Speciali – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Fri, 02 Apr 2021 13:17:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Il Medioevo contemporaneo: I “Vattienti” di Nocera Terinese. https://www.cultmag.it/2021/04/02/il-medioevo-contemporaneo-i-vattienti-di-nocera-terinese/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/04/02/il-medioevo-contemporaneo-i-vattienti-di-nocera-terinese/#comments Fri, 02 Apr 2021 13:00:15 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1676 Vi racconto una storia: quella del paese Nocera Terinese e dei suoi abitanti.

Il piccolo borgo, situato in provincia di Catanzaro, è circondato da monti aguzzi lussureggianti di verde, quello dei suoi alberi e dei suoi rovi; mentre, qui e lì, si vedono pascoli di pecore e contadini.

Un borghetto ben curato, i cui abitanti sono ospitali e molto gentili, come spesso accade nei paesini dell’entroterra calabrese, che hanno fatto della loro cultura ancestrale un punto di forza.

A Nocera Terinese, durante la Settimana Santa, qualcosa accade perché le sue stradine si animano grazie alla presenza di “fuori sede” tornati a casa per le vacanze, di turisti e fotografi, che giungono da ogni dove per ammirare il famosissimo rito dei vattienti” (i flagellanti), che – con il loro sangue – tingono il paese di color rubino.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Appena si giunge a Nocera si ode dapprima il vociare dei fedeli e subito tra la folla appare la bellissima statua della Madonna con il Cristo portata a spalla dai membri della Confraternita, tutti vestiti di bianco e con il capo adorno da un serto. Con grande devozione e come sempre avviene durante le feste di paese, i confratelli fanno sfilare la Madonna per le stradine inerpicate del paese, procedendo con un andamento lento e posato, fermandosi di tanto in tanto per benedire gli abitanti, la cui devozione si scorge nel movimento incessante delle labbra bisbiglianti e dalle mani portate al petto, sulle spalle e alla fronte.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

In quella che potrebbe sembrare una normale processione pasquale, ecco spuntare all’improvviso il primo vattente.

Esce dal portone della propria casa, con al seguito la madre che con occhi ricchi d’amore, guarda il proprio figlio allontanarsi e iniziare il suo calvario.

L’uomo è vestito con una maglietta nera e con un pantaloncino della stessa tinta arrotolato al pube, porta in testa un panno tenuto da una pesante corona di spine, in una mano porta il cardo”un disco di sughero su cui sono fissate con uno strato di cera tredici schegge di vetro appuntite, volte a simboleggiare i dodici Apostoli e la figura di Cristo; infatti le punte sono di tute di egual altezza, fatta eccezione di una, più acuminata, volendo alludere al tradimento di Giuda.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Nell’altra il vattente mantiene in mano la rosa”, un secondo disco di sughero liscio con cui percuote le gambe. Esso è legato con un laccio a un giovane, trasfigurazione dell’Ecce Homo, proprio per sottolineare l’unitarietà delle due figure, ruolo solitamente ricoperto da un bambino con petto nudo e avvolto dalla vita in giù da un panno rosso che porta in braccio una croce rivestita da un nastro rosso e sul capo un serto.

Accanto a queste due figure vi è un terzo uomo, di solito un parente o un amico che versa sulle gambe del vattente un infuso di vino e aceto per disinfettare le ferite e prevenire la formazione di croste.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Il suono del cardo percosso sulla carne è netto e deciso, seguito subito dopo da rivoli di sangue che creano una pozza rossa ai piedi del vattente mentre i muscoli vibrano visibilmente per la tensione.

Senza che si possa prendere un attimo di respiro, in quest’atmosfera mistica e ancestrale, subito dopo si ode lo sfregare della rosa passata sulla gamba, il vino scivolare sulle gambe e ricadere sul lastricato e di nuovo il suono del cardo, della rosa e del vino… interrotto solo dall”inchino alla Madonna, per poi proseguire nella veloce corsa verso le diverse stazioni religiose del paese.

Mentre la Madonna prosegue il suo percorso, noi decidiamo di fare un giro per le stradine del paese e arriviamo alla grande piazza che è colma di sangue secco sulle pareti, sul lastricato e sulle scale.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Visitiamo la bellissima chiesa del paese, ma a un certo il suono del cardo sulla carne richiama nuovamente la nostra attenzione.

Usciamo di corsa e questa volta i vattienti sono tre, tutti piuttosto giovani; dopo aver impresso il loro “marchio” sulla chiesa, riprendono la corsa incessante, mentre le impronte dei piedi nudi sull’asfalto tradiscono la loro direzione.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Nel momento in cui i confratelli riportano la statua della Madonna all’interno della chiesa, un grande applauso risuona per le stradine del borgo, mentre i vattienti sono ormai rientrati in casa, dove ad attenderli sono le madri, le mogli e le famiglie , che nel frattempo hanno preparato un infuso caldo con rosmarino che lava la carne flagellata e cicatrizza i minuscoli fori sulla carne.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Finisce così la mia visita a Nocera Terinese e il mio viaggio in questa antica tradizione. Un avvenimento di forte impatto emotivo e spirituale, tanto che alla visione del primo vattente, non riuscì a scattare nemmeno una fotografia visto lo scorrere copioso del sangue sulle loro gambe, come se all’improvviso fossi stata trasportata nel Medioevo a mia insaputa; ma una volta realizzato ciò che stava accadendo è stato un momento unico ed emozionante.

Sono stata percorsa da un brivido, cercando di comprende sempre più affondo il motivo di tale flagellazione e di questo male auto-inflitto, ma poi capisci che ciò a cui stai assistendo, non è una finzione scenica, ma l’autenticità di un sentimento, quello religioso dei devoti, che comprensibile o meno che sia, adempiono ad un voto fatto per ottenere una grazia o perché già ottenuta.

Questa è la storia di antichi riti e credenza ancestrali, avvolte da un’aurea mistica che oscilla tra sacro e profano, così come diverse sono le teorie sull’origine del rito.

Storie di vita paesana e di riti popolari che continuano a vivere in un piccolo paesino calabrese, da visitare e condividere con i suoi abitanti, i noceresi, che di storie e leggende ne hanno da raccontare.

Testo e immagini ©Claudia Stritof. All rights reserved.
Articolo scritto in data 7/04/2015. Revisione del 2/04/2021.
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Tatuaggi e fotografia: ritratti di una passione. https://www.cultmag.it/2021/03/06/tatuaggi-e-fotografia-ritratti-di-una-passione/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/03/06/tatuaggi-e-fotografia-ritratti-di-una-passione/#respond Sat, 06 Mar 2021 16:13:00 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1945 Morto il 30 giugno 2010, Herbert Hoffmann è stato uno dei grandi nomi del tatuaggio e non ha certo bisogno di presentazioni; meno conosciuta è invece la sua attività di fotografo, un lavoro svolto con costanza fino alla fine dei suoi giorni.

Al 2002 risale il suo BilderbuchMenschen – Tätowierte Passionen 1878-1952 (Living Picture Books – Portrait of a Tattooing Passion 1878-1952), libro fotografico edito nel 2002, che contiene più di quattrocento immagini in bianco e nero scattate in oltre trent’anni di onorata carriera.

Sfogliando le pagine di questo meraviglioso libro fotografico si percepisce subito lo spirito indagatore di Hoffmann e la sua bravura come tatuatore, che gli hanno permesso nel tempo di essere riconosciuto come grande artista e, soprattutto, di far accettare un’arte che prima di lui si riteneva disonorevole, sopratutto nella Germania nazionalsocialista, contesto culturale e storico in cui il giovane Hoffmann cresce.

