CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Fri, 16 Jun 2023 12:11:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Il ricordo. Nutrimento dell’anima. https://www.cultmag.it/2023/06/16/il-ricordo-nutrimento-dellanima/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2023/06/16/il-ricordo-nutrimento-dellanima/#respond Fri, 16 Jun 2023 11:13:36 +0000 https://www.cultmag.it/?p=7086 13 febbraio 2023

Stazione di Rosarno, ore 10:00 del mattino. Inizia iI mio solito viaggio della speranza!

Immersa nei pensieri e in punto imprecisato dell’Italia, mi volto e vedo un cartello con su scritto: “Santa Marinella”.

Eccola!

Il nome Marinella e il numero 13 mi accompagnano insistentemente da qualche giorno.

Le parole in questi mesi sono incarcerate nel mio essere. I sentimenti che io e mamma stiamo provando da ormai un anno sono intensi, sopratutto per lei, al cui dolore interiore si unisce quello fisico.

Accendo il computer, scrivo qualche parola senza avere un’idea precisa. Il viaggio prosegue e le parole sono confuse.

Ore 23.40: arrivo. Sono esausta. Comincia la routine e i giorni si susseguono frenetici.

Il pensiero al Suo scritto, come in ogni ricorrenza, è presente, ma la confusione non mi permette di mettere in ordine alle parole.

24 febbraio 2023

Ore 5:00 del mattino. Oggi è il mio compleanno. Ho deciso di non festeggiare. L’umore non è adatto. Cancello il promemoria da tutti i social, ma qualcosa accade: a scuola arriva il primo mazzo di fiori, a casa il secondo, le chiamate sono incessanti.

A nove anni dalla morte di Mari ho la conferma di essere circondata da persone meravigliose che rendono più agevole il mio viaggio in questa Vita.

Penso al presente e al passato; alle tappe raggiunte, al percorso fatto, agli interminabili ostacoli e a quelli ancora da affrontare.

Sento la pressione dei miei 35 anni. 3 concorsi in un anno e due ancora da fare. Vita da precaria!

“Dovrei, dovrei, dovrei…”

“A che punto sono della mia vita?”

“Cosa sto costruendo?”

Non ho più la concentrazione di qualche anno fa e neanche la stessa smisurata capacità di sognare. La realtà interiore si nutre di sogni, ma anche di tangibilità!

16 giugno 2023

Il mio terrore più grande è diventato realtà… eccomi nuovamente davanti a questo scritto interminabile.

Il mio faro, mia madre, mi ha lasciata.

In questi giorni molte persone mi hanno detto: «tua mamma si è ricongiunta a tuo padre e a tua sorella!»; «devi andare avanti» etc. Parole dette con affetto e anche con un po’ di imbarazzo, perché il dolore, sopratutto quello degli altri, spaventa.

Spero siano insieme, era il desiderio di mamma e a questo voglio pensare; ma il problema è per chi rimane perché ci si sente avvolti da una nube grigia con un mal di testa incessante e con una vita da rimodulare, senza sapere come, poiché l’unica bussola che si aveva, non c’è più.

In questi nove anni ho sondato il mio essere, l’ho messo per iscritto, l’ho ricomposto, come un archeologo che svolge ricerche sul campo.

Ho cercato di comprendere i miei sentimenti e, tramite la scrittura, ho trovato un equilibrio e tanta condivisione con chi come me stava affrontando lo stesso destino.

Il fisico austriaco Heinz von Foerster definisce gli esseri umani “macchine non banali”, che rispondono ad uno stesso input in base al loro stato interiore del momento vissuto; detto in altre parole, l’equilibrio emotivo raggiunto in questi nove anni è venuto meno e non esistono formule già scritte per affrontare la perdita.

Siamo macchine imprevedibili e rispetto a “prima” mi viene difficile vivere il vuoto che sento. Il mio essere è diverso e la perdita di una madre, non è quella di una sorella. 

Prima eravamo in due e, in due, abbiamo affrontato i nostri demoni interiori.

Momenti di solitudine, di tristezza, di confusione… lei c’era con i suoi consigli e illuminava il mio pensiero talvolta pessimista.

Non programmavo viaggi, sapevo che sarei “scesa giù” a casa appena fosse stato possibile e sapevo che lei sarebbe stata lì: avremmo preso il nostro caffè insieme la mattina per poi svolgere mille faccende durante la giornata.

All’improvviso… tutto questo non c’è più!

Dirò una banalità, ma le persone che amiamo hanno il 100% di possibilità di morire.

Ho assaporato l’importanza della condivisione e dell’amore, ho conosciuto il dolore della morte delle persone care e questa è la sostanza di cui sono fatta.

