Eventi – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Fri, 02 Apr 2021 13:17:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Il Medioevo contemporaneo: I “Vattienti” di Nocera Terinese. https://www.cultmag.it/2021/04/02/il-medioevo-contemporaneo-i-vattienti-di-nocera-terinese/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/04/02/il-medioevo-contemporaneo-i-vattienti-di-nocera-terinese/#comments Fri, 02 Apr 2021 13:00:15 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1676 Vi racconto una storia: quella del paese Nocera Terinese e dei suoi abitanti.

Il piccolo borgo, situato in provincia di Catanzaro, è circondato da monti aguzzi lussureggianti di verde, quello dei suoi alberi e dei suoi rovi; mentre, qui e lì, si vedono pascoli di pecore e contadini.

Un borghetto ben curato, i cui abitanti sono ospitali e molto gentili, come spesso accade nei paesini dell’entroterra calabrese, che hanno fatto della loro cultura ancestrale un punto di forza.

A Nocera Terinese, durante la Settimana Santa, qualcosa accade perché le sue stradine si animano grazie alla presenza di “fuori sede” tornati a casa per le vacanze, di turisti e fotografi, che giungono da ogni dove per ammirare il famosissimo rito dei vattienti” (i flagellanti), che – con il loro sangue – tingono il paese di color rubino.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Appena si giunge a Nocera si ode dapprima il vociare dei fedeli e subito tra la folla appare la bellissima statua della Madonna con il Cristo portata a spalla dai membri della Confraternita, tutti vestiti di bianco e con il capo adorno da un serto. Con grande devozione e come sempre avviene durante le feste di paese, i confratelli fanno sfilare la Madonna per le stradine inerpicate del paese, procedendo con un andamento lento e posato, fermandosi di tanto in tanto per benedire gli abitanti, la cui devozione si scorge nel movimento incessante delle labbra bisbiglianti e dalle mani portate al petto, sulle spalle e alla fronte.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

In quella che potrebbe sembrare una normale processione pasquale, ecco spuntare all’improvviso il primo vattente.

Esce dal portone della propria casa, con al seguito la madre che con occhi ricchi d’amore, guarda il proprio figlio allontanarsi e iniziare il suo calvario.

L’uomo è vestito con una maglietta nera e con un pantaloncino della stessa tinta arrotolato al pube, porta in testa un panno tenuto da una pesante corona di spine, in una mano porta il cardo”un disco di sughero su cui sono fissate con uno strato di cera tredici schegge di vetro appuntite, volte a simboleggiare i dodici Apostoli e la figura di Cristo; infatti le punte sono di tute di egual altezza, fatta eccezione di una, più acuminata, volendo alludere al tradimento di Giuda.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Nell’altra il vattente mantiene in mano la rosa”, un secondo disco di sughero liscio con cui percuote le gambe. Esso è legato con un laccio a un giovane, trasfigurazione dell’Ecce Homo, proprio per sottolineare l’unitarietà delle due figure, ruolo solitamente ricoperto da un bambino con petto nudo e avvolto dalla vita in giù da un panno rosso che porta in braccio una croce rivestita da un nastro rosso e sul capo un serto.

Accanto a queste due figure vi è un terzo uomo, di solito un parente o un amico che versa sulle gambe del vattente un infuso di vino e aceto per disinfettare le ferite e prevenire la formazione di croste.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Il suono del cardo percosso sulla carne è netto e deciso, seguito subito dopo da rivoli di sangue che creano una pozza rossa ai piedi del vattente mentre i muscoli vibrano visibilmente per la tensione.

Senza che si possa prendere un attimo di respiro, in quest’atmosfera mistica e ancestrale, subito dopo si ode lo sfregare della rosa passata sulla gamba, il vino scivolare sulle gambe e ricadere sul lastricato e di nuovo il suono del cardo, della rosa e del vino… interrotto solo dall”inchino alla Madonna, per poi proseguire nella veloce corsa verso le diverse stazioni religiose del paese.

Mentre la Madonna prosegue il suo percorso, noi decidiamo di fare un giro per le stradine del paese e arriviamo alla grande piazza che è colma di sangue secco sulle pareti, sul lastricato e sulle scale.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Visitiamo la bellissima chiesa del paese, ma a un certo il suono del cardo sulla carne richiama nuovamente la nostra attenzione.

Usciamo di corsa e questa volta i vattienti sono tre, tutti piuttosto giovani; dopo aver impresso il loro “marchio” sulla chiesa, riprendono la corsa incessante, mentre le impronte dei piedi nudi sull’asfalto tradiscono la loro direzione.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Nel momento in cui i confratelli riportano la statua della Madonna all’interno della chiesa, un grande applauso risuona per le stradine del borgo, mentre i vattienti sono ormai rientrati in casa, dove ad attenderli sono le madri, le mogli e le famiglie , che nel frattempo hanno preparato un infuso caldo con rosmarino che lava la carne flagellata e cicatrizza i minuscoli fori sulla carne.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Finisce così la mia visita a Nocera Terinese e il mio viaggio in questa antica tradizione. Un avvenimento di forte impatto emotivo e spirituale, tanto che alla visione del primo vattente, non riuscì a scattare nemmeno una fotografia visto lo scorrere copioso del sangue sulle loro gambe, come se all’improvviso fossi stata trasportata nel Medioevo a mia insaputa; ma una volta realizzato ciò che stava accadendo è stato un momento unico ed emozionante.

Sono stata percorsa da un brivido, cercando di comprende sempre più affondo il motivo di tale flagellazione e di questo male auto-inflitto, ma poi capisci che ciò a cui stai assistendo, non è una finzione scenica, ma l’autenticità di un sentimento, quello religioso dei devoti, che comprensibile o meno che sia, adempiono ad un voto fatto per ottenere una grazia o perché già ottenuta.

Questa è la storia di antichi riti e credenza ancestrali, avvolte da un’aurea mistica che oscilla tra sacro e profano, così come diverse sono le teorie sull’origine del rito.