Herbert Hoffmann, Emma und Oskar Manischewski, 1958, Vintage Printe, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Negli scatti da lui realizzati si nota come l’attenzione non vada al dettaglio del tatuaggio, come accade in molte riviste specializzate, ma alle persone, ai loro atteggiamenti e ai loro rapporti.

Ritratti attraverso cui Hoffmann, involontariamente, compie un attento studio antropologico della personalità degli uomini e delle donne che da lui si recavano per farsi tatuare; denotando come l’importante non sia il tatuaggio in sé, ma le storie narrate che si celano dietro di esso e che portano il proprio corpo a diventare una tela dipinta su cui sono impressi i segni d’esistenza.

Herbert Hoffmann, Ulla Hansen, 1968, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Herbert Hoffmann nasce a Stettino nel 1919, città della Pomerania anteriore tedesca. La sua passione verso i tatuaggi nasce molto presto, quando da bambino guardava con meraviglia e stupore i corpi tatuati delle persone che incontrava per strada: solitamente proletari e uomini del popolo, che con fierezza mostravano i propri tatuaggi, nonostante nella Germania nazista fosse proibito tatuarsi, perché simbolo di pericolosità e di marginalità sociale.

Fino al 1939 il giovane Hoffmann lavora come fornaio, attività che sarà costretto a cessare perché viene chiamato alle armi e costretto ad arruolarsi. Dopo essere stato fatto prigioniero dall’Armata Rossa nel ’44, una volta liberato, va ad Amburgo dove decide di farsi tatuare una croce, un’ancora e un cuore, simboli delle virtù teologali, al cui interno è anche un cartiglio con le parole fede, speranza e carità.

È il 1949: per il giovane trentenne il tatuaggio sulla mano destra sarà solo il primo di una lunghissima serie.

Herbert Hoffmann, Wilhelm Wedekämper, 1960, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Apprende il mestiere da autodidatta e sperimenta le prime opere su uomini anziani che si affidano alle sue mani ancora inesperte, ma piene di talento.

Nel 1955 ottiene la licenza di tatuatore e apre il suo studio ad Amburgo e, sempre in questo stesso periodo, Hoffmann inizia a scattare con la Rolleiflex.

I tatuaggi oggi sono diventati la normalità: molti i testi dedicati alla sua storia e ancor di più le mostre a loro dedicate: da quella dedicata al tatuatore Marco Manzo, che ha portato i corpi delle sue donne al Maxxi di Roma, oppure Tattoo – Storie sulla pelle al museo, al museo M9 di Mestre, fino a giungere alla più recente Sergei Vasiliev – Russian Criminal Tattoo alla ONO arte contemporanea di Bologna.

C’è stato un un tempo in cui questi segni incisi sulla pelle non erano ben visti dalla società, ma con estrema lucidità e grazie alla sua Rolleiflex, Hoffmann è riuscito a cogliere un vivido ritratto di un mondo rimasto ai margini per fin troppo tempo, narrando così un mondo in continua evoluzione.

Frau Wulkow, ca. 1967,29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Come Herbert Hoffmann ha detto: «chi è estraneo al tatuaggio spesso vede solo corpi deturpati o raramente abbelliti da tatuaggi incancellabili che evocano sofferenze fisiche e rischi di infezioni […] ma per chi si tatua non è così. Nessuno si tatua per diventare più brutto, nè per masochismo! Chiunque si tatua, lo fa per dare a se stesso qualcosa di più: per essere più bello, per sentirsi e apparire più forte, più sexy, per dare sfogo a un dolore, un lutto, una gioia, un amore, per scongiurare una paura, un pericolo o per gioco […] Ci si tatua per esprimere i sentimenti più seri e profondi e per quelli più superficiali e frivoli e… perchè no?, per rivendicare il proprio diritto al gioco. Non ho mai incontrato qualcuno che si tatuasse per farsi del male! Spesso i tatuaggi che vediamo per strada non sono proprio bellissimi, questo però dipende dalla disinformazione e dal cattivo gusto dilagante, non da un intento autolesionista. Oggi sono brutti i vestiti, la moda, le automobili, le case, la pittura… e sono brutti molti tatuaggi… solo un’informazione corretta e libera da pregiudizi e luoghi comuni può insegnare a distinguere quelli belli da quelli brutti e aiutare a capire che un bel tatuaggio è un tatuaggio che ti rende più bello…».

Negli uomini del popolo, Hoffmann trova la sua personale fonte di ispirazione, decidendo di farsi guidare da loro verso universi sconosciuti e microcosmi unici, ma tutti talmente importanti da dover essere eternizzati in uno scatto… e questo lo farà fino al 2010, giunto all’età di 90 anni.

Testo  ©Claudia Stritof. All rights reserved
Photo Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann
Articolo del 15/06/2015 aggiornato in data 6 marzo 2021.
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La Grande Madre https://www.cultmag.it/2020/05/10/la-grande-dea/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/05/10/la-grande-dea/#respond Sun, 10 May 2020 11:32:05 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6675 La Grande Madre è frutto di una riflessione intorno al concetto di donna intesa come entità creatrice e trasformatrice che dall’antichità, fino a oggi è stata venerata in molte culture in quanto fonte di vita e mediatrice con il divino.

Un giorno ero in visita alla Raccolta Lercaro di Bologna, dove sono conservate molte opere di eccelsa bellezza e grande profondità concettuale.

In questa giornata, dedicata alla festa della mamma, ho deciso di ripercorrere con la mente una visita svolta ormai molto tempo fa e fare il mio augurio attraverso l’arte.

Nellasala vi erano due opere di Eugenio Pellini La madre del 1897 e L’idolo del 1906, a cui si aggiunge una bellissima scultura di Jean Michel Folon, Femme-oiseau del 2002, collocata nella sala dedicata ai reperti fossili in virtù del suo materiale: pietra fossile del Marocco.

Da quel momento, osservando attentamente le tre figure di donna, ho iniziato a riflettere sull’aspetto spirituale che le tre opere sembravano esprimere, anche attraverso i loro titoli.

Eugenio Pellini, La Madre, 1897, bronzo. Courtesy Raccolta Lercaro, Bologna. ©Fotografia di Claudia Stritof

Inizialmente a colpirmi è stata la cromia dell’opera di Folon, seguita subito dopo dalla consapevolezza che le tre sculture rappresentassero tre diverse visioni di donna colte con una posizione delle braccia, atte a stringere il bambino nelle sculture di Pellini, e il grembo nella scultura di Folon.

La distanza concettuale e cronologica trasmessami dalle tre opere è stata colmata quando ho visto nelle pagine della biografia di Alberto Giacometti, la meravigliose scultura Femme qui marche.

È stato in questo preciso momento che ho notato come le sculture disposte in sequenza facessero emergere un ragionamento sulla forma femminile e sulla sua progressiva astrazione.

A questo punto le mie riflessioni sono sorte spontanee e tutte convergevano sull’idea de La Grande Dea, divinità primordiale che incarna il ciclo della vita.

Giunta a casa, iniziai a scrivere questo testo, accostando la riflessione, alla lettura di alcuni testi critico-letterari da cui estrapolai citazioni per potenziare il significato concettuale della mia riflessione.

Si sono dimostrate fondamentali per legare e rendere esplicito il significato della sequenza dando così una lettura nuova all’insieme e anche alle singole opere.