Lei mi ha insegnato la tenacia e la costanza nel sorridere. Mi ha insegnato a scegliere, mi ha spronata a dire sempre ciò che penso. Mi ha insegnato a non piegare mai la testa, mi ha insegnato ad amare genuinamente, mi ha insegnato la dignità nel dolore e l’importanza di non soccombere a esso.

Il male interiore dettato dalla perdita non è una frattura che si cura nel tempo, è incurabile, si porta dentro; fa parte di noi e si deve imparare a convivere.

Non conosco quanto tempo ci vorrà per scrivere questo nuovo capitolo, né conosco la strada da percorrere per raggiungere l’accettazione e la consapevolezza. Purtroppo quando si ha Saturno contro è difficile controllare gli eventi esterni e allora l’unica parola che mi viene in mente è rallentare; così come l’unica certezza è quella di prenderci cura della nostra mente e – nei limiti del possibile – decidere di fare qualcosa per Noi. Quell’Essere a cui non si è mai data priorità, ma che evidentemente l’aveva.

Sono stata fortunata ad avere Lei, ad avere Loro. Mamma era bella e, come ha detto Don Massimo, era Franca, di nome e di fatto. Diretta e vera nella sua splendente unicità.

Madre, sorella, amica, collega, ognuno aveva la sua Franca, sempre disponibile per una battuta, un consiglio, una cena sul terrazzo o davanti al caminetto e un discorso di politica.

Nel giorno del tuo compleanno. Auguri mia vita.

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IL GIORNO DEL TUO 36° COMPLEANNO https://www.cultmag.it/2022/09/13/il-giorno-del-tuo-36-compleanno/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2022/09/13/il-giorno-del-tuo-36-compleanno/#respond Tue, 13 Sep 2022 08:04:06 +0000 https://www.cultmag.it/?p=7062 Lei aveva 27 anni, oggi sarebbero stati 36, mentre io vado per i 35.

Tutto nella mia vita è cambiato da quando Mari non c’è più.

Tutto è in perenne movimento e se questo continuo oscillare un tempo animava il mio cuore, oggi le aspirazioni sono altre.

Negli anni credo di aver imparato a navigare nella tempesta da sola. Questo è avvenuto gradualmente, un processo lento, in cui si sono alternati momenti di sconforto, delusione e sofferenza.

Capisci che qualcosa è mutato quando le lacrime che un tempo scendevano copiose, ormai emergono raramente, per pochi minuti, solo quando lo stress arriva a limiti estremi.

Lacrime razionali e ben dosate, da vivere in silenzio e in solitudine.

Oggi, all’alba del compleanno di Mari, mi chiedo cosa mi faccia vibrare il cuore.

Un cuore che ho cercato di domare dalle mille ansie; un cuore in cerca di una stabilità e di una quotidianità. Un cuore che è dovuto diventare grande e che, oggi, richiede consapevolezza.

Per tanti anni ho pensato di essere io sbagliata. Le vite degli altri erano sempre un “più”; ma oggi mi chiedo: cosa rappresenta quel “più”? Cosa il mio “meno”?

Dopotutto la matematica non è un opinione e “meno per meno” fa “più”.

Bene, con il trascorrere degli anni, credo di essere diventata questo “più”. Come ha detto “quel” Victor Hugo, oggi può essere «il primo giorno del resto della mia vita» e domani, concretamente, lo sarà.

Inizierà una nuova fase di scoperta: un nuovo lavoro, nuove conoscenze, nuove paure ma con la voglia di affrontarle e con la voglia di essere all’altezza dell’inaspettato.

Il 13 settembre rappresenta il giorno del mio personale bilancio annuale e l’anno  appena trascorso è stato interessante, diverso, ricco di conoscenze e, in qualche caso, anche  di nuove amicizie.

Credevo fosse una parentesi e invece mi ritrovo di nuovo qui, in questa regione a me sconosciuta, ma con il sole, il mare e la statale molto simile alla costa ionica calabrese.

In questo anno sono ripartita nuovamente da zero. Non è facile ricominciare: farti conoscere, vivere di commenti e di opinioni; non avere gli amici di una vita accanto, far capire che dietro quei vestiti neri, fondamentalmente c’è altro.

Se da un lato si va incontro al “mistero”, dall’altra parte, cambiare sempre città, mi ha regalato la voglia di conoscere, la bellezza delle piccole emozioni e delle piccole aperture, che si trasformano in momenti importanti e necessari.

Una cena a San Biagio, una passeggiata nel bosco, un negroni bevuto in terrazza, un improbabile karaoke calabrese a mille chilometri di distanza da casa.

