alla sua storia e ancor di più le mostre a loro dedicate: da quella dedicata al tatuatore Marco Manzo, che ha portato i corpi delle sue donne al Maxxi di Roma, oppure Tattoo – Storie sulla pelle al museo, al museo M9 di Mestre, fino a giungere alla più recente Sergei Vasiliev – Russian Criminal Tattoo alla ONO arte contemporanea di Bologna.

C’è stato un un tempo in cui questi segni incisi sulla pelle non erano ben visti dalla società, ma con estrema lucidità e grazie alla sua Rolleiflex, Hoffmann è riuscito a cogliere un vivido ritratto di un mondo rimasto ai margini per fin troppo tempo, narrando così un mondo in continua evoluzione.

Frau Wulkow, ca. 1967,29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Come Herbert Hoffmann ha detto: «chi è estraneo al tatuaggio spesso vede solo corpi deturpati o raramente abbelliti da tatuaggi incancellabili che evocano sofferenze fisiche e rischi di infezioni […] ma per chi si tatua non è così. Nessuno si tatua per diventare più brutto, nè per masochismo! Chiunque si tatua, lo fa per dare a se stesso qualcosa di più: per essere più bello, per sentirsi e apparire più forte, più sexy, per dare sfogo a un dolore, un lutto, una gioia, un amore, per scongiurare una paura, un pericolo o per gioco […] Ci si tatua per esprimere i sentimenti più seri e profondi e per quelli più superficiali e frivoli e… perchè no?, per rivendicare il proprio diritto al gioco. Non ho mai incontrato qualcuno che si tatuasse per farsi del male! Spesso i tatuaggi che vediamo per strada non sono proprio bellissimi, questo però dipende dalla disinformazione e dal cattivo gusto dilagante, non da un intento autolesionista. Oggi sono brutti i vestiti, la moda, le automobili, le case, la pittura… e sono brutti molti tatuaggi… solo un’informazione corretta e libera da pregiudizi e luoghi comuni può insegnare a distinguere quelli belli da quelli brutti e aiutare a capire che un bel tatuaggio è un tatuaggio che ti rende più bello…».

Negli uomini del popolo, Hoffmann trova la sua personale fonte di ispirazione, decidendo di farsi guidare da loro verso universi sconosciuti e microcosmi unici, ma tutti talmente importanti da dover essere eternizzati in uno scatto… e questo lo farà fino al 2010, giunto all’età di 90 anni.

Testo  ©Claudia Stritof. All rights reserved
Photo Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann
Articolo del 15/06/2015 aggiornato in data 6 marzo 2021.
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Il padre dell’istantanea e dell’impossibile. https://www.cultmag.it/2020/01/08/il-padre-dellistantanea-e-dellimpossibile/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/01/08/il-padre-dellistantanea-e-dellimpossibile/#respond Wed, 08 Jan 2020 08:15:00 +0000 http://claudiastritof.wordpress.com/?p=99  “Non intraprendere un progetto a meno che non sia manifestamente importante e quasi impossibile”.

 – Edwin Land

Edwin Land (1909-1991), secondo per numero di brevetti solo a Thomas Edison, è stato definito l’ultimo dei grandi geni, inventore e fisico americano, ha rivoluzionato il concetto di fotografia con la creazione della Polaroid.

Nel 1926 Edwin Land lascia l’Università di Harvard e trascorre molte ore nella biblioteca pubblica di new York, sfogliando libri di fisica e ottica. Land è curioso, vorace di conoscenza e trae grande ispirazione da queste letture, in particolare dal testo di ottica di Robert W. Wood, la cui prima edizione uscì nel 1905, mentre la seconda nel 1915.

L’idea venne a Land quando rimase abbagliato dai fari di una macchina mentre passeggiava lungo un viale newyorchese, pensando che per evitare incidenti, dovesse creare un polarizzatore sottile ed economico. Dopo diversi esperimenti, mette a punto un foglio polarizzante, chiamato Polaroid, costituito da una pellicola di plastica in cui erano incorporati numerosi cristalli di erapatite.

Pochi anni dopo Land fondò la Polaroid Corporation, società creata insieme al professore di Harvard, George Wheelwrigh, che attirò l’attenzione di molte industrie come General Motors, General Electric ed Eastman Kodak, che nel 1934 divenne il primo cliente di Land.

Aprile 1947, Edwin H. Land dimostra il funzionamento della Polaroid.
Image ©Baker Library/Harvard Business School

La nascita della macchina fotografica di plastica è legata a un aneddoto personale, infatti, dopo un intero giorno trascorso a fare fotografie con la famiglia in vacanza a Santa Fe, Jennifer, la più piccola delle figlie di Land, ingenuamente chiese al padre come mai non fosse possibile vedere subito le immagini scattate. Ai tempi d’oggi la domanda apparirebbe assolutamente banale e scontata, ma all’epoca fu una domanda geniale che scatenò una vera e propria rivoluzione tecnologica.

Land in quel momento ebbe l’illuminazione e nel giro di un’ora chiamò il proprio avvocato per avviare le pratiche per brevettare una macchina in grado di sviluppare una fotografia positiva in sessanta secondi, grazie a pellicole dotate di un rivestimento fotosensibile a cui venivano aggiunte sostanze necessarie per lo sviluppo.

Leggenda o realtà, si racconta che durante una notte tempestosa, mentre Land si trovava all’Hotel Pennsylvania di New York scattò la sua prima istantanea.

Aveva 37 anni e prima di inventare la Polaroid, aveva già messo a punto altre interessanti scoperte: le lenti polarizzate, i filtri ottici, i visori notturni e nel 1938 annuncia anche la creazione del Vectograph, un sistema 3-D utilizzato in campo militare.

Land è stato un uomo estremamente creativo e innovativo, non solo nelle sue invenzioni, ma anche nel modo di commercializzarle, come avvenne quando invitò i dirigenti della Società Optical nella sala di un albergo, dove il bagliore del sole riflesso sul davanzale colpiva a sua volta un acquario in cui i pesci rossi erano al momento invisibili, Land consegnò loro un foglio polarizzato e guardandoci attraverso essi furono in grado di focalizzare i pesci. Le lenti polarizzate vennero subito acquistate per creare i primi occhiali con lenti polarizzate.

La prima Polaroid Land Camera fu venduta il 26 novembre 1948 al Jordan Marsh, un grande magazzino di Boston, che qualche ora dopo registrò il boom di vendite.

Il lavoro di Land negli anni continuò incessantemente: la Polaroid non solo venne amata da fotoamatori ma anche da grandi artisti che la adottarono come loro mezzo espressivo, tanto che fu lo stesso Land a raccogliere e acquistare molte fotografie di artisti famosi, talune volte scambiandole o barattandole macchine fotografiche.

Giunse a raccogliere 25.000 immagini tra cui quelle di Andy Warhol, Robert Frank e Ansel Adams, quest’ultimo anche consulente della ditta.

Il ’72 è invece l’anno di nascita della Polaroid SX-70, la prima macchina istantanea a colori che utilizzava un rullino di formato quadrato.