Apuleio ne L’Asino d’oro, racconto come la Dea, rivolgendosi allo sventurato Lucio, disse: «io sono colei che è la madre naturale di tutte le cose, signora e reggitrice di tutti gli elementi, la progenie iniziale dei mondi, il culmine dei poteri divini, regina di tutti coloro che popolano gli inferi […] Il mio no­me, la mia divinità sono adorati ovunque nel mondo, in di­versi modi, con svariate usanze e con molti epiteti».

Eugenio Pellini, L’Idolo, 1906, bronzo. Courtesy Raccolta Lercaro, Bologna. ©Fotografia Claudia Stritof

La Dea rappresenta la fertilità, intesa nella duplice accezione, materna e sensuale: nuda e in piedi simboleggia la sensualità, mentre seduta è simbolo di protezione e nutrimento.

«Come madre e signora della terra, la Grande Madre è il “trono in sé” […] su cui il bambino, nato da questo grembo siede in torno. Essere preso in grembo, così come essere portato al petto è un modo simbolico per esprimere l’adozione del bambino, e dell’uomo, da parte del femminile», ed è così che essa è raffigurata da Pellini nelle sculture La Madre e L’Idolo.

A sottolineare questa varietà è proprio Mefistofele, che nel primo atto della seconda parte del testo goethiano, racconta al Faust di un luogo in cui «vi sono auguste dive il cui regno è la solitudine; intorno ad esse non v’è né spazio né tempo, e non si può parlare di esse senza sentirsi turbati. Sono le Madri […] Le une sedute, altre in piedi e vaganti così come si trovano. Forme, continuo cambiamento di forma, eterna presenza del senso eterno! Immagini di tutte le creature…».

Il testo rende esplicito il polimorfismo della Grande Dea, dalle forme umane ma anche astratte, così come appare nelle sculture ieratiche di Giacometti sopracitata, divinità acefale la cui femminilità è visibile solo grazie all’enfatizzazione posta sugli organi sessuali. 

Jean Michel Folon, Femme-oiseau, 2002, pietra fossile del Marocco. Raccolta Lercaro, Bologna. ©Fotografia Claudia Stritof

La vulva così come «i seni minuscoli, appena accennati rafforzano la tendenza, inconscia, a trascendere la dimensione corporea elementare. Diviene particolarmente evidente il momento dell’astrazione, attraverso il quale si accentua il carattere significativo, simbolico, trasformatore del femminile […] Una dea raffigurata in tal modo non rappresenta solo una dea della fertilità, ma anche una dea della morte e dei morti. Essa è la madre terra, la madre della vita, che domina su tutto ciò che è scaturito e nato da lei e che ritorna a lei».

Ed ecco che la scultura Femme-oiseau di Folon chiude il cerchio: una dea maestosa con le braccia incrociate sotto il petto a mettere in evidenza i piccoli seni, la quale, vista frontalmente è una statua votiva di dea primigenia, come quelle che un tempo venivano custodite all’interno delle celle degli antichi templi, ma se vista lateralmente manifesta il suo aspetto mostruoso con la testa di uccello con piccoli occhi neri incavati e il becco rivolto al cielo. La Dea così rappresentata nell’antichità era la mediatrice tra cielo e terra, colei che trasportava le anime dei defunti e le proteggeva vegliando in solitudine negli inferi.

Siamo giunti alla fine di un percorso lungo e non poco travagliato ma che ha portato sicuramente ad una nuova riflessione intorno al concetto di madre.

Jean Michel Folon, Femme-oiseau, 2002, particolare. Raccolta Lercaro, Bologna. ©Fotografia Claudia Stritof

Se all’inizio mi era sembrato impossibile legare concettualmente e formalmente opere così diverse, oggi La Grande Dea ha assunto la sua forma definitiva, trovando nel mutamento della forma la chiave di volta per comprendere secoli di letture iconografiche sul tema della divinità e della Madre. Attraverso l’arte, il potere visionario senza tempo di artisti, che attraverso il simbolo della Madre, hanno manifestato il loro legame atavico che unisce l’uomo al divino.

Testi di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati
BIBLIOGRAFIA:
- Johann Wolfgang Goethe, Faust, liberliber [Progetto Manunzio], 2005.
- Robert Graves, La Dea Bianca. Grammatica storica del mito poetico, Apelphi Edizioni, 2009.
- Erich Neumann, La Grande Dea. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, Astrolabio Ubaldini editore, 1981.
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10 maggio 1933. Il rogo dei libri https://www.cultmag.it/2020/05/10/10-maggio-1933-il-rogo-dei-libri/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/05/10/10-maggio-1933-il-rogo-dei-libri/#respond Sun, 10 May 2020 09:39:38 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6642 Berlino, 10 maggio 1933. Joseph Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich, loda gli studenti universitari per aver bruciato i libri “contrari allo spirito tedesco”.

Quella stessa sera in 34 città tedesche altri Bücherverbrennungen (in italiano “roghi di libri”) hanno portato alla distruzione di oltre 25.000 volumi della letteratura internazionale.

Joseph Goebbels, nel suo lungo discorso introduttivo, disse: «l’era dell’intellettualismo ebraico è giunta ormai a una fine. La svolta della rivoluzione tedesca ha aperto una nuova strada… L’uomo tedesco del futuro non sarà più un uomo fatto di libri, ma un uomo fatto di carattere. E’ a questo scopo che noi vi vogliamo educare […] sarà il compito della nostra generazione. E quindi, a mezzanotte, giungerà l’ora di impegnarsi per eliminare con le fiamme lo spirito maligno del passato. Si tratta di un atto forte e simbolico, un atto che dovrebbe informare il mondo intero sulle nostre intenzioni. Qui il fondamento intellettuale della repubblica sta decadendo, ma da queste macerie la fenice avrà una nuova trionfale ascesa».

Una violenta e persuasiva arringa, durante una cerimonia che si svolse addirittura con accompagnamento musicale, proprio davanti a una delle più antiche sedi universitarie di Berlino.

Il fuoco arse le parole scritte in quei volumi e la cenere purificò gli astanti dalla barbarie bolscevica, giudaica e dagli insegnamenti liberisti della passata Repubblica di Weimar.

Libri e altri scritti considerati “anti-tedeschi” vengono bruciati sull’Opernplatz. Berlino, Germania, 10 maggio 1933. ©National Archives and Records Administration, College Park, MD

Il capitale di Marx, i volumi dei pensatori del socialismo, quelli inneggianti la Pace; opere di scrittori ebrei e degli oppositori del regime come Albert Einstein, Bertolt Brecht, Ernest Hemingway, Jack London o Tomas Mann vennero bruciati.

La messa al bando della letteratura depravata e dell’arte degenerata era già stata prevista in uno dei punti dell’ampio programma pubblicato nel 1920 dal Partito, per poi essere ribadito, tra il 1927 e il 1928, con la creazione della lega di combattimento per la cultura tedesca.

Per attuare la purificazione intellettuale era indispensabile colpire non solo la letteratura, ma tutte le arti: la musica contemporanea, definita un “caos atonale” e rappresentata da Arnold Franz Walther Schönberg; la fotografia di August Sander, di cui il nazismo confiscò il libro Uomini del XX secolo, distruggendo i negativi e, non in ultimo, parte dell’arte figurativa come il Cubismo, l’Espressionismo, il Dadaismo e l’Impressionismo.

Le opere sequestrate dai Nazisti, il 19 luglio 1937 vennero esposte nella mostra Arte Degenerata, il cui intento denigratorio si evince dall’allestimento, caratterizzato dall’accostamento dei quadri con le fotografie di malati fisici, psichici e testi di antropologia criminale.