È bello essere curiosi… io lo sono sempre stata, ma è necessario farlo con genuinità e trasparenza.

Ogni lamento, ogni insoddisfazione, ogni critica, credo sia il sintomo di quel nostro personale “meno” da trasformare in “più” per migliorare.

Vivere il processo di cambiamento con coscienza, in modo da giungere alla consapevolezza di ciò che realmente si vuole per l’immediato e prossimo futuro.

Mai cambierei i miei “meno”, perché quei meno mi rappresentano; mi hanno dato la possibilità di navigare sola, di crescere senza avere paura del silenzio e, non in ultimo, di vedere la bellezza, anche laddove questa alcune volte sembra non esserci.

Per tutto questo devo dire grazie alle persone che mi circondano: da loro ho compreso cosa significhi non aver paura di fronte al dolore, il coraggio di lottare per chi si vuole bene; affrontare la vita con grinta e, non in ultimo, camminare sempre a testa alta.

Un amore “non liquido”, un sentimento reale e concreto, insegnatomi dalle donne della mia vita.

Dopotutto, come afferma Zygmunt Bauman, «l’amore non è un oggetto preconfezionato e pronto per l’uso. È affidato alle nostre cure, ha bisogno di un impegno costante, di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno».

Di fronte alle infinite possibilità dell’esistenza, sta a noi scegliere quali sono i “più” o i “meno” e «alcune scelte sono più facili e altre più rischiose».

A oggi molti sono i sentimenti che fanno vibrare il mio cuore, ma la necessità è quella di trovare sempre nuove sinfonie e nuova consapevolezza da costruire, giorno dopo giorno, in un processo continuo di ri-generazione.

Nel giorno del tuo trentaseiesimo compleanno brinderò a te mia dolce sister e anche a colei che mai ci ha lasciate sole. Colei che ci ha insegnato il vero senso dell’Amore, quello che ti fa credere che tutto sia possibile, che ti plasma, ti anima di genuinità e ti sprona a credere nei sogni, insegnandoti, al tempo stesso, ad affrontare quei “meno” che spesso la vita pone sulla strada dell’esistenza.

Brindo a Voi, mia forza, mia meraviglia, mia unica Vita.

Testo e vita di ©Claudia Stritof 
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La vibrante Essenza del Silenzio https://www.cultmag.it/2022/02/15/la-vibrante-essenza-del-silenzio/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2022/02/15/la-vibrante-essenza-del-silenzio/#respond Tue, 15 Feb 2022 06:27:00 +0000 https://www.cultmag.it/?p=7039 Cos’è cambiato dopo otto anni dalla scomparsa di Mari?

È complesso dirlo, sopratutto in questo periodo della mia vita.

Cercare le esatte parole, gli intervalli e rimettere in ordine i pensieri in modo sensato è molto difficile.

La scrittura non fluisce da qualche tempo! È un dato di fatto e, quando questo accade, credo che l’unica soluzione possibile sia il silenzio, così da dare spazio alla comprensione.

Troppa acqua è passata sotto questi ponti e – come qualcuno di importante ha già teorizzato con il suo celebre Pánta rheî -, tutto scorre.

Fin qua non fa una piega; in che modo tutto sia mutato, ancora non si comprende bene, nonostante il disegno si stia definendo.

Ultimamente mi è capitato di studiare il Compianto sul Cristo morto di Lorenzo Lotto, conservato a Recanati.

Un’opera bellissima in cui il Cristo livido ed esanime campeggia in primo piano; esso è sostenuto da Giuseppe di Arimatea dagli occhi inumiditi dal pianto, dall’Angelo con lo sguardo sgomento, mentre Maria Maddalena porge il suo ultimo saluto al Redentore e, infine, Maria, la figura che più di tutte ha destato il mio interesse.

Di lei vediamo pochissimo perché avvolta nel pesante manto blu dietro cui nasconde il proprio dolore. Gli unici dettagli visibili sono lo zigomo e la fronte aggrottata, a sottolineare lo stato d’animo dilaniato alla vista del figlio morto.

Dettagli che hanno fatto riemergere in me il ricordo di alcuni momenti vissuti il 12 febbraio 2014, giorno in cui diedi l’ultimo bacio a mia sorella.

Nitida è l’immagine di mia madre che, dignitosa, ma con il cuore in frantumi, accolse amici, parenti e conoscenti nei giorni del funerale di Mari.

Lei soffriva immensamente e nonostante questo, non ha mai mostrato (pubblicamente) il minimo segno di cedimento.

Ricordo che quel giorno mi disse di non lasciarmi sopraffare dal fragore confuso e dalla disperazione, perché la parte più difficile sarebbe arrivata dopo, quando saremmo rimaste sole ad ascoltare l’assordante silenzio che avrebbe invaso la nostra quotidianità.