Test photograph of Meroë Marston Morse scatta una fotografia nei laboratori Polarois, 1940 ca. ©Polaroid Corporation Records. BAKER LIBRARY HISTORICAL COLLECTIONS, Harvard Business School.

Land fu una persona molto stravagante, sempre innovativa e mai ordinaria. Ottimista di natura, era dotato di grande sensibilità artistica e ingegno. Era alto meno di un metro e ottanta e si contraddistingueva per il ciuffo nero e gli occhi intensi. Sempre sopra le righe, come era solito ripetere: «se vale la pena di fare qualcosa, allora è meglio farla in eccesso».

Non è un caso che un grande visionario come Steve Jobs abbia dichiarato la sua ispirazione alla figura di Edwin Land. Abbandonando l’università, avviò da solo la sua fortuna aprendo due industrie e collaborato con politici e governatori. Edwin Land è un esempio straordinario di uomo che ha cambiato il suo percorso personale e dato avvio a una nuova grande epoca.

La favola creata da questo grande uomo stava per terminare nel febbraio 2008, quando giunge il triste annuncio che terminerà la produzione delle pellicole istantanee, dopo che nel 2007 era già cessata la produzione delle fotocamere.

Nei primi mesi del 2010 qualcosa è cambiato: il marchio è stato rilevato da un gruppo di dodici tecnici, ingegneri e chimici che hanno ricominciato la produzione delle pellicole, sono stati riaperti gli stabilimenti a Enschede, al confine tra l’Olanda e la Germania.

Il progetto è rinato con il nome di Impossible Project, riunendo dieci dei migliori ex dipendenti Polaroid che hanno condiviso la passione e la fede “in un sogno impossibile”, riuscendo a creare una nuova pellicola con lo scopo di portar in salvo milioni di Poaroid ancora funzionanti ma non più utilizzate.

APPROFONDIMENTI UTILI:

The Story of Edwin Land, The Harvard Gazette.

Archive Edwin Land, BAKER LIBRARY HISTORICAL COLLECTIONS.

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Diane Arbus: vita e morte di un genio della fotografia https://www.cultmag.it/2019/12/22/diane-arbus-vita-e-morte-di-un-genio-della-fotografia/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/12/22/diane-arbus-vita-e-morte-di-un-genio-della-fotografia/#respond Sun, 22 Dec 2019 17:08:00 +0000 http://claudiastritof.wordpress.com/?p=155 «Penso che ci sia molta gente orribile nel mondo, e diventerà terribilmente difficile fotografare tutti, così se fotografo alcuni tipi generali di esseri umani ognuno li riconoscerà. Fu la mia insegnante, Lisette Model, che mi rese chiaro definitivamente che più specifici si è, più generali si sarà».

—  Diane Arbus

Da un po’ di tempo ormai mi sto dedicando alla lettura delle biografie di coloro che ritengo essere personaggi affascinanti, vuoi per la loro arte, vuoi per la loro vita, ma credo che si possano trarre molti insegnamenti utili comprendendo la forza e il coraggio di chi ha vissuto prima di noi.

Una biografia che consiglio di leggere è quella di  Diane Arbus, un’eccelsa fotografa, che fu d’ispirazione a numerosissimi artisti, uno tra tutti, Stanley Kubrick; infatti il regista si ispirò proprio a una sua fotografia per dar vita alle due famose gemelle di Shining.

La biografia scritta da Patricia Bosworth è veramente una lettura molto interessante se si vuole conoscere la vita della fotografa, anche perché lavoro completo di interviste e documenti originali consultati in prima persona dalla biografa, che ha deciso di arricchirla con dialoghi di amici, mentori e conoscenti di Diane.

© The Estate of Diane Arbus

Richard Avedon scrisse: «tutto quello che le accadeva sembrava misterioso, decisivo e inimmaginabile, naturalmente non per lei. E questo capita solo ai geni».

Diane Arbus amica dei più grandi artisti ma donna solitaria dallo sguardo vorace di verità, ha fatto del difetto una virtù, non camuffandolo ma facendolo emergere in tutta la sua imperfezione, perché «quello che cerco di descrivere è che è impossibile uscire dalla propria pelle ed entrare in quella altrui. La tragedia di qualcun altro non è mai la tua stessa» e ognuno di noi ha le proprie piccole ferite e le proprie piccole gioie che con il passare del tempo ci formano e vengono trasposte sulla propria epidermide o riflesse nei propri comportamenti.

Diane Nemerov, nasce a New York il 14 marzo 1923, da una ricca famiglia ebrea di New York, proprietaria dei grandi magazzini Russek’s. L’incontro con quello che diventerà il futuro marito, Allan Arbus, avviene molto giovane, alla sola età di 14 anni.

Durante la seconda guerra mondiale Allan lavora come fotografo per l’esercito, carriera che Diane e il marito decideranno di intraprendere una volta finito il conflitto bellico. All’inizio Diane fa da assistente ad Allan, ma ben presto grazie agli insegnamenti di Berenice Abbott, di Aleksej Česlavovič Brodovič e infine di Lisette Model, affina la tecnica e apprende l’arte della fotografia.

È soprattuto con Lisette che Diane trova la sua personale cifra stilistica e si avvicina ai primi soggetti da cui era particolarmente attratta, superando la sua grande timidezza.

© The Estate of Diane Arbus

Diane è ormai dedita alla fotografia e scatta incessantemente con una Nikon 35mm. In questo periodo conosce Kubrick, all’epoca un fotografo alle prime armi, poi Robert Frank e la moglie Mary, fino a quando nel 1960, entra in contatto con l’Hubert’s Museum, dove si esibivano molti personaggi particolari, di cui la fotografa diventa amica e confidente.

Il rapporto con Allan si incrina e Diane inizia la sua vita da sola, facendo sempre nuove scoperte, conosce anche Emile De Antonio, che le mostra il film Freaks di Tod Browning, uscito nel 1932, che per lei è una rivelazione.

Le sue immagini fanno fatica a essere pubblicate, se non grazie all’appoggio dell’amico Marvin Israel, all’epoca appena nominato art director di Harper’s Bazaar.

Chi conosce la biografia di Diane Arbus sa bene, che lei è anche conosciuta per l’uso che ha fatto della Rolleiflex, che utilizza dal 1962, vincendo l’anno successivo la sua prima borsa di studio data dal Guggenheim, fino al 1965 quando tre sue immagini vengono esposte in una mostra collettiva al MoMA, e ancora, nel ’67 trenta immagini esposte nella mostra New Documents.

La Arbus inizia a fare scuola e molti giovani fotografi apprezzano il suo stile e amano i suoi soggetti: prostitute, emarginati, giocolieri, gemelli, bambini, nudisti e disabili, tutti ritratti che le hanno fatto attribuire il soprannome di “fotografa dei mostri”, un appellativo che lei odiava, ma che sui malgrado non è mai riuscita a cancellare.

Si racconta che le modelle avevano paura a farsi ritrarre da lei perché riusciva a cogliere un’immagine senza veli, diretta, reale e talvolta anche crudele di chi si poneva davanti al suo obiettivo. Un ritratto vacillante tra repulsione e familiarità, così come ha confermato Viva, famosa modella degli anni ’60, quando la Arbus la colse nuda sul divano con gli occhi capovolti quasi come fosse svenuta.