Il “rogo dei libri” non fu dimenticato e la sua ombra risorge laddove ogni artista innalzi il libro a oggetto di riflessione estetica.

Claudio Parmiggiani, Campo de’ Fiori, Biblioteca di San Giorgio in Poggiale, Bologna, 2010. Fonte: amo

L’opera Campo dei fiori di Claudio Parmiggiani nella chiesa di San Giorgio in Poggiale a Bologna, che oggi conserva oltre 100.000 libri, consiste in una pila di volumi bruciati dal fuoco, schiacciati da una campana immobile, mentre sulla parete le ‘delocazioni’ (tracce fuligginose di libri ormai arsi), ci fanno riflettere sull’assenza e sull’importanza della cultura, indispensabile per la crescita di ogni individuo.

La metafora del silenzio e del vuoto è stata utilizzata anche dall’artista israelita Micha Ullman in The Library, installazione collocata nell’attuale Bebelplatz di Berlino, proprio lì dove avvenne il rogo voluto da Goebbels.

Al di sotto di una lastra trasparente vi è una grande biblioteca di 50 mq con gli scaffali vuoti. Un silenzio assordante che oggi vuole stimolare la nostra riflessione e costringe a ricordare il drammatico attacco alla cultura che venne sferrato alla collettività dal Nazismo.

Una metafora semplice e immediata, che spinge a meditare sul vuoto lasciato nella nostra stessa anima dopo la distruzione di importanti capolavori letterari e che inevitabilmente fa tornare alla mente la frase del poeta  Heinrich Heine: «là dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini». Sagge e veritiere parole.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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Il padre dell’istantanea e dell’impossibile. https://www.cultmag.it/2020/01/08/il-padre-dellistantanea-e-dellimpossibile/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/01/08/il-padre-dellistantanea-e-dellimpossibile/#respond Wed, 08 Jan 2020 08:15:00 +0000 http://claudiastritof.wordpress.com/?p=99  “Non intraprendere un progetto a meno che non sia manifestamente importante e quasi impossibile”.

 – Edwin Land

Edwin Land (1909-1991), secondo per numero di brevetti solo a Thomas Edison, è stato definito l’ultimo dei grandi geni, inventore e fisico americano, ha rivoluzionato il concetto di fotografia con la creazione della Polaroid.

Nel 1926 Edwin Land lascia l’Università di Harvard e trascorre molte ore nella biblioteca pubblica di new York, sfogliando libri di fisica e ottica. Land è curioso, vorace di conoscenza e trae grande ispirazione da queste letture, in particolare dal testo di ottica di Robert W. Wood, la cui prima edizione uscì nel 1905, mentre la seconda nel 1915.

L’idea venne a Land quando rimase abbagliato dai fari di una macchina mentre passeggiava lungo un viale newyorchese, pensando che per evitare incidenti, dovesse creare un polarizzatore sottile ed economico. Dopo diversi esperimenti, mette a punto un foglio polarizzante, chiamato Polaroid, costituito da una pellicola di plastica in cui erano incorporati numerosi cristalli di erapatite.

Pochi anni dopo Land fondò la Polaroid Corporation, società creata insieme al professore di Harvard, George Wheelwrigh, che attirò l’attenzione di molte industrie come General Motors, General Electric ed Eastman Kodak, che nel 1934 divenne il primo cliente di Land.

Aprile 1947, Edwin H. Land dimostra il funzionamento della Polaroid.
Image ©Baker Library/Harvard Business School

La nascita della macchina fotografica di plastica è legata a un aneddoto personale, infatti, dopo un intero giorno trascorso a fare fotografie con la famiglia in vacanza a Santa Fe, Jennifer, la più piccola delle figlie di Land, ingenuamente chiese al padre come mai non fosse possibile vedere subito le immagini scattate. Ai tempi d’oggi la domanda apparirebbe assolutamente banale e scontata, ma all’epoca fu una domanda geniale che scatenò una vera e propria rivoluzione tecnologica.

Land in quel momento ebbe l’illuminazione e nel giro di un’ora chiamò il proprio avvocato per avviare le pratiche per brevettare una macchina in grado di sviluppare una fotografia positiva in sessanta secondi, grazie a pellicole dotate di un rivestimento fotosensibile a cui venivano aggiunte sostanze necessarie per lo sviluppo.

Leggenda o realtà, si racconta che durante una notte tempestosa, mentre Land si trovava all’Hotel Pennsylvania di New York scattò la sua prima istantanea.

Aveva 37 anni e prima di inventare la Polaroid, aveva già messo a punto altre interessanti scoperte: le lenti polarizzate, i filtri ottici, i visori notturni e nel 1938 annuncia anche la creazione del Vectograph, un sistema 3-D utilizzato in campo militare.

Land è stato un uomo estremamente creativo e innovativo, non solo nelle sue invenzioni, ma anche nel modo di commercializzarle, come avvenne quando invitò i dirigenti della Società Optical nella sala di un albergo, dove il bagliore del sole riflesso sul davanzale colpiva a sua volta un acquario in cui i pesci rossi erano al momento invisibili, Land consegnò loro un foglio polarizzato e guardandoci attraverso essi furono in grado di focalizzare i pesci. Le lenti polarizzate vennero subito acquistate per creare i primi occhiali con lenti polarizzate.

La prima Polaroid Land Camera fu venduta il 26 novembre 1948 al Jordan Marsh, un grande magazzino di Boston, che qualche ora dopo registrò il boom di vendite.

Il lavoro di Land negli anni continuò incessantemente: la Polaroid non solo venne amata da fotoamatori ma anche da grandi artisti che la adottarono come loro mezzo espressivo, tanto che fu lo stesso Land a raccogliere e acquistare molte fotografie di artisti famosi, talune volte scambiandole o barattandole macchine fotografiche.

Giunse a raccogliere 25.000 immagini tra cui quelle di Andy Warhol, Robert Frank e Ansel Adams, quest’ultimo anche consulente della ditta.

Il ’72 è invece l’anno di nascita della Polaroid SX-70, la prima macchina istantanea a colori che utilizzava un rullino di formato quadrato.

Test photograph of Meroë Marston Morse scatta una fotografia nei laboratori Polarois, 1940 ca. ©Polaroid Corporation Records. BAKER LIBRARY HISTORICAL COLLECTIONS, Harvard Business School.

Land fu una persona molto stravagante, sempre innovativa e mai ordinaria. Ottimista di natura, era dotato di grande sensibilità artistica e ingegno. Era alto meno di un metro e ottanta e si contraddistingueva per il ciuffo nero e gli occhi intensi. Sempre sopra le righe, come era solito ripetere: «se vale la pena di fare qualcosa, allora è meglio farla in eccesso».

Non è un caso che un grande visionario come Steve Jobs abbia dichiarato la sua ispirazione alla figura di Edwin Land. Abbandonando l’università, avviò da solo la sua fortuna aprendo due industrie e collaborato con politici e governatori. Edwin Land è un esempio straordinario di uomo che ha cambiato il suo percorso personale e dato avvio a una nuova grande epoca.

La favola creata da questo grande uomo stava per terminare nel febbraio 2008, quando giunge il triste annuncio che terminerà la produzione delle pellicole istantanee, dopo che nel 2007 era già cessata la produzione delle fotocamere.

Nei primi mesi del 2010 qualcosa è cambiato: il marchio è stato rilevato da un gruppo di dodici tecnici, ingegneri e chimici che hanno ricominciato la produzione delle pellicole, sono stati riaperti gli stabilimenti a Enschede, al confine tra l’Olanda e la Germania.