Lei, che già conosceva così profondamente il dolore,  con quelle parole aveva cercato di proteggermi.

Io, ignara, non potevo immaginare che il viaggio si sarebbe rivelato così devastante.

Susan Sontag, in Malattia come metafora, scrive: «Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese».

Proprio come aveva predetto mia madre – e già dotata del mio “passaporto meno buono” – l’assordante Silenzio suonò puntuale alla nostra porta e da quel momento, mano per la mano, iniziammo il nostro cammino in terre arse e desolate, in cui, nel corso di questi anni, ho provato sensazioni mutevoli e contrastanti.

Nella mia lunga peregrinazione emozionale, alla ricerca di qualcuno diverso da me, che potesse mettere fine all’insopportabile Nulla, a un certo punto ho deciso di non affidarmi più a nessuno, di crescere e di fare affidamento solo sulle mie sensazioni, imparando ad ascoltare ciò che prima non riuscivo a udire.

Non sopportavo il Silenzio che continuava a ingombrare la mia mente con rumori assordanti e senza uno spartito da seguire.

Vagare, lasciarsi trasportare, fidarsi, annullarsi… non sentirsi. Chiaramente questa non era la strada da percorrere.

Il Silenzio ha sembianze mutevoli, sta a noi saper godere del suo aspetto migliore, scrutandolo dalla giusta prospettiva.

D’altro canto il silenzio sul pentagramma è rappresentato proprio con una “pausa” e, come afferma il fisico Gianni Zanarini, «nella musica come nel linguaggio, il silenzio è condizione necessaria per l’ascolto. È una pausa di silenzio quella che separa una parola dall’altra, una frase dall’altra, o anche una nota dall’altra, un motivo musicale dall’altro».

Il silenzio è un passaggio necessario affinché la parola o la musica possano esistere, diventando un’esperienza totalizzante se ci si ferma ad ascoltarlo.

Battiti di cuore, gesti, il proprio mutevole respiro… quello che credevo essere assordante silenzio, nella solitudine dei miei pensieri, ha manifestato la sua più vibrante Essenza e Presenza.

Dal nulla è emerso un suono, un battito vitale; seguito a breve distanza da un gong, il cui suono ha echeggiato nella radura vulcanica invadendo l’Essere.

Oggi non cerco più di sciogliere i fili, alla fine la musica risuona nell’anfiteatro, nonostante questi siano intricati e disordinati… proprio come avviene nel live da Pompei dei Pink Floyd.

Pink Floyd, Live da Pompei

Se dovessi descrivere ciò che io chiamo l’armonia del Silenzio, la sensazione che più si avvicina a tale stato, è proprio Echoes… su queste note proseguo il mio viaggio in terre sconosciute, circonfusa dalla luce delle persone che mi stanno accanto e che per primi hanno compreso il Silenzio e talvolta il mio bisogno di Solitudine.

Otto anni fa – in questi stessi giorni – baciavo la mano fredda di mia sorella e il mio Essere si annullava.

Oggi invece chiudo gli occhi e resto in contemplazione di un ancestrale melodia, la quale, sempre più, spero mi possa avvicinare a quella stessa compostezza e bellezza, che vedo nella persona che più amo.

Testo e vita di @Claudia Stritof.
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Il giorno del tuo 35° compleanno https://www.cultmag.it/2021/09/12/il-giorno-del-tuo-35-compleanno/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/09/12/il-giorno-del-tuo-35-compleanno/#respond Sun, 12 Sep 2021 18:12:18 +0000 https://www.cultmag.it/?p=7014 Lei aveva 27 anni, oggi sarebbero stati 35, mentre io vado per i 34.

Trentaquattro anni?! Ormai iniziano a essere tantini e percepisco il cambiamento in me e nei miei amici; cambiano le nostre abitudini e i nostri progetti di vita.

Addio alla meravigliosa spensieratezza della fanciullezza, quella che faceva credere invincibile e che rendeva la mente leggera. Non c’erano programmi, si assaporava la bellezza del momento, una chitarra intorno al falò, il treno dal sud per andare al concerto del Primo Maggio, la partita di calcetto a Camocelli e i viaggi in littorina.

Il passato è denso di ricordi e ogni tanto mi chiedo come sarebbe stata la mia vita con Mari accanto. Dove sarei stata oggi? Cosa avrei fatto? Sarei tornata giù o avrei abitato altrove? Avrei avuto una casa tutta mia o avrei continuato a fare i mie mille traslochi? 

E Lei? Lei sarebbe diventata Notaio? Avrebbe avuto dei figli e quindi io dei nipotini? Dove avrebbe vissuto? La nostra crociera sui fiordi l’avremmo fatta?