Storie di vita paesana e di riti popolari che continuano a vivere in un piccolo paesino calabrese, da visitare e condividere con i suoi abitanti, i noceresi, che di storie e leggende ne hanno da raccontare.

Testo e immagini ©Claudia Stritof. All rights reserved.
Articolo scritto in data 7/04/2015. Revisione del 2/04/2021.
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I 1000 volti di Lombroso. La mostra. https://www.cultmag.it/2020/01/03/i-1000-volti-di-lombroso-la-mostra/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/01/03/i-1000-volti-di-lombroso-la-mostra/#respond Fri, 03 Jan 2020 17:39:58 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6471 «Vi sono persone che vanno in busca di ingiurie come del sostentamento; lieti se riescono a farsi dare dell’asino o del villano per affollarsi poi ai tribunali, e ricavarne danaro – sicchè vogliono vi si distingua quanto vale il titolo di bue, quanto quello di ciarlatano o di becco e lo si faccia a loro pagare».

Cesare Lombroso

Ci sono storie ampiamente narrate, storie poco conosciute e, infine, c’è una terza categorie di storie, quella celate, le quali sottostanno alle oscillazioni del tempo e che balzano all’attenzione pubblica in momenti particolari, vuoi per una mostra, vuoi per una ricorrenza.

Ritratto di criminale atavico. L’iscrizione a tergo della fotografia riporta il reato: “Uccisore della moglie dormiente con tre colpi di scure nella bocca per gelosia. Condannato a 27 anni.” Fotografo non identificato, stampa all’albumina, fine XIX inizio XX secolo.

Una di queste storie riguarda Cesare Lombroso, padre dell’antropologia criminale e della teoria dell’atavismo, al cui lavoro è dedicata la mostra I 1000 volti di Lombroso. Il fondo fotografico dell’archivio del Museo di Antropologia criminale dell’Università di Torino presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino.

Cesare Lombroso, tra i più importanti spiritisti europei, collezionista e scienziato, fu il creatore della teoria dell’atavismo criminale, che confermò «in una grigia e fredda mattina di dicembre esaminando il cranio di Giuseppe Vilella», brigante morto nel 1864 nell’Ospedale di Pavia. Quel giorno nel cranio esaminato trovò «un’enorme fossetta occipitale mediana e un’ipertrofia del vermis analoga a quella che si trova nei vertebrati inferiori. Alla luce di queste anomalie mi apparve, tutto a un tratto, come una larga pianura sotto un infiammato orizzonte, risolto il problema della natura del delinquente, che doveva riprodurre così ai nostri tempi i caratteri dell’uomo primitivo giù giù fino ai carnivori». Per Lombroso criminali si nasce, non si diventa!

Molte furono le forme di evidenza da lui utilizzate per perorare la causa, una fra tutte, i tatuaggi, copiosamente presenti sui corpi dei criminali e su quelli delle “popolazioni primitive” e fu proprio dall’unione di queste tesi, che Lombroso stilò l’identikit del delinquente atavico, ufficializzando le ricerche nel libro L’uomo delinquente (1876), la cui quinta edizione, del 1896, venne corredata da un Atlante contenente centinaia di ritratti fotografici di criminali e alienati.

Ritratto di individuo maschile. Lombroso raccoglieva immagini acquistate sul mercato, inviategli da colleghi o da lui stesso commissionate al fine di trovare evidenze a supporto della teoria del delinquente nato o atavico. Federico Castellani, stampa all’albumina, 1880 ca.

La mostra ripercorre la storia controversa di Cesare Lombroso e la nascita delle sue teorie, affrontando un lungo e denso percorso che si snoda in 5 sezioni.

Nella sezione introduttiva è presente una selezione delle diverse tipologie di fotografie raccolte da Lombroso, una macchina fotografica, uno stereografo per il disegno del profilo del cranio, una maschera mortuaria in cera di un detenuto, scritti di varia natura  e un ritratto a disegno.

La prima sezione è invece dedicata all’immagine del folle e alla nascita dell’antropologia criminale, ove si trovano esposti ritratti di alienati e malati psichici, manufatti di “mattoidi” (ovvero alienati con estro artistico) e il calco in gesso del cranio di Alessandro Volta per illustrare il rapporto tra creatività e nevrosi, già esplicato in Genio e Follia del 1864.

La seconda sezione è dedicata al brigantaggio, al delitto politico e alla criminalità minorile, infatti non dimentichiamo che a supporto delle sue teorie sulla devianza, Lombroso fece largo uso delle fotografie scattate ai briganti nel Sud d’Italia, per poi allargare l’interesse ai ritratti di anarchici, rivoluzionari e alla delinquenza minorile.

Altra sezione è dedicata alla donna delinquente: fotografie di crani di prostitute, immagini scattate all’interno di bordelli, ritratti di prostitute napoletane e argentine, oltre a una serie di carte de visite di delinquenti russe. Studi poi pubblicati insieme al futuro genero, Guglielmo Ferrero, nel primo trattato dedicato alla delinquenza di genere.

Criminale tatuato, detenuto a Bilbao. Il tatuaggio, che aveva iniziato a diffondersi negli ambienti del carcere e della caserma, fu individuato da Lombroso come una prova dell’atavismo criminale poichè gli storici dell’antichità e gli antropologi ne attestavano la diffusione tra le popolazioni primitive.  Fotografo non identificato, stampa su carta aristotipica , inizio XX secolo.

È difficile comprendere le teorie di Lombroso,  ma è importante capire il contesto storico, socio-culturale e scientifico in cui queste sono nate e, se i meridionali e le donne, venivano demonizzati, naturalmente non potevano mancare studi dedicati anche al razzismo e all’omosessualità.

Infine, visto il largo uso che Lombroso fece della fotografia, l’ultima sezione è dedicata alla fotografia segnaletica e alla Polizia scientifica, infatti ricordiamo che nel 1886 Lombroso propose di introdurre tecniche di investigazione scientifica comprendenti l’uso della fotografia, accanto al segnalamento descrittivo, antropometrico e dattiloscopico dei delinquenti e dei presunti tali, tutti metodi che vennero accolti da Salvatore Ottolenghi.