New Documents allestimento della mostra tenutasi al MoMa di New York dal 28 febbraio al 7 maggio 1967. ©MoMa

Donna coraggiosa e grandissima fotografa, Diane si suicida il 26 luglio 1971, ingerendo un’ingente dose di barbiturici e tagliandosi le vene nella sua vasca da bagno, è stata la prima donna americana a esporre alla Biennale di Venezia, esattamente un anno dopo la sua morte. A celebrarla come grande maestra della fotografia altre mostre importanti da citare, come la mostra monografica ad Aperture e “Diane Arbus Revelations” del 2004.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati

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APPROFONDIMENTI CONSIGLIATI:

Il bellissimo archivio di Diane Arbus è conservato al Metropolitan Museum di New York.
Patricia Bosworth, Diane Arbus, A Biography, New York, Newton & Co.
Diane Arbus, An Aperture Monograph, New York, Aperture 1972.
Diane Arbus, Magazine Work, New York, Aperture 1984.
Diane Arbus, Family Albums, Yale University Press 2003.
Il film Fur: un ritratto immaginario di Diane Arbus di Steven Shainberg (2006).
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Gian Maria Volonté: intellettuale eretico https://www.cultmag.it/2019/12/19/gian-maria-volonte-eretico-intellettuale/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/12/19/gian-maria-volonte-eretico-intellettuale/#respond Thu, 19 Dec 2019 08:24:29 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6273 Uomo di grande acume e di misteriosa bellezza, Gian Maria Volonté è stato un attore di eccelsa bravura. Impossibile dimenticarlo nei panni di Ramon Rojo nel film Per un pugno di dollari di Sergio Leone, in quelli di El Indio in Per qualche dollaro in più, dell’imprenditore Enrico Mattei, del mafioso Lucky Luciano, di Aldo Moro, Renato Braschi, Michelangelo e Caravaggio.

Attore di innato talento, affinato da uno studio «matto e disperatissimo», Volonté è stato anche un attento osservatore del mondo a lui contemporaneo e un coraggioso contestatore. Nato a Milano il 9 aprile 1933, fin da giovane dimostra avere un’anima ribelle: abbandona la scuola per svolgere diversi lavoretti, fino a quando – dopo un breve soggiorno in Francia per raccogliere mele – si iscrive all’Accademia Internazionale d’Arte Drammatica di Roma, sotto l’insegnamento di Orazio Costa.

A Cavallo della Tigre di Luigi Comencini, 1961. Foto di Enrico Santelli ©Archivio fotografico della Cineteca Nazionale, Roma

In questo periodo recita in molti teatri, crede nelle sue potenzialità e interpreta personaggi drammatici e tremendamente reali; è espressivo ma non manierista e, se il teatro è la sua casa, a farlo conoscere al grande pubblico saranno televisione e cinema. Viene chiamato da Dullio Coletti per recitare nel film Sotto dieci bandiere e Un uomo da bruciare dei fratelli Taviani, quest’ultima pellicola sulla vita del sindacalista siciliano ucciso dalla mafia, Salvatore Carnevale, un film che consolida le certezze intellettuali di Volonté, studia il movimento operaio, parla con i contadini e legge Marx, la sua attenzione ai problemi reali cresce smisuratamente e l’avvicinamento a tematiche impegnate si fa sempre più vivo.

Come lo stesso attore affermò: «io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondono a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c’è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione. Essere attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressiste di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario tra l’arte e la vita».

Volonté non recita semplicemente un copione, ma esperisce sulla sua stessa pelle la vita di un altro da sé: studia, conosce e comunica attraverso un’eccelsa mimica e un’imprevedibile gestualità.

«Io non entro e non esco dai personaggi – disse l’attore – non esiste, secondo me, una tecnica unica e precisa. Si può interpretare un personaggio in totale immersione, ma può avvenire anche il contrario […] Io so bene quali percorsi faccio, però ho sempre un fondo di scetticismo nel parlarne perché mi rendo conto che in questo Paese tutti pensano che si possa essere o non essere attori, in qualsiasi momento. Invece non è vero, ci sono discipline che richiedono anni di frequentazione».

Il suo metodo era ferreo e questo lo ha raccontato anche Giuliano Montaldo quando disse: «se doveva interpretare un personaggio negativo, era negativo anche durante le pause, durante la notte, durante i momenti di pranzo e cena, si immedesimava talmente nel personaggio da diventare altro, una totale immersione nel personaggio vivendo insieme a lui».

La Ragazza con la valigia di Valerio Zurlini, 1961. Foto di Leo Massa ©Archivio fotografico della Cineteca Nazionale, Roma

Se nel 1964 Volonté ha i primi problemi con la censura per Il Vicario, opera di aperta denuncia contro i sottaciuti rapporti tra Pio XII con il regime nazista, negli anni successivi fa l’incontro più importante per lui con Elio Petri, esponente del cinema verità, che lo chiama per prendere parte nel 1967 in A ciascuno il suo, pellicola che vince il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes e il premio come migliore attore protagonista ai nastri d’argento nel 1968. Sarà sempre con Petri che Volonté recita in La classe operaia va in paradiso, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Todo modo, un vero e proprio atto di accusa verso la DC.

Dopo aver superato un periodo molto duro a causa di un tumore ai polmoni, Volenté comincia nuovamente a recitare, nonostante i tempi siano ormai cambiati e dopo tanti successi muore il 5 dicembre 1994 a Florina, in Grecia, sul set de Lo sguardo di Ulisse, dove avrebbe interpretato la parte del direttore della cineteca di Sarajevo assediata durante la guerra nella ex Jugoslavia.

Per meglio approfondire la poliedrica figura di Gian Maria Volonté, fino al 22 dicembre, è possibile visitare la mostra a lui dedicata in occasione della XVIII edizione del Festival del cinema di Porretta Terme, proprio nella località dove nel 1971 Gian Maria Volonté ed Elio Petri presentarono in anteprima mondiale, La classe operaia va in paradiso. Inaugurata il 6 dicembre, giorno in cui si è stato celebrato il venticinquesimo anno dalla sua scomparsa, la mostra è stata realizzata in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati
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Édith Piaf: l’usignolo dall’ugola insanguinata. https://www.cultmag.it/2019/12/10/edith-piaf-lusignolo-dallugola-insanguinata/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/12/10/edith-piaf-lusignolo-dallugola-insanguinata/#respond Tue, 10 Dec 2019 10:35:19 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6274 «Quello che più mi interessa nella vita […] è l’Amore. In qualunque aspetto della vita: l’amore per l’umanità, l’amore per il proprio lavoro, l’amore per le cose a cui teniamo».

Una frase ricca di passione e intrisa di puro sentimento, pronunciata da Édith Piaf, donna dal corpo minuto e dalla voce graffiante, che il suo grande amico, Charles Aznavour, chiamava «il nostro diavoletto».