Domande. Tante domande, domande che non potranno mai avere una risposta e che ogni tanto si affastellano nella mia mente e mi fanno riflettere sulle decisioni prese in passato. La sua morte è stato il mio spartiacque, perché è stato quello l’esatto momento in cui la mia vita è cambiata.

Sono stata in balia di venti e burrasche. Ho tenuto il timone saldamente tra le mani, altre volte mi sono persa, altre ancora ritrovata. Ho sorriso, ho pianto, mi sono annoiata, mi sono divertita.

La vita è un percorso in continuo divenire, ci porta a mutare perennemente e se esattamente un anno fa cercavo con tutta me stessa un periodo di pausa e di silenzio dal rumore esterno, quest’anno invece comprendo di non essermi mai concessa quel tempo tanto agognato.

Una meravigliosa parola “tempo” e ancor di più lo è desiderare che questo si possa fermare come per magia su un dato momento vissuto per assaporare quel che si sta esperendo.

Quante volte durante la nostra vita accade questo? Raramente e me ne accorgo ora.

Non è facile comprendere gli avvenimenti che ci accadono giornalmente, perché quando si provano sensazioni forti, quali il dolore o la felicità, si rimane accecati, inebriati, storditi, sottomessi.

Dal giorno in cui Lei è morta ho cercato disperatamente di dare un nome al dolore e ai sentimenti che provavo. Li affrontavo e li sondavo con la riflessione, la scrittura e la fotografia, ma solo oggi mi accorgo di avere dimenticato la cosa più importante: imparare a dare un nome a tutte le mie emozioni, comprese quelle positive, per affrontare con sicurezza e maturità il mio futuro.

Scrive Alda Merini: “ieri ho sofferto il dolore”. Una poesia struggente, come solo lei sa fare. Intrisa di maturità sentimentale e di una delicatezza dilaniante che attraversa il lettore e afferra  il cuore stringendolo in una morsa.

Questo fa un animo sensibile, consapevole del proprio Essere e del proprio vissuto: affronta le proprie emozione e le comprende.

Da un nome e un’identità al proprio Essere.

Tempo fa in un articolo di una psicologa, leggevo: “l’atto di ‘dare un nome’ spesso segna l’inizio di una vita […] Chiedersi come si chiama quello che ho dentro è un passaggio fondamentale nell’acquisizione di una vera scoperta di noi, che non finisce mai”. 

È difficile raggiungere l’intelligenza emotiva, ma va fatto, perché altrimenti si rischia di avere rimpianti e di non comprendere la propria realtà.

Lo scritto continua: “attraverso un importante ‘filo conduttore’, quello delle emozioni, dei vissuti e dei ricordi, possiamo comprendere meglio i nostri desideri, le nostre aspettative, le nostre reazioni: sono tutte importanti, da ascoltare con attenzione, da immaginare nel loro dispiegarsi ed attuarsi, fino alle estreme conseguenze. È come immaginarsi il film di quello che vorremmo, nei dettagli, aiuta a conoscersi, a precisarsi meglio gli obiettivi di vita, a favorirne la realizzazione, a modificarli evitando di inseguire effimeri, tanto deludenti, falsi obiettivi”.

Dare un nome a ciò che fino a questo momento non sapevamo definire segna l’inizio del viaggio.

Mi sono sempre mossa a velocità differenti, anche schizofreniche, e se nello scritto dell’anno scorso chiedevo a me stessa una pausa, oggi credo che, a un anno di distanza, io non abbia voglia di fermarmi.

Affrontare le paure, ascoltare il silenzio, elogiarlo, comprendere la fitta trama che si sta dipanando è ciò che credo essere necessario.

È impossibile dimenticare se stessi per cercare qualcosa che non si è, ma si può aggiustare il tiro e allora quel romanticismo pervasivo, quella smodata voglia di sognare e di sorprendere, con il giusto nome e consapevolezza, assumerebbe anche una solida e concreta forma.

Questa estate, dopo 7 anni dalla morte di Mari, ho deciso di sostituire il quaderno rosa all’interno della cappella dove è sepolta. Non avevo mai avuto il coraggio di leggerlo, credevo fosse irrispettoso farlo, perché, come me, molte persone in questi anni hanno scritto frasi d’amore e di speranza a lei dedicati. Un dialogo silenzioso e amorevole.

Dopo aver passato un intero giorno a guardarlo, alla fine ho deciso di lasciarmi traghettare dal fiume di parole e ho camminato in punta di piedi in tante vite differenti, compresa la mia.