Il progetto è rinato con il nome di Impossible Project, riunendo dieci dei migliori ex dipendenti Polaroid che hanno condiviso la passione e la fede “in un sogno impossibile”, riuscendo a creare una nuova pellicola con lo scopo di portar in salvo milioni di Poaroid ancora funzionanti ma non più utilizzate.

APPROFONDIMENTI UTILI:

The Story of Edwin Land, The Harvard Gazette.

Archive Edwin Land, BAKER LIBRARY HISTORICAL COLLECTIONS.

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I 1000 volti di Lombroso. La mostra. https://www.cultmag.it/2020/01/03/i-1000-volti-di-lombroso-la-mostra/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/01/03/i-1000-volti-di-lombroso-la-mostra/#respond Fri, 03 Jan 2020 17:39:58 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6471 «Vi sono persone che vanno in busca di ingiurie come del sostentamento; lieti se riescono a farsi dare dell’asino o del villano per affollarsi poi ai tribunali, e ricavarne danaro – sicchè vogliono vi si distingua quanto vale il titolo di bue, quanto quello di ciarlatano o di becco e lo si faccia a loro pagare».

Cesare Lombroso

Ci sono storie ampiamente narrate, storie poco conosciute e, infine, c’è una terza categorie di storie, quella celate, le quali sottostanno alle oscillazioni del tempo e che balzano all’attenzione pubblica in momenti particolari, vuoi per una mostra, vuoi per una ricorrenza.

Ritratto di criminale atavico. L’iscrizione a tergo della fotografia riporta il reato: “Uccisore della moglie dormiente con tre colpi di scure nella bocca per gelosia. Condannato a 27 anni.” Fotografo non identificato, stampa all’albumina, fine XIX inizio XX secolo.

Una di queste storie riguarda Cesare Lombroso, padre dell’antropologia criminale e della teoria dell’atavismo, al cui lavoro è dedicata la mostra I 1000 volti di Lombroso. Il fondo fotografico dell’archivio del Museo di Antropologia criminale dell’Università di Torino presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino.

Cesare Lombroso, tra i più importanti spiritisti europei, collezionista e scienziato, fu il creatore della teoria dell’atavismo criminale, che confermò «in una grigia e fredda mattina di dicembre esaminando il cranio di Giuseppe Vilella», brigante morto nel 1864 nell’Ospedale di Pavia. Quel giorno nel cranio esaminato trovò «un’enorme fossetta occipitale mediana e un’ipertrofia del vermis analoga a quella che si trova nei vertebrati inferiori. Alla luce di queste anomalie mi apparve, tutto a un tratto, come una larga pianura sotto un infiammato orizzonte, risolto il problema della natura del delinquente, che doveva riprodurre così ai nostri tempi i caratteri dell’uomo primitivo giù giù fino ai carnivori». Per Lombroso criminali si nasce, non si diventa!

Molte furono le forme di evidenza da lui utilizzate per perorare la causa, una fra tutte, i tatuaggi, copiosamente presenti sui corpi dei criminali e su quelli delle “popolazioni primitive” e fu proprio dall’unione di queste tesi, che Lombroso stilò l’identikit del delinquente atavico, ufficializzando le ricerche nel libro L’uomo delinquente (1876), la cui quinta edizione, del 1896, venne corredata da un Atlante contenente centinaia di ritratti fotografici di criminali e alienati.

Ritratto di individuo maschile. Lombroso raccoglieva immagini acquistate sul mercato, inviategli da colleghi o da lui stesso commissionate al fine di trovare evidenze a supporto della teoria del delinquente nato o atavico. Federico Castellani, stampa all’albumina, 1880 ca.

La mostra ripercorre la storia controversa di Cesare Lombroso e la nascita delle sue teorie, affrontando un lungo e denso percorso che si snoda in 5 sezioni.

Nella sezione introduttiva è presente una selezione delle diverse tipologie di fotografie raccolte da Lombroso, una macchina fotografica, uno stereografo per il disegno del profilo del cranio, una maschera mortuaria in cera di un detenuto, scritti di varia natura  e un ritratto a disegno.

La prima sezione è invece dedicata all’immagine del folle e alla nascita dell’antropologia criminale, ove si trovano esposti ritratti di alienati e malati psichici, manufatti di “mattoidi” (ovvero alienati con estro artistico) e il calco in gesso del cranio di Alessandro Volta per illustrare il rapporto tra creatività e nevrosi, già esplicato in Genio e Follia del 1864.

La seconda sezione è dedicata al brigantaggio, al delitto politico e alla criminalità minorile, infatti non dimentichiamo che a supporto delle sue teorie sulla devianza, Lombroso fece largo uso delle fotografie scattate ai briganti nel Sud d’Italia, per poi allargare l’interesse ai ritratti di anarchici, rivoluzionari e alla delinquenza minorile.

Altra sezione è dedicata alla donna delinquente: fotografie di crani di prostitute, immagini scattate all’interno di bordelli, ritratti di prostitute napoletane e argentine, oltre a una serie di carte de visite di delinquenti russe. Studi poi pubblicati insieme al futuro genero, Guglielmo Ferrero, nel primo trattato dedicato alla delinquenza di genere.

Criminale tatuato, detenuto a Bilbao. Il tatuaggio, che aveva iniziato a diffondersi negli ambienti del carcere e della caserma, fu individuato da Lombroso come una prova dell’atavismo criminale poichè gli storici dell’antichità e gli antropologi ne attestavano la diffusione tra le popolazioni primitive.  Fotografo non identificato, stampa su carta aristotipica , inizio XX secolo.

È difficile comprendere le teorie di Lombroso,  ma è importante capire il contesto storico, socio-culturale e scientifico in cui queste sono nate e, se i meridionali e le donne, venivano demonizzati, naturalmente non potevano mancare studi dedicati anche al razzismo e all’omosessualità.

Infine, visto il largo uso che Lombroso fece della fotografia, l’ultima sezione è dedicata alla fotografia segnaletica e alla Polizia scientifica, infatti ricordiamo che nel 1886 Lombroso propose di introdurre tecniche di investigazione scientifica comprendenti l’uso della fotografia, accanto al segnalamento descrittivo, antropometrico e dattiloscopico dei delinquenti e dei presunti tali, tutti metodi che vennero accolti da Salvatore Ottolenghi.

Il 19 ottobre 1909, Cesare Lombroso muore a Torino, all’età di settantaquattro anni, donando il suo corpo alla scienza. All’epoca molti avvallarono la sua teoria dell’atavismo, successivamente confutata, come disse il prof. Giacomo Giacobini: «è la scienza, che con il suo metodo, mette continuamente in discussione le proprie teorie e i propri assunti e questo è un messaggio molto importante da trasmettere al pubblico. Fa parte di quella funzione dei musei, che in museologia scientifica noi chiamiamo educazione museale». Oggi a Torino sorge il dove sorge il Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso, fondamentale per trasmettere la memoria di ciò che è stato e riflettere sul presente.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.


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Diane Arbus: vita e morte di un genio della fotografia https://www.cultmag.it/2019/12/22/diane-arbus-vita-e-morte-di-un-genio-della-fotografia/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/12/22/diane-arbus-vita-e-morte-di-un-genio-della-fotografia/#respond Sun, 22 Dec 2019 17:08:00 +0000 http://claudiastritof.wordpress.com/?p=155 «Penso che ci sia molta gente orribile nel mondo, e diventerà terribilmente difficile fotografare tutti, così se fotografo alcuni tipi generali di esseri umani ognuno li riconoscerà. Fu la mia insegnante, Lisette Model, che mi rese chiaro definitivamente che più specifici si è, più generali si sarà».