Édith Piaf è stata una donna vulcanica, adorava scherzare, fare picnic sul prato e passare il tempo in compagnia degli amici più cari, ma è stata anche una donna che ha dato tutto per il suo grande amore, la musica.

La Piaf è un concentrato di arte ed emozione, desiderosa di vero amore, come quello che lei stessa donava, perché la vita è troppo dolorosa per non amare, anche se spesso «l’amore si deve pagare con lacrime amare».

Édith Piaf brinda con il pugile Marcel Cerdan

La sofferenza Édith l’ha esperita in prima persona, essendo stata vittima di incidenti devastanti, sottoposta a molti interventi chirurgici, soggetta spesso a malanni frequenti, per non parlare dei diversi episodi di coma etilico, l’artrite reumatoide e le sfortunate storie d’amore che hanno reso la piccola Édith, un potente concentrato di sofferenza, forza e determinazione.

Nata il 19 dicembre 1915 da una coppia di artisti circensi, la sua infanzia è trascorsa per le strade parigine, dove trascorre il tempo cantando con la sua cara amica Momone. A 17 anni conosce Louis Dupont, con cui ha una figlia, Marcelle Carolina Gassion, morta poco dopo per una meningite, una dramma da cui Édith si riprende lentamente, grazie al canto.

La musica la salva dalla disperazione ed è Louis Leplée, direttore del cabaret Gerny’s a scoprirla e a farla debuttare ufficialmente con il nome d’arte di Môme Piaf. Dopo la misteriosa morte di Leplée, Èdith si rivolge all’impresario Raymond Asso, che diventa suo amante e suo pigmalione, il quale decide di cambiarle battezzarla definitivamente Èdith Piaf.

Così che inizia lo straordinario successo de la chanteuse, che inizia a incidere grandi successi, come La vie en rose, canzone che affascina il pubblico e la critica, facendo approdare la cantante negli Stati Uniti.

Édith in questo periodo è felice, viene immensamente amata dal pugile Marcel Cerdan e con lui si scambia lettere romantiche, intrise d’amore, (oggi conservate nell’archivio della Biblioteca Nazionale Francese e raccolte nel libro Moi pour Toi), ma fino al 28 ottobre 1949, quando avviene la tragedia, perché l’aereo con a bordo il pugile precipita sulle Azzorre.

Édith Piaf e Jean Cocteau

Nonostante la disperazione per la morte dell’amante e indebolita fisicamente dall’artrite reumatoide, con i suoi 42 chili di peso, i vestiti sempre neri, i capelli ricci e con la voce roca, nel 1952, Édith si risolleva psicologicamente grazie alla musica, che le dona ancora una volta la forza d’amare.

Nel mese di settembre si sposa con Jacques Pills a New York e nonostante il largo uso di morfina che la costringe a iniziare un trattamento di disintossicazione, ormai fisicamente sfinita, continua a esibirsi senza tregua, riscuotendo successi internazionali come avviene alla Carnegie Hall, dove il pubblico applaudirà per ben sette minuti, e nel 1960 sul palco dell’Olympia, dove presenta pre la prima volta la celebre canzone Non, je ne regrette rien, scritta da Charles Dumont.

La tournée prosegue senza interruzione, ma i numerosi malanni costringono Édith ad assumere molte medicine. Per tutti era ormai la «maschera tragica della canzone», ma c’e ancora un ultimo piccolo brandello di felicità che spetta alla piccola Édith, il matrimonio con Théophanis Lamboukas, un giovane con cui nasce una profonda simpatia e che sposerà il 9 ottobre 1962, lui ha 26 anni e lei 46. La mattina del matrimonio Édith ci ripensa, ma sarà proprio Theo a farla rinascere e darle la forza per combattere ancora, fino al 10 ottobre 1963, quando Edith Piaf morirà.

Ai suoi funerali parteciparono migliaia di persone, dalle finestre di Parigi risuonava la sua voce e Jean Cocteau, grande amico della Piaf, scrisse l’elogio funebre per l’amica, un elogio che non riuscì mai a leggere personalmente perché fu colpito da infarto lo stesso giorno.

Così recitavano le sue parole:

«Guardate questo piccolo essere le cui mani sono quelle della lucertola delle pietre. Guardate la sua fronte di Bonaparte, i suoi occhi di cieca che hanno ritrovato la vista. Come farà a far uscire dal suo petto minuto i grandi lamenti della notte? Ed ecco che canta, o meglio, come l’usignolo di aprile prova il suo canto d’amore. Avete ascoltato questo lavorio dell’usignolo? Soffre. Esita. Si schiarisce. Si strozza. Si lancia e cade. E d’improvviso, trova la sua strada. Canta. Sconvolge».

Nel 2007 è uscito nelle sale La vie en rose, un ritratto libero della cantante per la regia di Olivier Dahan.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati
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Clara Rockmore: suonare nell’aria https://www.cultmag.it/2019/04/28/clara-rockmore-suonare-nellaria/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/04/28/clara-rockmore-suonare-nellaria/#respond Sun, 28 Apr 2019 14:24:11 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6023 L’altro giorno mentre ascoltavo un concerto di Francesco al Blue Dahlia, uno strano suono emesso dalla sua chitarra battente mi ha fatto pensare al theremin e di quella volta in cui mi sono imbattuta nella vita di una delle sue più importanti interpreti: Clara Rockmore.

Nata il 9 marzo 1911 a Vilnius (attuale capitale della Lituania, allora facente parte della Russia) come Clara Reisenberg, fin da piccola dimostra avere uno straordinario talento musicale, tanto da esser definita “bambina prodigio” dai giornali dell’epoca. Fu lo zio Paul a indirizzare Clara e la sorella Nadia verso lo studio del pianoforte, ma ben presto Clara scopre un altro amore: il violino.

A soli quattro anni svolge un’audizione al Conservatorio di San Pietroburgo con Leopold Auer, professore scrupoloso e severo che decide di prendere come sua allieva la piccola bambina che trascinava la pesante custodia rossa del violino sul pavimento fin dentro la sala per le audizioni. La commissione stupita dalla bravura della piccola, la ammette, diventando la più giovane studentessa nella storia del Conservatorio.

Con il sopraggiungere della rivoluzione russa, la famiglia decide di abbandonare il paese natio per cercare rifugio in America; durante il viaggio, lei e la sorella Nadia, si esibivano incessantemente per racimolare del denaro e pagare il piroscafo che avrebbe portato tutta la famiglia a New York, dove giunsero il 19 dicembre 1921.

Clara nella Grande Mela può finalmente riprendere i suoi studi con l’inseparabile maestro Leopold, anche lui trasferitosi nella metropoli, ma poco prima di fare il debutto ufficiale come violinista, le viene diagnosticato un problema al braccio, dovendo rinunciare al violino.

Clara Rockmore, 27 ottobre 1938.

«Ho provato di tutto. Ero pronta a far amputare il mio braccio e farmelo ricucire all’indietro se fosse stato di aiuto. Sono passata da un medico all’altro […] Ogni volta che il mio braccio andava un po’ meglio, provavo a suonare e immediatamente sentivo lo stesso dolore. Erano passati quasi tre anni prima di sapere che era impossibile tornare a suonare […] È stata una vera tragedia nella mia vita».