C’è chi è stato male, ma ha avuto il coraggio di lottare contro una malattia devastante; chi ha voluto cambiare vita e Le chiedeva il coraggio per mollare tutto; c’è chi in sette anni ha realizzato il sogno di una vita.

Ho letto preghiere, ho provato speranza, ho sentito determinazione e vissuto ricordi, anche quelli della nostra infanzia. Ho letto messaggi indirizzati a me e parole d’amore dedicate a mia madre.

Parole in movimento, parole sature e consapevoli…

Merini chiudeva la sua poesia con un interrogativo: “perché l’immobilità mi fa terrore?”.

Un brindisi a te mia dolce sister nel giorno del tuo trentacinquesimo compleanno.

Sempre nel mio cuore.

Testo e vita di ©Claudia Stritof 
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Il Medioevo contemporaneo: I “Vattienti” di Nocera Terinese. https://www.cultmag.it/2021/04/02/il-medioevo-contemporaneo-i-vattienti-di-nocera-terinese/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/04/02/il-medioevo-contemporaneo-i-vattienti-di-nocera-terinese/#comments Fri, 02 Apr 2021 13:00:15 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1676 Vi racconto una storia: quella del paese Nocera Terinese e dei suoi abitanti.

Il piccolo borgo, situato in provincia di Catanzaro, è circondato da monti aguzzi lussureggianti di verde, quello dei suoi alberi e dei suoi rovi; mentre, qui e lì, si vedono pascoli di pecore e contadini.

Un borghetto ben curato, i cui abitanti sono ospitali e molto gentili, come spesso accade nei paesini dell’entroterra calabrese, che hanno fatto della loro cultura ancestrale un punto di forza.

A Nocera Terinese, durante la Settimana Santa, qualcosa accade perché le sue stradine si animano grazie alla presenza di “fuori sede” tornati a casa per le vacanze, di turisti e fotografi, che giungono da ogni dove per ammirare il famosissimo rito dei vattienti” (i flagellanti), che – con il loro sangue – tingono il paese di color rubino.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Appena si giunge a Nocera si ode dapprima il vociare dei fedeli e subito tra la folla appare la bellissima statua della Madonna con il Cristo portata a spalla dai membri della Confraternita, tutti vestiti di bianco e con il capo adorno da un serto. Con grande devozione e come sempre avviene durante le feste di paese, i confratelli fanno sfilare la Madonna per le stradine inerpicate del paese, procedendo con un andamento lento e posato, fermandosi di tanto in tanto per benedire gli abitanti, la cui devozione si scorge nel movimento incessante delle labbra bisbiglianti e dalle mani portate al petto, sulle spalle e alla fronte.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

In quella che potrebbe sembrare una normale processione pasquale, ecco spuntare all’improvviso il primo vattente.

Esce dal portone della propria casa, con al seguito la madre che con occhi ricchi d’amore, guarda il proprio figlio allontanarsi e iniziare il suo calvario.

L’uomo è vestito con una maglietta nera e con un pantaloncino della stessa tinta arrotolato al pube, porta in testa un panno tenuto da una pesante corona di spine, in una mano porta il cardo”un disco di sughero su cui sono fissate con uno strato di cera tredici schegge di vetro appuntite, volte a simboleggiare i dodici Apostoli e la figura di Cristo; infatti le punte sono di tute di egual altezza, fatta eccezione di una, più acuminata, volendo alludere al tradimento di Giuda.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Nell’altra il vattente mantiene in mano la rosa”, un secondo disco di sughero liscio con cui percuote le gambe. Esso è legato con un laccio a un giovane, trasfigurazione dell’Ecce Homo, proprio per sottolineare l’unitarietà delle due figure, ruolo solitamente ricoperto da un bambino con petto nudo e avvolto dalla vita in giù da un panno rosso che porta in braccio una croce rivestita da un nastro rosso e sul capo un serto.

Accanto a queste due figure vi è un terzo uomo, di solito un parente o un amico che versa sulle gambe del vattente un infuso di vino e aceto per disinfettare le ferite e prevenire la formazione di croste.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Il suono del cardo percosso sulla carne è netto e deciso, seguito subito dopo da rivoli di sangue che creano una pozza rossa ai piedi del vattente mentre i muscoli vibrano visibilmente per la tensione.

Senza che si possa prendere un attimo di respiro, in quest’atmosfera mistica e ancestrale, subito dopo si ode lo sfregare della rosa passata sulla gamba, il vino scivolare sulle gambe e ricadere sul lastricato e di nuovo il suono del cardo, della rosa e del vino… interrotto solo dall”inchino alla Madonna, per poi proseguire nella veloce corsa verso le diverse stazioni religiose del paese.