—  Diane Arbus

Da un po’ di tempo ormai mi sto dedicando alla lettura delle biografie di coloro che ritengo essere personaggi affascinanti, vuoi per la loro arte, vuoi per la loro vita, ma credo che si possano trarre molti insegnamenti utili comprendendo la forza e il coraggio di chi ha vissuto prima di noi.

Una biografia che consiglio di leggere è quella di  Diane Arbus, un’eccelsa fotografa, che fu d’ispirazione a numerosissimi artisti, uno tra tutti, Stanley Kubrick; infatti il regista si ispirò proprio a una sua fotografia per dar vita alle due famose gemelle di Shining.

La biografia scritta da Patricia Bosworth è veramente una lettura molto interessante se si vuole conoscere la vita della fotografa, anche perché lavoro completo di interviste e documenti originali consultati in prima persona dalla biografa, che ha deciso di arricchirla con dialoghi di amici, mentori e conoscenti di Diane.

© The Estate of Diane Arbus

Richard Avedon scrisse: «tutto quello che le accadeva sembrava misterioso, decisivo e inimmaginabile, naturalmente non per lei. E questo capita solo ai geni».

Diane Arbus amica dei più grandi artisti ma donna solitaria dallo sguardo vorace di verità, ha fatto del difetto una virtù, non camuffandolo ma facendolo emergere in tutta la sua imperfezione, perché «quello che cerco di descrivere è che è impossibile uscire dalla propria pelle ed entrare in quella altrui. La tragedia di qualcun altro non è mai la tua stessa» e ognuno di noi ha le proprie piccole ferite e le proprie piccole gioie che con il passare del tempo ci formano e vengono trasposte sulla propria epidermide o riflesse nei propri comportamenti.

Diane Nemerov, nasce a New York il 14 marzo 1923, da una ricca famiglia ebrea di New York, proprietaria dei grandi magazzini Russek’s. L’incontro con quello che diventerà il futuro marito, Allan Arbus, avviene molto giovane, alla sola età di 14 anni.

Durante la seconda guerra mondiale Allan lavora come fotografo per l’esercito, carriera che Diane e il marito decideranno di intraprendere una volta finito il conflitto bellico. All’inizio Diane fa da assistente ad Allan, ma ben presto grazie agli insegnamenti di Berenice Abbott, di Aleksej Česlavovič Brodovič e infine di Lisette Model, affina la tecnica e apprende l’arte della fotografia.

È soprattuto con Lisette che Diane trova la sua personale cifra stilistica e si avvicina ai primi soggetti da cui era particolarmente attratta, superando la sua grande timidezza.

© The Estate of Diane Arbus

Diane è ormai dedita alla fotografia e scatta incessantemente con una Nikon 35mm. In questo periodo conosce Kubrick, all’epoca un fotografo alle prime armi, poi Robert Frank e la moglie Mary, fino a quando nel 1960, entra in contatto con l’Hubert’s Museum, dove si esibivano molti personaggi particolari, di cui la fotografa diventa amica e confidente.

Il rapporto con Allan si incrina e Diane inizia la sua vita da sola, facendo sempre nuove scoperte, conosce anche Emile De Antonio, che le mostra il film Freaks di Tod Browning, uscito nel 1932, che per lei è una rivelazione.

Le sue immagini fanno fatica a essere pubblicate, se non grazie all’appoggio dell’amico Marvin Israel, all’epoca appena nominato art director di Harper’s Bazaar.

Chi conosce la biografia di Diane Arbus sa bene, che lei è anche conosciuta per l’uso che ha fatto della Rolleiflex, che utilizza dal 1962, vincendo l’anno successivo la sua prima borsa di studio data dal Guggenheim, fino al 1965 quando tre sue immagini vengono esposte in una mostra collettiva al MoMA, e ancora, nel ’67 trenta immagini esposte nella mostra New Documents.

La Arbus inizia a fare scuola e molti giovani fotografi apprezzano il suo stile e amano i suoi soggetti: prostitute, emarginati, giocolieri, gemelli, bambini, nudisti e disabili, tutti ritratti che le hanno fatto attribuire il soprannome di “fotografa dei mostri”, un appellativo che lei odiava, ma che sui malgrado non è mai riuscita a cancellare.

Si racconta che le modelle avevano paura a farsi ritrarre da lei perché riusciva a cogliere un’immagine senza veli, diretta, reale e talvolta anche crudele di chi si poneva davanti al suo obiettivo. Un ritratto vacillante tra repulsione e familiarità, così come ha confermato Viva, famosa modella degli anni ’60, quando la Arbus la colse nuda sul divano con gli occhi capovolti quasi come fosse svenuta.

New Documents allestimento della mostra tenutasi al MoMa di New York dal 28 febbraio al 7 maggio 1967. ©MoMa

Donna coraggiosa e grandissima fotografa, Diane si suicida il 26 luglio 1971, ingerendo un’ingente dose di barbiturici e tagliandosi le vene nella sua vasca da bagno, è stata la prima donna americana a esporre alla Biennale di Venezia, esattamente un anno dopo la sua morte. A celebrarla come grande maestra della fotografia altre mostre importanti da citare, come la mostra monografica ad Aperture e “Diane Arbus Revelations” del 2004.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati

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APPROFONDIMENTI CONSIGLIATI:

Il bellissimo archivio di Diane Arbus è conservato al Metropolitan Museum di New York.
Patricia Bosworth, Diane Arbus, A Biography, New York, Newton & Co.
Diane Arbus, An Aperture Monograph, New York, Aperture 1972.
Diane Arbus, Magazine Work, New York, Aperture 1984.
Diane Arbus, Family Albums, Yale University Press 2003.
Il film Fur: un ritratto immaginario di Diane Arbus di Steven Shainberg (2006).
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Gian Maria Volonté: intellettuale eretico https://www.cultmag.it/2019/12/19/gian-maria-volonte-eretico-intellettuale/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/12/19/gian-maria-volonte-eretico-intellettuale/#respond Thu, 19 Dec 2019 08:24:29 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6273 Uomo di grande acume e di misteriosa bellezza, Gian Maria Volonté è stato un attore di eccelsa bravura. Impossibile dimenticarlo nei panni di Ramon Rojo nel film Per un pugno di dollari di Sergio Leone, in quelli di El Indio in Per qualche dollaro in più, dell’imprenditore Enrico Mattei, del mafioso Lucky Luciano, di Aldo Moro, Renato Braschi, Michelangelo e Caravaggio.

Attore di innato talento, affinato da uno studio «matto e disperatissimo», Volonté è stato anche un attento osservatore del mondo a lui contemporaneo e un coraggioso contestatore. Nato a Milano il 9 aprile 1933, fin da giovane dimostra avere un’anima ribelle: abbandona la scuola per svolgere diversi lavoretti, fino a quando – dopo un breve soggiorno in Francia per raccogliere mele – si iscrive all’Accademia Internazionale d’Arte Drammatica di Roma, sotto l’insegnamento di Orazio Costa.