Il non poter più suonare il violino comportò anche la rottura con il proprio mentore, ma non tutti i mali vengono per nuocere perché determinata e impavida sperimentatrice, incontra Lev Sergeevič Termen, conosciuto anche come Leon Theremin, ovvero l’inventore del Theremin. Termen e Clara da questo momento in poi strinsero un duraturo sodalizio artistico che venne interrotto solo dalla morte di lui avvenuta nel 1993.

Come Clara scrisse: «ero affascinata dalla parte estetica, dalla bellezza visiva, dall’idea di suonare nell’aria e ho adorato il suono […] Presto Lev Sergeevič mi regalò il modello RCA», che però non la soddisfaceva pienamente, così intrapresero insieme un cammino di sperimentazione che li portò a perfezionare lo strumento, permettendone un controllo maggiore.

«Mentre suonavo pezzi più difficili, ho sempre dovuto inventare un modo per poterli eseguire. Ci sono stati molti tentativi ed errori, ma il theremin ha salvato la mia vita dandomi uno sbocco nella musica. È stato molto gratificante riuscire a realizzare qualcosa da uno strumento che nessuno si aspettava e che forse non era nemmeno immaginabile. Ma avevo bisogno di esprimere me stessa».

Clara Rockmore e Lev Sergeevič Termen nel 1929.

Il theremin era uno strumento assolutamente innovativo per l’epoca, il cui suono era molto diverso da tutto ciò che fino a quel momento era stato ascoltato.

«Lui, essendo il genio che era, mi ha costruito uno strumento molto più impegnativo. Il controllo era molto più difficile, ma era molto più reattivo e quindi musicalmente più soddisfacente», ma la vera difficoltà era quella di farsi accettare dal pubblico, facendolo riconoscere come «un vero mezzo artistico». Clara, che nel frattempo si sposa con Robert Rockmore e intraprende lunghe tournée, molto apprezzate, suonando spesso con la sorella Nadia (con cui ha registrato anche il primo LP intitolato The Art of the Theremin nel 1977), ma anche con il cantante e attivista per i diritti civili, Paul Robeson.

Dopo una grave polmonite che l’ha colpita nel 1997 e dopo esser scampata ad un infarto, Clara Rockmore muore due giorni dopo la nascita di sua nipote Fiona, il 10 maggio 1998.

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Per maggiori informazioni:  The Nadia Reisenberg & Clara Rockmore Foundation; importante da citare è anche il documentario Theremin – An Electronic Odyssey realizzato nel 1991 da Steve M. Martin, in cui il regista ha incluso alcune delle ultime esibizioni di Clara e la riunione svoltasi a New York tra Clara e Leon Theremin (novantaseienne).

Per ascoltare un concerto di theremin dal vivo… i discepoli di questa magia sonora sono, naturalmente, Vincenzo Vasi e Valeria Sturba che insieme hanno creato il progetto OoopopoiooO, in tour in questo periodo. Interessante anche: La magia del theremin: cinque virtuosi dello strumento scelti da Vincenzo Vasi.

«Prima di toccare le note, ovviamente, prima di fare qualsiasi cosa, devi avere la musica nella tua anima. Se dovessi dare consigli ai futuri thereministi, direi less is more. Non puoi suonare l’aria con i martelli, devi usare movimenti delicati, devi giocare con le ali delle farfalle; la precisione è molto più importante della forza. Devi anche avere coraggio. Suonare il theremin è come essere un trapezista senza una rete. Non sai se atterrerai correttamente o meno, ma corri un rischio e salti, non solo per arrivare alla nota giusta, ma per colpire il centro della nota, quindi sarai sintonizzato».

– Clara Rockmore


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Anaïs Nin: la dolcezza dell’amore https://www.cultmag.it/2017/01/14/anais-nin-la-dolcezza-dellamore/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/01/14/anais-nin-la-dolcezza-dellamore/#comments Sat, 14 Jan 2017 09:04:50 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4358 Anaïs Nin nasce sotto il segno dei pesci a Neuilly-sur-Seine il 21 febbraio del 1903. È stata una scrittrice profonda, un’amante instancabile, una sognatrice e una bambina realista, un vulcano di sensazioni ed emozioni.

Figlia della cantante Rosa Culmell e del pianista Joaquin Nin, la giovane Anaïs all’età di 11 anni viene abbandonata dal padre, il quale decide di dedicarsi interamente alla carriera da musicista; un avvenimento traumatico che segna la vita della giovane Anaïs.

Il tanto chiacchierato, censurato e amato Diario nasce proprio per questa ragione, come una lunga lettera indirizzata al padre, ma mai spedita: “Voglio descriverti, papà caro, ciò che sto vedendo durante questo stupendo viaggio. Potrò così avere l’illusione che tu sia qui con me e che tu stia guardando le cose coi miei occhi”.

Anaïs Nin

Anaïs si trasferisce a New York con la madre e i fratelli dove studia danza spagnola; nel 1923, all’età di venti anni, sposa il bancario e regista Hugh Parker Guiler ma il matrimonio si rivela noioso e poco adatto al suo spirito da eroina amorosa, così la giovane donna inizia diverse relazioni extra-coniugali.

Dopo tanto peregrinare, torna a Parigi alla fine del ’29, dove rimane follemente affascinata dalla vita intellettuale della città e diventando amica e confidente di intellettuali e artisti del suo tempo, con i quali può finalmente far emergere la propria arte e il proprio spirito.

I suoi diari sono un’incantevole opera letteraria, a mio avviso tra i più belli del genere diaristico: uno spaccato nudo e crudo della personalità della Nin; pagine e pagine che nulla celano al lettore ma soprattutto che nulla celano a se stessa, quasi come se il foglio bianco fosse uno specchio della propria anima, un fedele amico che l’ha accompagnata per tutta la vita nell’esplorazione dell’animo umano: “Questo diario è il kief, il mio hashish, la mia pipa d’oppio. E’ la mia droga e il mio vizio. Invece di scrivere un romanzo, mi sdraio con questo libro e una penna e indulgo in rifrazioni e diffrazioni”.

A Louvenciennes conosce Henry Miller, di cui Anaïs rimane subito affascinata, nonostante l’uomo fosse a tratti burbero e solitario. Henry “mi è piaciuto subito, non appena l’ho visto scendere dalla macchina e mi è venuto incontro sulla porta dove lo stavo aspettando. La sua scrittura è ardita, virile, animale, magnifica […] Era snello, magro, non molto alto. Ha occhi azzurri, freddi e attenti, ma la sua bocca rivela emotiva vulnerabilità”.

Anais Nin e Henry Miller

Nelle pagine del primo diario accanto alla figura di Miller, una posizione di privilegio è concessa anche alla misteriosa e inaccessibile June Mansfield, moglie di Henry. June, sempre così sicura di sé, affascinante e aggressiva con gli uomini, con Anaïs si dimostra dolce e sensibile, un atteggiamento che fa nascere in Miss Nin un senso di protezione e amore sconfinato.