Il 19 ottobre 1909, Cesare Lombroso muore a Torino, all’età di settantaquattro anni, donando il suo corpo alla scienza. All’epoca molti avvallarono la sua teoria dell’atavismo, successivamente confutata, come disse il prof. Giacomo Giacobini: «è la scienza, che con il suo metodo, mette continuamente in discussione le proprie teorie e i propri assunti e questo è un messaggio molto importante da trasmettere al pubblico. Fa parte di quella funzione dei musei, che in museologia scientifica noi chiamiamo educazione museale». Oggi a Torino sorge il dove sorge il Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso, fondamentale per trasmettere la memoria di ciò che è stato e riflettere sul presente.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.


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Die Antwoord: “l’avanguardia brutale nei colori di un ghetto dimenticato da Dio”. https://www.cultmag.it/2019/03/23/die-antwoord-lavanguardia-brutale-nei-colori-di-un-ghetto-dimenticato-da-dio/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/03/23/die-antwoord-lavanguardia-brutale-nei-colori-di-un-ghetto-dimenticato-da-dio/#respond Sat, 23 Mar 2019 07:00:28 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3972 I Die Antwoord, sudafricani di nascita, si definiscono una rap-rave crew, composta dal rapper Ninja, dalla vocalist Yo-Landi Vi$$er e da DJ Hi-Tek. 

Tre soggetti “strani” che hanno iniziato il loro cammino nel 2009, con l’uscita del primo disco $O$, il quale aveva già in grembo tutta la coerenza musicale e iconografica poi definitasi con maggior vigore nei brani successivi.

Ambienti sudici, graffiti sui muri, abiti surreali tra il post-umano, il manga e le gang violente di quartiere; pupille nere, tatuaggi, corpi eccessivamente magri, pelle bianca al limite dell’umano: questi sono i Die Antwoord e questi sono gli elementi che li contraddistinguono.

Un gruppo senza censure e senza inibizioni, così come si vive in una periferia di Città del Capo in Sud Africa. L’attaccamento alla terra natia è estremamente importante per la band, tanto che lo stesso Ninja ha  dichiarato: “io rappresento la cultura del Sud Africa. Bianchi, neri, inglesi, Afrikaans, Xhosa, Zulu, watookal. Io sono tutte queste diverse cose, tutta questa gente in una sola (…) persona”, un miscuglio di culture e tradizioni che in tutto e per tutto si riflette nel loro particolare slang.

Roger Ballen, Shack Scene, 2012, Still da video "I Fink You Freaky. ©Roger Ballen
Roger Ballen, Shack Scene, 2012. Still da video I Fink U Freeky. ©Roger Ballen

I Die Antwoord fin dalla loro formazione hanno portato avanti collaborazioni di assoluto rilievo con artisti di notevole spessore, in primis, con il fotografo Roger Ballen, con la quale è nato un sodalizio creativo di rara ed estrema perfezione.

Roger Ballen non ha certo bisogno di presentazioni, essendo uno dei fotografi maggiormente apprezzati dell’attuale scena artistica internazionale. La sua è una fotografia a primo impatto umile, che da risalto ai diversi tipi umani e ai contesti sociali della periferia africana a cui associa una potente simbologia ritualistica e primitivistica.

Le fotografie di Ballen sono dominate da una grande forza concettuale conferitagli anche dall’utilizzo ossessivo del bianco e nero contrastato, cifra stilistica che naturalmente non poteva non contrassegnare  il famoso video I Fink U Freeky dei Die Antwoord.

Roger Ballen, still da video I Fink U Frey, 2012. ©Roger Ballen
Roger Ballen, still da video I Fink U Frey, 2012. ©Roger Ballen

Il video, che ha segnato il debutto alla regia per Ballen, è caratterizzato da uno stile sporco, caotico e apparentemente confusionale, ambientato in uno spazio claustrofobico pieno di oggetti, scritte e disegni inconsueti che d’improvviso investono lo spettatore con una carica perturbante che spaventa e cattura lo sguardo al tempo stesso.

L’influenza di Ballen è stata decisiva nell’estetica del gruppo, e in particolare modo su Watkins Tudor Jones, in arte Ninja. Artista dalla formazione eclettica, Ninja non è solo un cantante e rapper ma anche stilista, scenografo, grafico, performer e, non ultimo, “scultore” di sex toys, come ben dimostra l’accattivante Evil Boy, disegnato per l’azienda giapponese Good Smile company.

I lavori di Ninja sono ben visibili nei video dei Die Antwoord: Enter The Ninjain cui il frontman ha realizzato una stanza total white con disegni alle pareti, tra cui anche il famoso Evil Toy; nel video Fatty Boom Boom è presente Ugly Boy, che non solo presenta una bellissima scenografia e fotografia di scena realizzata da Alexis Zabe, ma il video è ulteriormente arricchito da innumerevoli collaborazioni artistiche (Marilyn Manson, Cara Delevingne, Dita Von Teese ecc.).

Amanda Demme, Die Antwoord ©Amanda Demme

Altra importante collaborazione dei Die Antwoord è quella con Harmony Korine – sceneggiatore di Kids e Ken Park di Larry Clark – con la quale hanno dato vita a Umshini Wam [letteralmente portami la mitragliatrice], film in cui Ninja e Yolandi impersonano due gangster seduti su una sedie a rotelle, vestiti con pigiami stile pupazzetti giapponesi con mitra in mano.

In ultimo è da citare anche la fortunata collaborazione artistica con la fotografa Amanda Demme, la quale ha realizzato immagini solitarie e pensose.

Incredibilmente perfetti e impeccabili nelle loro esibizioni i Die Antwoord, sono stati definiti uno dei “progetti più atipici e perturbanti che abbiano percorso la scena musicale degli ultimi anni […] un’autentica scheggia genialmente impazzita nel pop contemporaneo” e, come ha affermato lo stesso Ninja, siamo “l’ultimo stile, l’avanguardia. L’odore di un futuro che nasce qui, nel sole brutale e nei colori di un ghetto dimenticato da Dio”.