Mentre la Madonna prosegue il suo percorso, noi decidiamo di fare un giro per le stradine del paese e arriviamo alla grande piazza che è colma di sangue secco sulle pareti, sul lastricato e sulle scale.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Visitiamo la bellissima chiesa del paese, ma a un certo il suono del cardo sulla carne richiama nuovamente la nostra attenzione.

Usciamo di corsa e questa volta i vattienti sono tre, tutti piuttosto giovani; dopo aver impresso il loro “marchio” sulla chiesa, riprendono la corsa incessante, mentre le impronte dei piedi nudi sull’asfalto tradiscono la loro direzione.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Nel momento in cui i confratelli riportano la statua della Madonna all’interno della chiesa, un grande applauso risuona per le stradine del borgo, mentre i vattienti sono ormai rientrati in casa, dove ad attenderli sono le madri, le mogli e le famiglie , che nel frattempo hanno preparato un infuso caldo con rosmarino che lava la carne flagellata e cicatrizza i minuscoli fori sulla carne.

Nocera Terinese, 4 Aprile 2015. © Claudia Stritof. All rights reserved.

Finisce così la mia visita a Nocera Terinese e il mio viaggio in questa antica tradizione. Un avvenimento di forte impatto emotivo e spirituale, tanto che alla visione del primo vattente, non riuscì a scattare nemmeno una fotografia visto lo scorrere copioso del sangue sulle loro gambe, come se all’improvviso fossi stata trasportata nel Medioevo a mia insaputa; ma una volta realizzato ciò che stava accadendo è stato un momento unico ed emozionante.

Sono stata percorsa da un brivido, cercando di comprende sempre più affondo il motivo di tale flagellazione e di questo male auto-inflitto, ma poi capisci che ciò a cui stai assistendo, non è una finzione scenica, ma l’autenticità di un sentimento, quello religioso dei devoti, che comprensibile o meno che sia, adempiono ad un voto fatto per ottenere una grazia o perché già ottenuta.

Questa è la storia di antichi riti e credenza ancestrali, avvolte da un’aurea mistica che oscilla tra sacro e profano, così come diverse sono le teorie sull’origine del rito.

Storie di vita paesana e di riti popolari che continuano a vivere in un piccolo paesino calabrese, da visitare e condividere con i suoi abitanti, i noceresi, che di storie e leggende ne hanno da raccontare.

Testo e immagini ©Claudia Stritof. All rights reserved.
Articolo scritto in data 7/04/2015. Revisione del 2/04/2021.
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Fondazione Maeght: “Ceci n’est pas un musée!” https://www.cultmag.it/2021/03/15/fondazione-maeght-ceci-nest-pas-un-musee/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/03/15/fondazione-maeght-ceci-nest-pas-un-musee/#respond Mon, 15 Mar 2021 13:56:35 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6959 La Costa Azzurra non è sinonimo solo di mare e divertimento, ma basta dirigersi verso l’interno per visitare paesini incastonati nella folta vegetazione mediterranea che domina le Alpi Marittime.

Saint Paul de Vence, situato a 25 km da Nizza, è un borghetto cinto da mura che, durante il corso del Novecento, è diventato meta prediletta di artisti come Paul Signac, Amedeo ModiglianiPablo Picasso, Henri Matisse e molti altri.

Proprio in questo paese, nel 1920, Paul Roux, grazie all’aiuto della madre, apre un piccolo bar- caffetteria “Chez Robinson”, che qualche anno dopo, insieme all’inseparabile moglie Titina, trasforma in locanda con tre camere da letto e chiama La Colombe d ́Or.

Raux, amante dell’arte e della culturale, intrattiene lunghe conversazioni con i suoi ospiti e organizza serate appositamente dedicante, che per ringraziarlo dell’accoglienza – come era uso all’epoca – gli donando opere d’arte con cui inizia ad adornare le pareti della locanda.

Sulle orme del padre e della madre, il figlio Francis, prosegue l’attività: nel 1952, Fernand Léger installa una sua grande opera sulla terrazza; negli anni Cinquanta è la volta di Mirò, Braque, Chagall… a cui seguirono Calder, César e molti altri artisti, fino all’ultimo intervento site specific avvenuto qualche anno fa.

Prima di visitare Saint Paul de Vence non conoscevo l’affascinante storia de “La Colombe d’Or”, ma, durante l’estate scorsa, andammo lì per visitare la Fondazione Maeght.

Un luogo la cui storia inizia dall’amore che lega gli editori e mercanti d’arte, Marguerite e Aimé Maeght e la loro genuina passione verso l’arte contemporanea; infatti non nasce come uno spazio museale, ma è il frutto di un progetto molto più ampio, una vera e propria fucina d’arte, in cui, nel corso di molti anni, avrebbero lavorato artisti diversi tra loro, ma uniti dall’idea di dare il loro apporto a un’utopia, divenuta realtà.