Anaïs, attraverso il diario, ricerca se stessa incessantemente tanto da voler intraprendere un percorso di psicanalisi con Otto Rank, con cui non  solo ha una relazione amorosa, ma inizia anche una collaborazione professionale che durerà poco a causa della forte empatia che la scrittrice provava nei confronti dei pazienti di Rank.

Con il sopraggiungere della guerra si trasferisce a New York dove inizia a scrivere storie erotiche commissionate da un collezionista che lei definisce insensibile e senza amore, brutalmente apatico. Le storie iniziarono a essere ironiche e improbabili, di una bizzarria esagerata tanto la stessa Nin afferma: “pensai che il vecchio si sarebbe accorto che stavo facendo una caricatura della sessualità”.

Per lei, donna profonda e passionale, era impossibile scrivere storielle di sesso senza amore e ardore, per questa ragione scrive una lettera al collezionista affermando: “Caro collezionista, noi la odiamo. II sesso perde ogni potere quando diventa esplicito, meccanico […] Lei ci ha insegnato più di chiunque altro quanto sia sbagliato non mescolarlo all’emozione, all’appetito, al desiderio […] Lei non sa cosa si perde con il suo esame al microscopio dell’attività sessuale, con l’esclusione degli aspetti che sono il carburante che la infiamma […] Il sesso deve essere innaffiato di lacrime, di risate, di parole, di promesse, di scenate, di gelosia, di tutte le spezie della paura, di viaggi all’estero, di facce nuove, di romanzi, di racconti, di sogni, di fantasia, di musica….”.

Da queste poche parole si comprende bene il carattere di Anaïs: una donna che certamente amava l’amore carnale, ma che più di tutto amava l’idea stessa dell’amore puro, incondizionato e sincero, sentimento che traspare in ogni singola parola del suo diario – 150 volumi che contano qualcosa come 15.000 pagine dattiloscritte – oggi custodito nel grande archivio della Special Collections Department della UCLA a Los Angeles.

Anais Diaries. ©TheAnaisNinFoundation.

Il diario era “il solo amico sicuro” di Anaïs, l’unico che le rendeva “la vita sopportabile”, ed è solo grazie a esso, che pagina dopo pagina, possiamo scoprire Anaïs, una donna inafferrabile, sempre alla ricerca dei “grandi momenti” della vita fino alla sua morte, avvenuta il 14 gennaio 1977.

Parole dolci, semplici ed embrionali, scritte da una donna affascinante che celava un animo da fanciulla dolce e fragile, capace di entusiasmarsi per i piccoli piaceri della vita ed è proprio grazie ai suoi scritti che Anais ci ricorda che questi momenti esistono, basta solo saper afferrarli.

Nel 1986 è uscito Henry e June, libro in cui viene narrata la turbolenta relazione tra Henry, June e Anaïs, volume seguito dall’omonimo film del 1990 diretto da Philip Kaufman e con la favolosa fotografia di Philippe Rousselot.

Man Ray, Henry Miller Anais Nin, 1945.

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Giuseppe Rotunno: il mago della luce. https://www.cultmag.it/2017/01/10/giuseppe-rotunno-il-mago-della-luce/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/01/10/giuseppe-rotunno-il-mago-della-luce/#comments Tue, 10 Jan 2017 08:36:00 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4337 Giuseppe Rotunno, nato a Roma il 19 marzo 1923, è stato uno straordinario direttore della fotografia che ha contribuito con la sua arte a realizzare grandi capolavori della cinematografia italiana e internazionale.

Tra questi: La grande guerra di Mario Monicelli, Rocco e suoi fratelli di Luchino Visconti, Cronaca familiare di Valerio Zurlini, Il Gattopardo di Visconti, Ieri, Oggi e Domani di Vittorio De Sica, La terra vista dalla Luna di Pier Paolo Pasolini, Fellini Satyricon di Federico Fellini, All That Jazz di Bob Fosse, Non ci resta che piangere di Benigni e Troisi, e ancora Le avventure del Barone di Munchausen di Terry Gilliam, Sabrina di Sydney Pollack e La sindrome di Stendhal di Dario Argento.

Giuseppe Rotunno sul set del film ‘La Maja desnuda’ (1958). Courtesy Archivio fotografico della Cineteca nazionale.

Andando a spulciare nella filmografia di Rotunno si rimane stupiti dalla quantità di film a cui ha partecipato come direttore della fotografia ma, soprattutto, ciò che emerge con chiarezza è l’altissima qualità artistica del suo lavoro.

Una storia lunga la sua, fatta di esperienze, sperimentazione e, prima di tutto, di passione; un percorso che ha inizio nella camera oscura del laboratorio fotografico di Cinecittà con Arturo Bragaglia, il quale nutriva una sincera stima verso lo spirito sperimentale e innovatore dell’allora giovanissimo Giuseppe.

Rotunno incontra Bragaglia casualmente. Infatti, dopo la morte del padre, il quale era titolare di una sartoria, Giuseppe Rotunno nel 1938 abbandona la scuola per cercare lavoro, così da aiutare economicamente la famiglia. Un amico lo informa che proprio in quei giorni a Cinecittà si stavano svolgendo dei colloqui per il ruolo di elettricista, ma mentre Peppino era in fila ad aspettare che il suo turno arrivasse, qualcosa accadde.

È lui stesso a raccontarlo in una bellissima intervista realizzata da Giulio Brevetti per Artribune: “Mentre ero in fila” – dice Rotunno – “passarono due o tre miei coetanei che si lamentavano di un certo Bragaglia, che aveva uno studio fotografico. Sentendo che per ragioni di carattere non ci andava nessuno, allora sono andato io. Sono andato da lui, ho fatto amicizia, mi ha preso a ben volere come un padre. A fine settimana mi dava una Leica, io facevo le fotografie per conto mio e il lunedì, quando tornavo allo studio, le sviluppavo e le stampavo, insomma ho cominciato a fare il fotografo”.

Con il sopraggiungere della Seconda Guerra Mondiale il giovane Peppino parte per il fronte con la sua attrezzatura e sul campo realizza documentari da inviare al comando generale dello Stato Maggiore del Regio Esercito; questo almeno fino al settembre del 1943, quando viene catturato in Grecia e deportato in Germania fino al 1945. Tornato in patria, prosegue la carriera come aiuto-operatore, per diventare in breve tempo operatore di macchina e, infine, direttore della fotografia, proprio durante gli anni del cinema neorealista, impegnato culturalmente e “libero di esprimersi”.

È il 1955 quando Rotunno debutta come direttore della fotografia per il film Pane, amore e… di Dino Riso e da allora non si è più fermato, tanto che da abile sperimentatore quale è, oltre ad occuparsi della fotografia, Rotunno non può che diventare un sapiente insegnate per il corso di fotografia alla Scuola Nazionale di Cinema del Centro Sperimentale di Cinematografia, dove giunge nel 1988 per volere di Lina Wertmüller, all’epoca commissario della Scuola.