Amanda Demme, Die Antwoord. ©Amanda Demme.
Amanda Demme, Die Antwoord. ©Amanda Demme.

Testo © Claudia Stritof.

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Gli Americani di Robert Frank https://www.cultmag.it/2017/01/10/gli-americani-di-robert-frank/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/01/10/gli-americani-di-robert-frank/#respond Tue, 10 Jan 2017 09:30:16 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4364 Jack Kerouac nella prefazione al libro Gli Americani di Robert Frank scrive: «Chi non ama queste immagini, non ama la poesia […] Robert Frank, svizzero, discreto, gentile, con quella piccola macchina fotografica che fa spuntare e scattare con una mano, ha saputo tirar fuori dall’America un vero poema della tristezza». Con queste semplici parole Kerouac esalta non solo la singolare tecnica dell’amico fotografo della Beat Generation – il quale coglie furtivamente immagini lungo le strade americane degli anni Cinquanta – ma sottolinea l’enorme valenza psicologica e sociologica che traspare dalle bellissime immagini del fotografo svizzero. Istanti fugaci di una vita che poi così speciale non è, ma che trova la sua vera bellezza e unicità nella semplice quotidianità dell’esistenza stessa.

Robert Frank, Rodeo, Detroit, Michigan, 1955

Il libro con il titolo Les Américains di Robert Frank è stato pubblicato per la prima volta nel 1958 in Francia dall’editore Robert Delpire, mentre l’anno seguente è edito dalla Grove Press negli Stati Uniti; il volume contiene scatti epifanici colti on the road  “quando il sole picchia forte […] e ti arriva la musica di un jukebox o quella di un funerale che passa. È questo che ha catturato Robert Frank nelle formidabili foto scattate durante il lungo viaggio attraverso qualcosa come quarantotto stati”. È il 1955 quando il fotografo si mette in viaggio a bordo di una macchina cigolante e malmessa con la moglie e i figli ed è in questa occasione – grazie a una borsa di studio ricevuta dalla Fondazione Guggenheim – che realizza un resoconto nudo e crudo di un’America contraddittoria colta nello scorrere incessante della vita di periferia: uomini e donne intenti a osservare un rodeo, stazioni di servizio, tram con a bordo i  passeggeri che curiosi osservano il fotografo, insegne di legno, manifesti pubblicitari, strade deserte e polverose, market di periferia, funerali e bande di paese. La serie composta da ottantatré scatti d’immensa intensità emotiva, si discosta da tutti i reportage fotografici precedenti, configurandosi invece come un racconto visivo tagliente e fedele al reale che non a caso è stato d’ispirazione per le successive generazioni di fotografi di reportage. Come ebbe a dire Elliott Erwitt in un’intervista: “Le immagini di Robert Frank potrebbero colpire qualcuno come sciatte – l’estensione dei toni non è giusta e cose del genere – ma sono di gran lunga superiori alle immagini di Ansel Adams per quanto riguarda la qualità, perché la qualità di Ansel Adams, se posso dirlo, è essenzialmente la qualità di una cartolina. Ma la qualità di Robert Frank è una qualità che ha qualcosa a che fare con ciò che egli sta facendo, con quella che è la sua mente”.

Robert Frank, Funerale, St.Helena, South Carolina, 1955

Il libro Gli Americani è diventato una pietra miliare dell’editoria fotografica perché le sue immagini riescono ad afferrare il trascorrere del tempo, nulla è eclatante nelle fotografie di Robert Frank ma tutto è rivelatorio: dai momenti di apatia a quelli di tristezza, da quelli di ilarità a quelli di gioia; non è l’istante decisivo di un qualche accadimento importante ma è la semplicità del qui e ora, del momento vissuto e colto empaticamente dal fotografo. Un concetto ben chiaro nella poetica di Robert Frank che afferma “le fotografie parlano di fotografia, dell’artista, delle sue immagini, di noi. Come tutta la grande arte che racconta la condizione umana, porta in sé l’identità dell’artista. Non sono vedute anonime. Non sono posti e gente anonimi. Sono le parole del poeta, sontuosamente ambigue e perfettamente bilanciate”. Le fotografie de Gli Americani, ancor oggi rimangono una testimonianza viva e un “poema per immagini” dedicato alla vita on the road e al fermento delle strade americane; fino al 19 febbraio l’intera serie sarà esposta alla Galleria Forma Meravigli di Milano, dov’è anche possibile ammirare, in una sala appositamente dedicata, stralci del testo originale e alcune delle edizioni pubblicate dal 1958 in poi, tra cui quella italiana con la copertina illustrata da Saul Steinberg. L’esposizione è accompagnata dall’omonimo libro pubblicato da Contrasto Editore.

Testo di Claudia Stritof pubblicato su Juliet art magazine online, 7 gennaio 2017.

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Gli Americani di Robert Frank
30 novembre 2016 – 19 febbraio 2017
Forma Meravigli
Via Meravigli 5, 20123 Milano
www.formafoto.it?utm_source=rss&utm_medium=rss

Robert Frank, Comizio politico, Chicago, 1956

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Piacere, Ettore Scola. Una mostra a Roma celebra il genio del grande cineasta. https://www.cultmag.it/2016/12/30/piacere-ettore-scola-una-mostra-a-roma-celebra-il-genio-del-grande-cineasta/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/12/30/piacere-ettore-scola-una-mostra-a-roma-celebra-il-genio-del-grande-cineasta/#respond Fri, 30 Dec 2016 18:19:15 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4268 Siamo nel 1938: Antonietta e Gabriele si muovono lentamente tra le lenzuola stese ad asciugare su un soleggiato terrazzo romano. Antonietta indispettita dalla presenza di Gabriele raccoglie i panni velocemente mentre l’uomo le rivolge molte domande. Lei è seria, le sue labbra serrate, le risposte secche e diffidenti. Ad un certo punto Gabriele le domanda: «Perchè non ridi mai?». Poi il silenzio…

Lei pensa che l’uomo sia andato via senza salutarla ma un attimo dopo Gabriele la abbraccia avvolgendola nel lenzuolo bianco. Un gioco innocente, fanciullesco che libera la donna da tutte le sue paure e subito Antonietta si lascia andare in una risata profonda.