A Cavallo della Tigre di Luigi Comencini, 1961. Foto di Enrico Santelli ©Archivio fotografico della Cineteca Nazionale, Roma

In questo periodo recita in molti teatri, crede nelle sue potenzialità e interpreta personaggi drammatici e tremendamente reali; è espressivo ma non manierista e, se il teatro è la sua casa, a farlo conoscere al grande pubblico saranno televisione e cinema. Viene chiamato da Dullio Coletti per recitare nel film Sotto dieci bandiere e Un uomo da bruciare dei fratelli Taviani, quest’ultima pellicola sulla vita del sindacalista siciliano ucciso dalla mafia, Salvatore Carnevale, un film che consolida le certezze intellettuali di Volonté, studia il movimento operaio, parla con i contadini e legge Marx, la sua attenzione ai problemi reali cresce smisuratamente e l’avvicinamento a tematiche impegnate si fa sempre più vivo.

Come lo stesso attore affermò: «io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondono a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c’è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione. Essere attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressiste di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario tra l’arte e la vita».

Volonté non recita semplicemente un copione, ma esperisce sulla sua stessa pelle la vita di un altro da sé: studia, conosce e comunica attraverso un’eccelsa mimica e un’imprevedibile gestualità.

«Io non entro e non esco dai personaggi – disse l’attore – non esiste, secondo me, una tecnica unica e precisa. Si può interpretare un personaggio in totale immersione, ma può avvenire anche il contrario […] Io so bene quali percorsi faccio, però ho sempre un fondo di scetticismo nel parlarne perché mi rendo conto che in questo Paese tutti pensano che si possa essere o non essere attori, in qualsiasi momento. Invece non è vero, ci sono discipline che richiedono anni di frequentazione».

Il suo metodo era ferreo e questo lo ha raccontato anche Giuliano Montaldo quando disse: «se doveva interpretare un personaggio negativo, era negativo anche durante le pause, durante la notte, durante i momenti di pranzo e cena, si immedesimava talmente nel personaggio da diventare altro, una totale immersione nel personaggio vivendo insieme a lui».

La Ragazza con la valigia di Valerio Zurlini, 1961. Foto di Leo Massa ©Archivio fotografico della Cineteca Nazionale, Roma

Se nel 1964 Volonté ha i primi problemi con la censura per Il Vicario, opera di aperta denuncia contro i sottaciuti rapporti tra Pio XII con il regime nazista, negli anni successivi fa l’incontro più importante per lui con Elio Petri, esponente del cinema verità, che lo chiama per prendere parte nel 1967 in A ciascuno il suo, pellicola che vince il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes e il premio come migliore attore protagonista ai nastri d’argento nel 1968. Sarà sempre con Petri che Volonté recita in La classe operaia va in paradiso, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Todo modo, un vero e proprio atto di accusa verso la DC.

Dopo aver superato un periodo molto duro a causa di un tumore ai polmoni, Volenté comincia nuovamente a recitare, nonostante i tempi siano ormai cambiati e dopo tanti successi muore il 5 dicembre 1994 a Florina, in Grecia, sul set de Lo sguardo di Ulisse, dove avrebbe interpretato la parte del direttore della cineteca di Sarajevo assediata durante la guerra nella ex Jugoslavia.

Per meglio approfondire la poliedrica figura di Gian Maria Volonté, fino al 22 dicembre, è possibile visitare la mostra a lui dedicata in occasione della XVIII edizione del Festival del cinema di Porretta Terme, proprio nella località dove nel 1971 Gian Maria Volonté ed Elio Petri presentarono in anteprima mondiale, La classe operaia va in paradiso. Inaugurata il 6 dicembre, giorno in cui si è stato celebrato il venticinquesimo anno dalla sua scomparsa, la mostra è stata realizzata in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati
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Édith Piaf: l’usignolo dall’ugola insanguinata. https://www.cultmag.it/2019/12/10/edith-piaf-lusignolo-dallugola-insanguinata/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/12/10/edith-piaf-lusignolo-dallugola-insanguinata/#respond Tue, 10 Dec 2019 10:35:19 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6274 «Quello che più mi interessa nella vita […] è l’Amore. In qualunque aspetto della vita: l’amore per l’umanità, l’amore per il proprio lavoro, l’amore per le cose a cui teniamo».

Una frase ricca di passione e intrisa di puro sentimento, pronunciata da Édith Piaf, donna dal corpo minuto e dalla voce graffiante, che il suo grande amico, Charles Aznavour, chiamava «il nostro diavoletto».

Édith Piaf è stata una donna vulcanica, adorava scherzare, fare picnic sul prato e passare il tempo in compagnia degli amici più cari, ma è stata anche una donna che ha dato tutto per il suo grande amore, la musica.

La Piaf è un concentrato di arte ed emozione, desiderosa di vero amore, come quello che lei stessa donava, perché la vita è troppo dolorosa per non amare, anche se spesso «l’amore si deve pagare con lacrime amare».

Édith Piaf brinda con il pugile Marcel Cerdan

La sofferenza Édith l’ha esperita in prima persona, essendo stata vittima di incidenti devastanti, sottoposta a molti interventi chirurgici, soggetta spesso a malanni frequenti, per non parlare dei diversi episodi di coma etilico, l’artrite reumatoide e le sfortunate storie d’amore che hanno reso la piccola Édith, un potente concentrato di sofferenza, forza e determinazione.

Nata il 19 dicembre 1915 da una coppia di artisti circensi, la sua infanzia è trascorsa per le strade parigine, dove trascorre il tempo cantando con la sua cara amica Momone. A 17 anni conosce Louis Dupont, con cui ha una figlia, Marcelle Carolina Gassion, morta poco dopo per una meningite, una dramma da cui Édith si riprende lentamente, grazie al canto.

La musica la salva dalla disperazione ed è Louis Leplée, direttore del cabaret Gerny’s a scoprirla e a farla debuttare ufficialmente con il nome d’arte di Môme Piaf. Dopo la misteriosa morte di Leplée, Èdith si rivolge all’impresario Raymond Asso, che diventa suo amante e suo pigmalione, il quale decide di cambiarle battezzarla definitivamente Èdith Piaf.

Così che inizia lo straordinario successo de la chanteuse, che inizia a incidere grandi successi, come La vie en rose, canzone che affascina il pubblico e la critica, facendo approdare la cantante negli Stati Uniti.

Édith in questo periodo è felice, viene immensamente amata dal pugile Marcel Cerdan e con lui si scambia lettere romantiche, intrise d’amore, (oggi conservate nell’archivio della Biblioteca Nazionale Francese e raccolte nel libro Moi pour Toi), ma fino al 28 ottobre 1949, quando avviene la tragedia, perché l’aereo con a bordo il pugile precipita sulle Azzorre.

Édith Piaf e Jean Cocteau

Nonostante la disperazione per la morte dell’amante e indebolita fisicamente dall’artrite reumatoide, con i suoi 42 chili di peso, i vestiti sempre neri, i capelli ricci e con la voce roca, nel 1952, Édith si risolleva psicologicamente grazie alla musica, che le dona ancora una volta la forza d’amare.

Nel mese di settembre si sposa con Jacques Pills a New York e nonostante il largo uso di morfina che la costringe a iniziare un trattamento di disintossicazione, ormai fisicamente sfinita, continua a esibirsi senza tregua, riscuotendo successi internazionali come avviene alla Carnegie Hall, dove il pubblico applaudirà per ben sette minuti, e nel 1960 sul palco dell’Olympia, dove presenta pre la prima volta la celebre canzone Non, je ne regrette rien, scritta da Charles Dumont.