Sempre nello stesso anno viene chiamato dal regista Terry Gilliam, ex Monty Python, per partecipare alle riprese de Le avventure del Barone di Münchausen, film tratto dai bellissimi racconti settecenteschi di Rudolf Erich Raspe. Un film straordinario, che vanta un cast tecnico di tutto rispetto, infatti oltre a Rotunno per la fotografia, annovera anche la costumista Gabriella Pescucci e lo scenografo Dante Ferretti.

Giuseppe Rotunno con Federico Fellini sul set del film ‘Amarcord’ (1973). Courtesy Archivio fotografico della Cineteca nazionale.

In uno dei molti dialoghi tra Il Barone Münchausen e Sally Salt, alla domanda sul perché l’uomo cerchi disperatamente di morire, lui risponde:

«Perché, perché, perché! Perché tutto è logica e ragione oggigiorno! Scienza, progresso… Bah, dahhh! Leggi dell’idraulica, leggi della dinamica sociale, leggi di questo, leggi di quell’altro! Non c’è posto per i ciclopi a tre gambe dei mari del sud, non c’è posto per alberi di cetrioli e oceani di vino… Non c’è posto per me!»

Una semplice e, al giorno d’oggi, inconfutabile verità. Qualche volta nella nostra vita dimentichiamo di sognare e allora ecco che fa capolino qualche pellicola a ricordarcelo.

Come afferma lo stesso Giuseppe Rotunno, il mestiere del direttore della fotografia consiste in questo: trovare i difetti che vi sono nella luce e “trasformarla alle nostre esigenze di racconto. Non sempre la luce che si trova nella nostre città è utile al racconto che stiamo facendo per cui se contrasta con la storia impariamo a tradurla a trasformala in modo tale che rappresenti meglio le emozioni della storia che stiamo girando”.

Il direttore della fotografia e il regista, lavorando insieme sinergicamente, rendono possibile il sogno e permettono allo spettatore “di entrare in un racconto cinematografico senza essere distratti” da altri elementi perché, in fondo, aveva ragione François Truffaut quando affermava “fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell’infanzia”.

Testo a cura di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati

Fonti: Centro Sperimentale di Fotografia, Associazione Italiana Autori della Fotografia CinematograficaCinematographers, Treccani, Artribune.
Articolo aggiornato in data 8 maggio 2019.
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Peggy Guggenheim: una donna fuori dagli schemi https://www.cultmag.it/2016/08/16/peggy-guggenheim-una-donna-fuori-dagli-schemi/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/08/16/peggy-guggenheim-una-donna-fuori-dagli-schemi/#respond Tue, 16 Aug 2016 13:52:52 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4095 Sono molte le donne che con coraggio e grande acume hanno avuto la forza di sovvertire le regole imposte dalla società a costo di sembrare spregiudicate. Una di queste è stata Peggy Guggenheim che con la sua “genuina follia” ha lasciato un segno indelebile nella storia contemporanea.

Nota ereditaria americana, Peggy si sposa giovanissima con il pittore Laurence Vail con il quale inizia un lungo percorso di crescita e conoscenza che la porta a cambiare radicalmente vita trasferendosi a Parigi. In questa città la Guggenheim vede emergere in totale libertà la sua stravagante personalità, stringendo intensi rapporti d’amicizia con letterati e artisti bohémien come Constantin Brâncuși, Samuel Beckett e Marcel Duchamp. In particolare è quest’ultimo a indirizzare la passione di Peggy verso l’arte d’inizio Novecento e a catapultarla nell’effervescente mondo artistico parigino. Per la Guggenheim quelli francesi sono anni felici, se pur destinati a durare poco a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale dalla quale è costretta a fuggire a causa delle sue origini ebraiche.

«A Marsiglia […] la moglie di Tanguy, Kay Sage, mi ha mandato un telegramma chiedendomi se ero disposta a pagare il viaggio di cinque artisti importanti […] Era molto complicato e un po’ pericoloso ma alla fine ci riuscì», con queste parole Peggy ricorda come fu effettivamente lei a portare in salvo alcuni artisti europei e le loro opere, infatti suoi erano i capolavori di Duchamp, Leger, Picabia, Dalì e del futuro marito Max Ernst, artisti che il regime nazista aveva definito “degenerati”. Per la prima volta i Surrealisti sbarcano in America, Peggy diventava la madre putativa degli europei facendoli esporre nella sua galleria Art of this Century, e accanto a loro un artista statunitense stava per diventare il protetto della giovane ereditiera: Jackson Pollock. Nasce l’Espressionismo astratto e la Guggenheim diventa la massima sostenitrice del gruppo, attirando su di sé aspre critiche, rafforzate dal recente divorzio con Ernst, tanto che la mostra degli americani viene interpretata come una vera e propria sfida al Surrealismo.

Nel 1948 Peggy viene invitata alla XXIV Biennale di Venezia per esporre al pubblico la sua straordinaria collezione che vede gli uni accanto agli altri artisti del calibro di Brâncuși, Giacometti, Kandinsky, Picasso, Mark Rothko, Arshile Gorky e naturalmente Pollock. Venezia affascina così tanto Peggy che decide di acquistare Palazzo Venier dei Leoni per trasferirsi definitivamente sul Canal Grande, per lei la città lagunare è un sogno a occhi aperti che solo con il trascorrere del tempo si trasforma in una prigione dorata, «il luogo adatto per venire a morire», immerso in una meravigliosa «sensazione di pace che accompagna la morte». Parole vere che denunciano una triste verità d’impotenza di fronte a un mondo che forse non era ancora pronto ad accogliere una donna così innovativa, soprattutto negli anni della ricostruzione post-bellica, quando miseria e disperazione erano il principale problema dell’Italia. Una donna dal grande carisma in questi mesi celebrata con la mostra Peggy Guggenheim in Photographscurata da Živa Kraus presso la Ikona Gallery di Venezia e realizzata in collaborazione con la Collezione Peggy Guggenheim, per il cinquecentesimo anniversario della nascita del Ghetto della città.

Man Ray (1890–1976) Peggy Guggenheim Parigi / Paris, ca. 1924 Stampa alla gelatina d’argento (cartolina) / Gelatin silver print (carte postale) Solomon R. Guggenheim Foundation, Venice Gift, Carla Emil and Rich Silverstein, 2011 © Man Ray Trust

Man Ray, Peggy Guggenheim, Parigi / Paris, ca. 1924. Solomon R. Guggenheim Foundation, Venice. Gift, Carla Emil and Rich Silverstein, 2011 © Man Ray Trust

L’esposizione si compone di 21 scatti realizzati dai più grandi artisti a lei contemporanei e da amici fidati come Man Ray che la raffigura con il bellissimo abito di Paul Poiret nel 1925, Berenice Abbott che invece la coglie giovane e speranzosa a Parigi, Rogi André che la raffigura in un abito futurista di Elsa Schiaparelli proprio nell’appartamento di Key Serge, mentre Peggy è raggiante con indosso l’abito di Mariano Fortuny nella foto di Ida Kar. Ma i fotografi che l’hanno immortalata sono tanti e nell’esaustiva mostra alla Ikona Gallery è possibile ammirare anche le immagini di Gianni Berengo Gardin, George Karger, André Kertész, Nino Migliori e molti altri artisti, che la raffigurano a lavoro, in atto di allestire una mostra o in momenti della sua vita privata. La mostra Peggy Guggenheim in Photographs è uno spaccato vivido e profondo nella vita di colei che forse più di tutti ha contribuito a cambiare la storia dell’arte del Novecento, perché Peggy è stata, sì, una collezionista lungimirante ma prima di tutto è stata una donna determinata con le sue gioie, i suoi dolori e i suoi amori.