Disegno Una giornata particolare, 1977

Questa è la famosissima scena interpretata da Marcello Mastroianni e da Sophia Loren nel film Una giornata particolare di Ettore Scola; un vero capolavoro di tecnica per i sapienti controluce, le carrellate veloci alternate a movimenti lenti e meditativi e per primi piani indagatori, ma soprattutto il film è un capolavoro di narrativa che racconta con schiettezza una storia di solitudine e amore.

Il 19 gennaio ricorre l’anniversario di morte del grande cineasta Ettore Scola e proprio in questi mesi  presso il Museo Carlo Bilotti di Roma si sta svolgendo la prima mostra postuma a lui dedicata: Piacere, Ettore Scola.

Riusciranno i nostri eroi, 1968. © Foto Roma’s Press Photo

L’esibizione curata da Marco Dionisi e Nevio de Pascalis non vuole essere solo un omaggio al genio creativo di Ettore Scola ma anche un viaggio sentimentale alla scoperta della sua vita e delle sue passioni.

La mostra si snoda in ben nove sezioni, divise cronologicamente e tematicamente, che vanno a comporre un percorso intenso nella vita del cineasta. Si parte dall’infanzia vissuta a Trevico, paese in provincia di Avellino, alla giovinezza romana e all’inizio della sua carriera da vignettista per il settimanale il Marc’Aurelio, si passa poi all’approdo in Rai e nel 1964 al suo debutto alla regista.

L’ultima sezione della mostra, quella tematica, è dedicata ai rapporti lavorativi e di amicizia che Scola ha instaurato durante la sua lunga carriera e alle sue molteplici passioni: quella per il teatro, quella per Roma,  il suo grande impegno civile e politico e infine particolare rilevanza è data al disegno, tra le più importanti passioni del regista.

Se permettete parliamo di donne, 1964. © Foto Angelo Frontoni

Il suo è un tratto netto e definito attraverso il quale ha rappresentato con umorismo e ironia gli anni da lui vissuti e in mostra non poteva mancare il suo primo disegno pubblicato sulla rivista Il Travaso delle idee del 1946, dieci disegni realizzati per diverse riviste dell’epoca, tra cui quelli per il Marc’Aurelio, i disegni dedicati al grande Totò e infine ben duecento disegni ispirati ai suoi film.

Non meno importanti sono le fotografie da lui scattate, immagini personali e inedite, a cui si aggiungono premi, oggetti di scena, locandine, carteggi e contributi audiovisivi di vario genere, tra cui l’intervista Maestro realizzata dai curatori della mostra che ripercorrere la vita di Ettore Scola: “un professionista eclettico, complesso, acuto e amaro osservatore del costume nazionale”.

La mostra, visitabile fino all’8 gennaio presso il Museo Carlo Bilotti di Roma, è anche un libro: «il primo volume monografico edito da Edizioni Sabinae con prefazioni di Silvia Scola, Walter Veltroni, Jean Gili e Piera Detassis».

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Piacere, Ettore Scola

A cura di: Marco Dionisi e Nevio de Pascalis

Museo Carlo Bilotti, Viale Fiorello La Guardia, Roma

17 settembre 2016 – 8 gennaio 2017

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Disegno Che strano Chiamarsi Federico, 2013

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Peggy Guggenheim: una donna fuori dagli schemi https://www.cultmag.it/2016/08/16/peggy-guggenheim-una-donna-fuori-dagli-schemi/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/08/16/peggy-guggenheim-una-donna-fuori-dagli-schemi/#respond Tue, 16 Aug 2016 13:52:52 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4095 Sono molte le donne che con coraggio e grande acume hanno avuto la forza di sovvertire le regole imposte dalla società a costo di sembrare spregiudicate. Una di queste è stata Peggy Guggenheim che con la sua “genuina follia” ha lasciato un segno indelebile nella storia contemporanea.

Nota ereditaria americana, Peggy si sposa giovanissima con il pittore Laurence Vail con il quale inizia un lungo percorso di crescita e conoscenza che la porta a cambiare radicalmente vita trasferendosi a Parigi. In questa città la Guggenheim vede emergere in totale libertà la sua stravagante personalità, stringendo intensi rapporti d’amicizia con letterati e artisti bohémien come Constantin Brâncuși, Samuel Beckett e Marcel Duchamp. In particolare è quest’ultimo a indirizzare la passione di Peggy verso l’arte d’inizio Novecento e a catapultarla nell’effervescente mondo artistico parigino. Per la Guggenheim quelli francesi sono anni felici, se pur destinati a durare poco a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale dalla quale è costretta a fuggire a causa delle sue origini ebraiche.

«A Marsiglia […] la moglie di Tanguy, Kay Sage, mi ha mandato un telegramma chiedendomi se ero disposta a pagare il viaggio di cinque artisti importanti […] Era molto complicato e un po’ pericoloso ma alla fine ci riuscì», con queste parole Peggy ricorda come fu effettivamente lei a portare in salvo alcuni artisti europei e le loro opere, infatti suoi erano i capolavori di Duchamp, Leger, Picabia, Dalì e del futuro marito Max Ernst, artisti che il regime nazista aveva definito “degenerati”. Per la prima volta i Surrealisti sbarcano in America, Peggy diventava la madre putativa degli europei facendoli esporre nella sua galleria Art of this Century, e accanto a loro un artista statunitense stava per diventare il protetto della giovane ereditiera: Jackson Pollock. Nasce l’Espressionismo astratto e la Guggenheim diventa la massima sostenitrice del gruppo, attirando su di sé aspre critiche, rafforzate dal recente divorzio con Ernst, tanto che la mostra degli americani viene interpretata come una vera e propria sfida al Surrealismo.