La tournée prosegue senza interruzione, ma i numerosi malanni costringono Édith ad assumere molte medicine. Per tutti era ormai la «maschera tragica della canzone», ma c’e ancora un ultimo piccolo brandello di felicità che spetta alla piccola Édith, il matrimonio con Théophanis Lamboukas, un giovane con cui nasce una profonda simpatia e che sposerà il 9 ottobre 1962, lui ha 26 anni e lei 46. La mattina del matrimonio Édith ci ripensa, ma sarà proprio Theo a farla rinascere e darle la forza per combattere ancora, fino al 10 ottobre 1963, quando Edith Piaf morirà.

Ai suoi funerali parteciparono migliaia di persone, dalle finestre di Parigi risuonava la sua voce e Jean Cocteau, grande amico della Piaf, scrisse l’elogio funebre per l’amica, un elogio che non riuscì mai a leggere personalmente perché fu colpito da infarto lo stesso giorno.

Così recitavano le sue parole:

«Guardate questo piccolo essere le cui mani sono quelle della lucertola delle pietre. Guardate la sua fronte di Bonaparte, i suoi occhi di cieca che hanno ritrovato la vista. Come farà a far uscire dal suo petto minuto i grandi lamenti della notte? Ed ecco che canta, o meglio, come l’usignolo di aprile prova il suo canto d’amore. Avete ascoltato questo lavorio dell’usignolo? Soffre. Esita. Si schiarisce. Si strozza. Si lancia e cade. E d’improvviso, trova la sua strada. Canta. Sconvolge».

Nel 2007 è uscito nelle sale La vie en rose, un ritratto libero della cantante per la regia di Olivier Dahan.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati
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Clara Rockmore: suonare nell’aria https://www.cultmag.it/2019/04/28/clara-rockmore-suonare-nellaria/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/04/28/clara-rockmore-suonare-nellaria/#respond Sun, 28 Apr 2019 14:24:11 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6023 L’altro giorno mentre ascoltavo un concerto di Francesco al Blue Dahlia, uno strano suono emesso dalla sua chitarra battente mi ha fatto pensare al theremin e di quella volta in cui mi sono imbattuta nella vita di una delle sue più importanti interpreti: Clara Rockmore.

Nata il 9 marzo 1911 a Vilnius (attuale capitale della Lituania, allora facente parte della Russia) come Clara Reisenberg, fin da piccola dimostra avere uno straordinario talento musicale, tanto da esser definita “bambina prodigio” dai giornali dell’epoca. Fu lo zio Paul a indirizzare Clara e la sorella Nadia verso lo studio del pianoforte, ma ben presto Clara scopre un altro amore: il violino.

A soli quattro anni svolge un’audizione al Conservatorio di San Pietroburgo con Leopold Auer, professore scrupoloso e severo che decide di prendere come sua allieva la piccola bambina che trascinava la pesante custodia rossa del violino sul pavimento fin dentro la sala per le audizioni. La commissione stupita dalla bravura della piccola, la ammette, diventando la più giovane studentessa nella storia del Conservatorio.

Con il sopraggiungere della rivoluzione russa, la famiglia decide di abbandonare il paese natio per cercare rifugio in America; durante il viaggio, lei e la sorella Nadia, si esibivano incessantemente per racimolare del denaro e pagare il piroscafo che avrebbe portato tutta la famiglia a New York, dove giunsero il 19 dicembre 1921.

Clara nella Grande Mela può finalmente riprendere i suoi studi con l’inseparabile maestro Leopold, anche lui trasferitosi nella metropoli, ma poco prima di fare il debutto ufficiale come violinista, le viene diagnosticato un problema al braccio, dovendo rinunciare al violino.

Clara Rockmore, 27 ottobre 1938.

«Ho provato di tutto. Ero pronta a far amputare il mio braccio e farmelo ricucire all’indietro se fosse stato di aiuto. Sono passata da un medico all’altro […] Ogni volta che il mio braccio andava un po’ meglio, provavo a suonare e immediatamente sentivo lo stesso dolore. Erano passati quasi tre anni prima di sapere che era impossibile tornare a suonare […] È stata una vera tragedia nella mia vita».

Il non poter più suonare il violino comportò anche la rottura con il proprio mentore, ma non tutti i mali vengono per nuocere perché determinata e impavida sperimentatrice, incontra Lev Sergeevič Termen, conosciuto anche come Leon Theremin, ovvero l’inventore del Theremin. Termen e Clara da questo momento in poi strinsero un duraturo sodalizio artistico che venne interrotto solo dalla morte di lui avvenuta nel 1993.

Come Clara scrisse: «ero affascinata dalla parte estetica, dalla bellezza visiva, dall’idea di suonare nell’aria e ho adorato il suono […] Presto Lev Sergeevič mi regalò il modello RCA», che però non la soddisfaceva pienamente, così intrapresero insieme un cammino di sperimentazione che li portò a perfezionare lo strumento, permettendone un controllo maggiore.

«Mentre suonavo pezzi più difficili, ho sempre dovuto inventare un modo per poterli eseguire. Ci sono stati molti tentativi ed errori, ma il theremin ha salvato la mia vita dandomi uno sbocco nella musica. È stato molto gratificante riuscire a realizzare qualcosa da uno strumento che nessuno si aspettava e che forse non era nemmeno immaginabile. Ma avevo bisogno di esprimere me stessa».

Clara Rockmore e Lev Sergeevič Termen nel 1929.

Il theremin era uno strumento assolutamente innovativo per l’epoca, il cui suono era molto diverso da tutto ciò che fino a quel momento era stato ascoltato.

«Lui, essendo il genio che era, mi ha costruito uno strumento molto più impegnativo. Il controllo era molto più difficile, ma era molto più reattivo e quindi musicalmente più soddisfacente», ma la vera difficoltà era quella di farsi accettare dal pubblico, facendolo riconoscere come «un vero mezzo artistico». Clara, che nel frattempo si sposa con Robert Rockmore e intraprende lunghe tournée, molto apprezzate, suonando spesso con la sorella Nadia (con cui ha registrato anche il primo LP intitolato The Art of the Theremin nel 1977), ma anche con il cantante e attivista per i diritti civili, Paul Robeson.

Dopo una grave polmonite che l’ha colpita nel 1997 e dopo esser scampata ad un infarto, Clara Rockmore muore due giorni dopo la nascita di sua nipote Fiona, il 10 maggio 1998.

***

Per maggiori informazioni:  The Nadia Reisenberg & Clara Rockmore Foundation; importante da citare è anche il documentario Theremin – An Electronic Odyssey realizzato nel 1991 da Steve M. Martin, in cui il regista ha incluso alcune delle ultime esibizioni di Clara e la riunione svoltasi a New York tra Clara e Leon Theremin (novantaseienne).

Per ascoltare un concerto di theremin dal vivo… i discepoli di questa magia sonora sono, naturalmente, Vincenzo Vasi e Valeria Sturba che insieme hanno creato il progetto OoopopoiooO, in tour in questo periodo. Interessante anche: La magia del theremin: cinque virtuosi dello strumento scelti da Vincenzo Vasi.

«Prima di toccare le note, ovviamente, prima di fare qualsiasi cosa, devi avere la musica nella tua anima. Se dovessi dare consigli ai futuri thereministi, direi less is more. Non puoi suonare l’aria con i martelli, devi usare movimenti delicati, devi giocare con le ali delle farfalle; la precisione è molto più importante della forza. Devi anche avere coraggio. Suonare il theremin è come essere un trapezista senza una rete. Non sai se atterrerai correttamente o meno, ma corri un rischio e salti, non solo per arrivare alla nota giusta, ma per colpire il centro della nota, quindi sarai sintonizzato».

– Clara Rockmore


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