Articolo di Claudia Stritof per Juliet art magazine (luglio 2016)

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Peggy Guggenheim in Photographs
Ikona Gallery, Venezia
10 giugno – 27 novembre 2016
www.ikonavenezia.com?utm_source=rss&utm_medium=rss
www.guggenheim-venice.it?utm_source=rss&utm_medium=rss

Hermann Landshoff (1905–1986) Peggy Guggenheim e un gruppo di artisti in esilio / Peggy Guggenheim with a Group of Artists in Exile New York, 1942

Hermann Landshoff (1905–1986)
Peggy Guggenheim e un gruppo di artisti in esilio / Peggy Guggenheim with a Group of Artists in Exile
New York, 1942

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Maria Callas. The Exhibition https://www.cultmag.it/2016/05/11/maria-callas-the-exhibition/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/05/11/maria-callas-the-exhibition/#comments Wed, 11 May 2016 19:11:15 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3870 Una mostra curata da Massimiliano Capella alla Fondazione AMO, Arena Museo Opera di Verona, celebra il mito intramontabile della Divina: Maria Callas. The Exhibition si sviluppa come un intenso percorso nell’arte e nelle passioni della donna che ha cambiato la storia dell’opera.

Poco prima della sua morte, Maria Callas trascriveva in una lettera alcuni versi tratti da La Gioconda di Amilcare Ponchielli, prima opera da lei interpretata all’Arena di Verona nel 1947 sotto la direzione del maestro Tullio Serafin: «in quei fieri momenti tu sol mi resti. E al cor mi tenti l’ultima voce del mio destino, ultima croce del mio cammino», da questa frase mancava solo l’incipit, la parola “suicidio”. La sua scomparsa, come la sua vita rimangono avvolte da un alone di mistero, ma probabilmente quello di Maria Callas era un destino già scritto; una donna fatalista, traghettata nel viaggio della vita dalle proprie sconfinate passioni e dal proprio cuore.

Jerry Tiffany, Ritratto fotografico di Maria Callas, New York, 1958. Collezione Ilario Tamassia.

Jerry Tiffany, Ritratto fotografico di Maria Callas, New York, 1958. Collezione Ilario Tamassia.

Fantastica nelle sue interpretazioni drammatiche, riuscì a trasformare i propri difetti in virtù, fece della sua voce graffiante e ruvida un punto di forza e lo stesso avvenne per il suo aspetto fisico tanto denigrato dalla stampa, diventato infine un’icona di stile, dai modi aggraziati e dall’aspetto sempre curato a cui corrispose un’importante svolta artistica, perché ora, a fare da contrappunto alla sua indimenticabile voce, c’e anche un «grande lavoro interpretativo che veicola tramite il proprio corpo». Una scoperta di se stessa che l’ha portata a incarnare con profonda empatia personaggi ricchi di pathos, che trasmetteva all’animo dello spettatore senza nessuna apparente difficoltà, non c’era ruolo che la Callas non potesse interpretare grazie alle sue immense doti di cantante e attrice, ma ciò che affascinava era soprattutto la sua aurea di donna, che nel profondo del proprio cuore celava un animo da bambina dagli occhi innocenti e alla continua ricerca di un amore eterno.

Mario Tursi, Maria Callas come Medea con il costume di scena disegnato da Piero Tosi per il film di Pasolini, 1968. ©Mario Tursi

Mario Tursi, Maria Callas come Medea con il costume di scena disegnato da Piero Tosi per il film di Pasolini, 1968. ©Mario Tursi

La mostra nella città scaligera ripercorre la vita travolgente della Divina: dalla nascita in America al suo ritorno in Grecia con la madre e la sorella, dove studia al Conservatorio grazie alla maestra Elvira de Hidalgo, per poi partire verso il Nuovo Continente e tentare la scalata artistica. A New York il successo non è immediato ma è qui che ottiene un’audizione con l’allora direttore della stagione operistica all’Arena di Verona, Giovanni Zenatello, il quale la scrittura a soli 24 anni. Nel 1947 Maria Callas debutta a Verona, città in cui non corona solo il sogno di diventare cantante ma anche quello di avere una famiglia, sposandosi di lì a poco con l’industriale veronese e suo pigmalione Giovanni Battista Meneghini. Arrivata all’apice del successo la Callas inizia inevitabilmente una parabola discendente: a questo periodo risalgono i primi contrasti con la Scala di Milano, l’amore con Meneghini finisce bruscamente e i tabloid scandalistici si scagliano su di lei mettendone in discussione l’arte e la personalità. Nel frattempo stringe rapporti con l’armatore greco Aristotele Onassis, un amore che nasce e si spegne lentamente in nove anni e dal quale Maria Callas non si riprenderà mai. Tradita e amareggiata la soprano si allontana dalle scene ma non prima di aver interpreto nuovamente la Medea,sotto la regia di Pier Paolo Pasolini, film galeotto dal quale nascerà un profondo sodalizio intellettuale e una sincera amicizia.

Tornerà sulle scene, ma la tragedia ormai faceva parte della sua vita e ulteriormente dilaniata dalla morte di Onassis prima e di Pasolini e Visconti poi, decide di rifugiarsi nella solitudine del suo appartamento parigino fino al sopraggiungere di quel fatidico 16 settembre 1977, quando muore all’età di 53 anni e le sue ceneri vengono disperse nel mar Egeo, quel mare che molte volte l’aveva cullata e accompagnata nel lungo viaggio della vita. In mostra fotografie, costumi e gioielli di scena, cimeli personali, documenti storici e giornali d’epoca che documentano la straordinaria vita di Maria Callas, che come scrisse l’amico Franco Zeffirelli, fu colei che con la sua voce «ci affascinò come un sortilegio, un prodigio che non si poteva definire in alcun modo, la si poteva soltanto ascoltare come prigionieri di un incantesimo, di un turbamento mai esplorato prima». La mostra è realizzata con il patrocinio del Comune di Verona, promossa dalla Fondazione Arena di Verona e prodotta e organizzata da Arthemisia Group.

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Testo a cura di Claudia Stritof, pubblicato sulla rivista Juliet art magazine (25 aprile 2016).

Maria Callas. The Exhibition
AMO Arena Museo Opera, Palazzo Forti, Verona
12 marzo – 18 settembre 2016
www.arenamuseopera.com?utm_source=rss&utm_medium=rss

Maria Callas in camerino mentre si prepara ad interpretare Ifigenia di Gluck, Milano 1957. In basso si vede la Sacra famiglia di Cignaroli.

Maria Callas in camerino mentre si prepara ad interpretare Ifigenia di Gluck, Milano 1957. In basso si vede la Sacra famiglia di Cignaroli.

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