Nel 1948 Peggy viene invitata alla XXIV Biennale di Venezia per esporre al pubblico la sua straordinaria collezione che vede gli uni accanto agli altri artisti del calibro di Brâncuși, Giacometti, Kandinsky, Picasso, Mark Rothko, Arshile Gorky e naturalmente Pollock. Venezia affascina così tanto Peggy che decide di acquistare Palazzo Venier dei Leoni per trasferirsi definitivamente sul Canal Grande, per lei la città lagunare è un sogno a occhi aperti che solo con il trascorrere del tempo si trasforma in una prigione dorata, «il luogo adatto per venire a morire», immerso in una meravigliosa «sensazione di pace che accompagna la morte». Parole vere che denunciano una triste verità d’impotenza di fronte a un mondo che forse non era ancora pronto ad accogliere una donna così innovativa, soprattutto negli anni della ricostruzione post-bellica, quando miseria e disperazione erano il principale problema dell’Italia. Una donna dal grande carisma in questi mesi celebrata con la mostra Peggy Guggenheim in Photographscurata da Živa Kraus presso la Ikona Gallery di Venezia e realizzata in collaborazione con la Collezione Peggy Guggenheim, per il cinquecentesimo anniversario della nascita del Ghetto della città.

Man Ray (1890–1976) Peggy Guggenheim Parigi / Paris, ca. 1924 Stampa alla gelatina d’argento (cartolina) / Gelatin silver print (carte postale) Solomon R. Guggenheim Foundation, Venice Gift, Carla Emil and Rich Silverstein, 2011 © Man Ray Trust

Man Ray, Peggy Guggenheim, Parigi / Paris, ca. 1924. Solomon R. Guggenheim Foundation, Venice. Gift, Carla Emil and Rich Silverstein, 2011 © Man Ray Trust

L’esposizione si compone di 21 scatti realizzati dai più grandi artisti a lei contemporanei e da amici fidati come Man Ray che la raffigura con il bellissimo abito di Paul Poiret nel 1925, Berenice Abbott che invece la coglie giovane e speranzosa a Parigi, Rogi André che la raffigura in un abito futurista di Elsa Schiaparelli proprio nell’appartamento di Key Serge, mentre Peggy è raggiante con indosso l’abito di Mariano Fortuny nella foto di Ida Kar. Ma i fotografi che l’hanno immortalata sono tanti e nell’esaustiva mostra alla Ikona Gallery è possibile ammirare anche le immagini di Gianni Berengo Gardin, George Karger, André Kertész, Nino Migliori e molti altri artisti, che la raffigurano a lavoro, in atto di allestire una mostra o in momenti della sua vita privata. La mostra Peggy Guggenheim in Photographs è uno spaccato vivido e profondo nella vita di colei che forse più di tutti ha contribuito a cambiare la storia dell’arte del Novecento, perché Peggy è stata, sì, una collezionista lungimirante ma prima di tutto è stata una donna determinata con le sue gioie, i suoi dolori e i suoi amori.

Articolo di Claudia Stritof per Juliet art magazine (luglio 2016)

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Peggy Guggenheim in Photographs
Ikona Gallery, Venezia
10 giugno – 27 novembre 2016
www.ikonavenezia.com?utm_source=rss&utm_medium=rss
www.guggenheim-venice.it?utm_source=rss&utm_medium=rss

Hermann Landshoff (1905–1986) Peggy Guggenheim e un gruppo di artisti in esilio / Peggy Guggenheim with a Group of Artists in Exile New York, 1942

Hermann Landshoff (1905–1986)
Peggy Guggenheim e un gruppo di artisti in esilio / Peggy Guggenheim with a Group of Artists in Exile
New York, 1942

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Speciale Arte Fiera. La poesia negli scatti di Mustafa Sabbagh. https://www.cultmag.it/2016/02/08/speciale-arte-fiera-la-poesia-negli-scatti-di-mustafa-sabbagh/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/02/08/speciale-arte-fiera-la-poesia-negli-scatti-di-mustafa-sabbagh/#respond Mon, 08 Feb 2016 13:28:31 +0000 https://www.cultmag.it/?p=2977 Mustafa Sabbagh è nato ad Amman in Giordana, da madre italiana e padre palestinese, crescendo tra l’Europa e il Medio Oriente, il che gli ha permesso di realizzare un percorso lavorativo e artistico di tutto rispetto: laureato in architettura a Venezia, decide di trasferirsi a Londra, dove diventa assistente di Richard Avedon e contemporaneamente insegna presso la storica Central Saint Martins College of Art and Design. Torna in Italia, questa volta a Ferrara e collabora con le più importanti riviste di moda, ma “insofferente ad un appiattimento al modello fotografico della moda mainstream” decide dal 2005 di dedicarsi all’arte contemporanea “ricreando una sorta di contro-canone estetico al cui interno il punctum è la pelle – come diario dell’unicità dell’individuo”.

Le sue opere sono complessi tableau vivant che subito denunciano le approfondite conoscenze intellettuali del fotografo, non solo in merito alla storia del costume e della moda ma di storia dell’arte tout court, da quella fiamminga – dalla quale ha appreso l’amore per i dettagli e per la luce finemente utilizzata nelle sue composizioni nero su nero – a quella italiana, abbracciando un arco temporale che dal Cinquecento arriva fino ai giorni nostri, con sapienti rimandi anche al cinema, alla musica e alla letteratura.

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

Sabbagh introietta questa variegata conoscenza e allo stesso tempo la trascende, creando delle opere di grande compostezza classica, ma che denunciano tutta la contemporaneità stilistica ed estetica, che scardina stereotipi e canoni imposti dalla società. Le sue donne e i suoi uomini sono senza tempo, androgeni travolgenti che spesso catturano lo spettatore per la loro affascinante presenza ma che contemporaneamente lo terrorizzano, facendo dei contrasti e delle dissonanze un punto di forza della sua poetica, perché come ha più volte affermato il fotografo la vera bellezza, non deve essere rassicurante ma “ferisce”.

Mustafa Sabbagh è un poeta dell’immagine, dalla linea sinuosa e mai aggressiva, il quale progetta i suoi set minuziosamente, ammantando i suoi soggetti di una sacralità atemporale e facendoli piombare in un’eterna armonia cosmica in cui ad emergere è la “multidimensionalità del nero, la sovversione di codici di abito e di genere”, l’autenticità dell’individuo e la profondità dell’essere, “umanamente sacra, religiosamente profana”.

Subito si riconosce l’iconografia ben codificata di quella che potrebbe sembrare una Madonna con il Cristo morto sulle gambe, ma ecco che subito un particolare rimanda ad un’altra cultura e ad altre influenze, un copricapo dalle forme definite che farebbe pensare a provenienze asiatiche, un volto con una maschera antigas ma che ad osservarlo bene richiama gli occhi di un ape, oppure raffinati costumi cinquecenteschi con forme geometriche, pizzi e merletti sovrapposti, corsetti e gorgiere voluminose in tessuto, esclusivamente nere.

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

“Più che il lato nascosto, ciò che mi propongo di catturare è il lato più profondo, le inclinazioni più vere, la naturale essenza dell’uomo, libera dagli impedimenti e dagli stereotipi – che sono il contrario della verità. E la fotografia è il mezzo più veloce e democratico per arrivare alla mia verità. Certo, non sempre ci riesco. Certo, la varietà umana non si può contenere in uno scatto”. M. Sabbagh

Articolo di Claudia Stritof pubblicato su The Mammoth’s Reflex (3 febbraio 2016).

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Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

Sabbagh, Risen from the Dead, 40x50, Courtesy Traffic Gallery

Sabbagh, Risen from the Dead, 40×50, Courtesy Traffic Gallery

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Radio Alice: information to the people. https://www.cultmag.it/2016/02/08/radio-alice-information-to-the-people/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/02/08/radio-alice-information-to-the-people/#respond Mon, 08 Feb 2016 10:45:52 +0000 https://www.cultmag.it/?p=2955 Per molte persone il periodo compreso tra le scuole superiori e l’università è quello delle ideologie, dei sogni e delle rivoluzioni, perché in questo arco di tempo – così importante per la formazione di un individuo – si scoprono passioni e storie di un passato lontano.

Durante le scuole superiori una delle storie che mi appassionò di più fu quella di Radio Alice, emittente radiofonica di Bologna.

Era il 9 febbraio del 1976, quando dal civico 41 di via del Pratello alcuni ragazzi trasmisero per la prima volta, dalla frequenza fm 100.6 mhz, grazie a un semplice trasmettitore militare trovato da Maurizio Torrealta.

Ogni mattina la giornata iniziava con tranquillità con la diffusione di mantra e lezioni di yoga, per poi passare alla storica canzone del cantautore barese Enzo Del Re Lavorare con lentezza e ancora dopo particolari rubriche venivano intervallate dalla musica degli Area, di Coltrane, Inti-Illimani, Jimi Hendrix e Stockhausen.

Radio Alice permetteva a ognuno di raccontare le proprie passioni: leggere un libro, recitare delle poesie, oppure parlare dei propri problemi e dei propri sogni: c’era Bifo (Franco Berardi, creatore, tra le alte cose, della famosa rivista A/traverso), poi Paolo Ricci, e perchè no, Elio Baldini e Alessandra che alle otto di sera leggevano le favole per i bambini, mentre Stefano Saviotti e Luciano Cappelli conducevano la rubrica Rasente ai muri.

Un diario pubblico, condiviso con umiltà, così come umili e semplici erano quei ragazzi, spinti semplicemente dalla voglia di condividere, dalla voglia di raccontare esperienze vissute in prima persona e di urlare al mondo eterne verità come «libertà dal lavoro, libertà dallo sfruttamento, libertà dell’abbrutimento economico, libertà di fare l’amore».

radioalice

Radio Alice, via del Pratello 41, Bologna.

All’inizio erano in pochi, ma pian pano la radio iniziò a essere seguita con interesse da sempre più persone e «nel giro di qualche settimana la redazione esplode, arrivano ragazzi dalle scuole, femministe a cavallo della loro scopa, giovani operai delle fabbriche in lotta, e chi viene ha il diritto di prendere il microfono e dire quello che gli sembra urgente. Radio Alice è la voce di chi non ha mai avuto parola».

Radio Alice diventa un punto di riferimento per molti giovani, un modo per dire “io esisto” e voglio dire ciò che provo, cosa conosco oppure semplicemente raccontare come si vive da operai o da studenti; quali sono i dolori e quali le gioie, gridare che un mondo diverso può esistere, ma siamo noi a dover prendere coscienza del cambiamento.

La censura era assolutamente abolita: tutti potevano parlare al microfono e tutte le telefonate erano mandate in onda senza filtri, tanto che molto spesso i ragazzi ricevevano insulti e minacce, non esistevano pubblicità e i proventi derivano da eventi e concerti.

Passano un piano d’anni ed è subito il 1977!

Si proprio il ’77, anno caldo per l’Italia che è in piena protesta, e proprio a Bologna lo scontro tra forze dell’ordine e giovani si trasforma in un incubo con la morte del giovane studente Francesco Lorusso.

Radio Alice dà la notizia, segue la protesta da vicino attraverso i racconti di coloro che dalle cabine telefoniche chiamano alla radio per informare su cosa stava accadendo.

Francesco Lo Russo sorride (al centro il ragazzo con i baffi).

Francesco Lorusso sorride (al centro il ragazzo con i baffi).

Radio Alice, per le sue idee sovversive viene osteggiata e il 12 marzo 1977 la Polizia fa irruzione nella sede della radio con l’accusa di aver diretto gli scontri violenti all’indomani della morte di Lorusso.

Erano le 23.15 al microfono c’e Valerio Minnella, che chiede aiuto al collettivo giuridico di difesa. Nell’etere si odono le voci provenire da via del Pratello 41: «Attenzione, a tutti gli avvocati, a tutti i compagni che ci sentono, che si mettano in comunicazione con gli avvocati. Attenzione a tutti i compagni che ci sentono: tentino di mettersi in comunicazione con l’avvocato Insolera e con gli altri del Collettivo Giuridico di difesa» e ancora «c’e la polizia alla porta che tenta di sfondare, hanno le pistole puntate e io mi rifiuto di aprire, gli ho detto finche’ non calano le pistole e non mi fanno vedere il mandato.
 E poi siccome non calano le pistole gli ho detto che non apriamo finche’ non arriva il nostro avvocato.
 Puoi venire d’urgenza, per favore, ti prego d’urgenza, ti prego…
 c’hanno le pistole e i corpetti antiproiettile e tutte ste’ palle qua…
 via del Pratello 41..
ok! ti aspettiamo…».

La Polizia fa irruzione, senza aspettare gli avvocati e subito: «state con le mani in alto» mentre Valerio dice «sono entrati, sono qui, siamo con le mani alzate, stanno strappando il microfono» e poi il silenzio da Radio Alice, chiusa per volere della Procura della Repubblica.

Nulla esisterà più di Radio Alice e nulla sarà più lo stesso per quelli studenti nonostante venga riaperta una radio dal nome Collettivo 12 marzo.

F.1

Radio Alice, via del Pratello 41, Bologna.

Così nasceva e così veniva oscurata Radio Alice, radio libera italiana, che se pur per solo 13 mesi ha segnato la storia della radiofonia italiana, facendosi portatrice di una cultura dell’amore e della conoscenza libera e per tutti.

Tutto era finito, ma non gli insegnamenti di Radio Alice: ognuno doveva esser fiero di quel che era, della propria lingua e del proprio accento, ma soprattutto del proprio pensiero, essere fieri anche del proprio lavoro ma ricordarsi sempre di lavorare con lentezza / senza fare alcuno sforzo / chi è veloce si fa male e finisce in ospedale / in ospedale non c’è posto e si può morire presto / Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo / la salute non ha prezzo, quindi rallentare il ritmo / pausa pausa ritmo lento, pausa pausa ritmo lento.

Testo ©Claudia Stritof. All rights reserved.

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Radio-Alice

Via Zamboni, Bologna, 1977

Via Zamboni, Bologna, 1977

bologna1977-bn

 Tano D’Amico, Bologna, 1977

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Dall’ozio nascono i fior: Oblomov live https://www.cultmag.it/2016/01/22/dallozio-nascono-i-fior-oblomov-live/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/01/22/dallozio-nascono-i-fior-oblomov-live/#respond Fri, 22 Jan 2016 11:30:36 +0000 https://www.cultmag.it/?p=2906 IN BREVE  Chi: Oblomov Cosa: concerto Dove: Mikasa Club, via Emilio Zago 14, Bologna Ingresso: offerta libera con tessera AICS Quando: sabato 23 gennaio 2016 

Nelle ore di ozio il corpo si impossessa di una strana noia, quella che fa venir voglia di giacere comodamente su un divano a degustare il delizioso sapore dell’oblio. I pensieri vagano, le membra si intorpidiscono, lo sguardo è perso nel vuoto a scrutare un qualcosa che la mente non riesce a decifrare. Per alcuni l’ozio è il padre di tutti i vizi ma per altri la noia può generare creatività, così come è successo agli Oblomov, duo italo-russo che «tediati da freddi e noiosi pomeriggi san pietroburghesi trascorsi davanti alla tv» hanno trovato nella musica la loro ragion d’essere.

Un concentrato di sonorità cupe e riflessive attraverso cui Ilja Il’iĉ e Zachar  trasmettono suggestioni ricevute da ogni elemento incontrato e ascoltato casualmente nella vita di tutti i giorni. Dalla strada, dalla televisione, dalla radio, dalla musica e soprattutto dall’arte stessa, come è avvenuto per il loro primo album Sound of the soul, che non a caso prende il nome dall’omonima tela dell’artista Adriano Fida. Un album nato «dall’idea di mettere in musica i quadri del pittore calabrese, con particolare riferimento al tema dei miti classici greci, rivisitati in chiave postmoderna», ed ecco che il fascino ricevuto dalle tele e dalla pastosità del colore di Fida è trasformato dagli Oblomov in potenti suggestioni sonore. Il duo si è avvalso anche della collaborazione del regista Flavio Sciolè per la realizzazione dei visual, solitamente trasmessi durante i live su un vecchio televisore posto in sala.

Gli Oblomov suoneranno sabato 23 febbraio al Mikasa club di Bologna e per l’occasione sarà eccezionalmente presente l’artista Adriano Fida, da poco insignito del premio Expo Arte Italiana per la telaThe sound of the soul.

Articolo di Claudia Stritof pubblicato su Bolognacult (21 gennaio 2016).

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Adriano Fida, The sound of the soul, olio su tela, 60x80

Adriano Fida, The sound of the soul, olio su tela, 60×80

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Lullabit, una casa discografica al centro di Bologna con i connotati di una factory. https://www.cultmag.it/2015/12/30/lullabit-una-casa-discografica-al-centro-di-bologna-con-i-connotati-di-una-factory/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2015/12/30/lullabit-una-casa-discografica-al-centro-di-bologna-con-i-connotati-di-una-factory/#respond Wed, 30 Dec 2015 18:34:10 +0000 https://www.cultmag.it/?p=2400 Qualche giorno fa nel suggestivo spazio della Ono arte contemporanea è stato presentato Zois, disco d’esordio dell’omonima band bolognese, prodotto dall’etichetta Lullabit.

Gli Zois nascono dal felice incontro fra la graffiante voce di Valentina Gerometta e Stefano di Chio a cui successivamente si sono uniti il chitarrista Alessandro Betti e il batterista Ivano Zanotti. All’interno dell’album dieci canzoni inedite della band, che spaziano con naturalezza dal rock al pop, dal funk all’elettronica, e a cui si aggiunge una cover dal titolo Oro, indimenticabile successo di Mango, in cui vecchie melodie vengono plasmate per creare sonorità nuove e accattivanti.

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zois-20150817224849

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