Marguerite e Aimé commissionano la progettazione dell’edificio all’architetto Josep Lluís Sert, nativo di Barcellona e formatosi sotto l’influenza di Antoni Gaudì, dalla Bauhaus e di Le Corbusier.

Sert con la sua architettura ha rispettato la volontà dei committenti, inserendo l’edificio nell’ambiente circostante e facendolo dialogare armoniosamente con esso, grazie a una struttura caratterizzata da grande chiarezza formale e funzionale.

Nasce così un percorso che si snoda tra le sale interne della Fondazione e i cortili esterni; passando attraverso terrazze, bacini d’acqua e il labirinto.

Appena varcata la biglietteria, ad attenderci è il giardino delle sculture progettato dal paesaggista Henri Fisch, dove sono conservate le ceramiche di Léger; La Fontaine di Pol Bury del 1978; Les Reinforts, stabile di Alexander Calder del 1963; la scultura del vento di Takis, le sculture di Jean Arp e quelle di Eduardo Chillida, Erik Dietman, Barbara Hepworth, Joan Miró e molti altri artisti.

Entrati all’interno dell’edificio, ad accoglierci è un primo nucleo dedicato alle esposizioni temporanee, ma, fin da subito si vedono particolari interessanti, incontrando le vetrate di Jean Miró oppure la grande vasca musiva dove “nuotano” Les Poissons di George Braque.

La Fondazione è una continua sorpresa e a ben guardare, altre opere si scorgono sulla muratura e sul perimetro esterno degli edifici: il mosaico del muro di cinta è realizzato da Pierre Tal-CoatMarc Chagall firma il mosaico les Amoureux all’esterno della biblioteca (edificio che custodisce circa 30.000 volumi di arte moderna e contemporanea!); le vetrate Oiseau mauve et blanc di Georges Braque e La Croix et le Rosaire di Raoul Ubac, adornano la cappella di San Bernardo, che ospita anche un crocifisso di fattura spagnola del XII secolo e una Via Crucis di Ubac.

Per chi è amante di Alberto Giacometti, rimarrà piacevolmente sorpreso dalla corte da lui pensata e a lui dedicata, in cui sono conservate, solo per citare alcune opere, L’homme qui marche IFemme debout e Femme de Venise; ma non è tutto, perché volgendo lo sguardo verso l’alto, all’epoca della visita, notammo anche una panchina verde, con su scritto: “Per quelli che volano”, opera dell’artista Luigi Mainolfi e dedicata alla moglie del collezionista Giuliano Gori, ideatori di un altro incantevole luogo: la Fattoria di Celle in Toscana.

Non in ultimo è da citare il Labirinto di Miró, un’opera monumentale dove sono conservate sculture e ceramiche dell’artista catalano e realizzato in collaborazione con l’amico ceramista Josep Llorens Artigas.

La Fondazione Maeght è stata inaugurata il 28 luglio 1964 dal visionario André Malraux, all’epoca Ministro di Stato per gli affari culturali, sotto la presidenza di Charles de Gaulle.

LES GIACOMETTI: UNE FAMILLE DE CRÉATEURS. GIOVANNI, AUGUSTO, ALBERTO ET BRUNO

3 luglio - 14 novembre 2021, Fondazione Maeght

Alberto Giacometti, Le couple (Homme et Femme), 1926. Bronze, 59.5x17,5 cm. ©Succession Alberto Giacometti (Fondation Giacometti Paris + Adage Paris), 2021.

«Vous avez tenté de faire quelque chose qui n’est en aucune façon un palais, en aucune façon un lieu de décor et, disons-le tout de suite, parce que le malentendu va croître et embellir, en aucune façon un musée. Ceci n’est pas un musée!», disse il politico e scrittore, continuando – «lorsque nous regardions tout à l’heure le morceau de jardin où sont les Miró, il se passait la même chose que lorsque nous regardions la salle où étaient les Chagall […] Ces petites cornes que Miró réinvente avec leur incroyable puissance onirique sont en train de créer dans votre jardin, avec la nature au sens des arbres, un rapport qui n’a jamais été créé».

Finisce qui la nostra visita in questo incantevole luogo.

Arte e natura: un binomio indissolubile che caratterizza la Fondazione Maeght; come già detto, luogo di incontro e di scambio culturale per i molti artisti che hanno attraversato le sue sale e che all’unisono, hanno reso questo spazio complesso, intellettualmente denso e artisticamente unico.

Personalità diverse che all’unisono, hanno reso questo spazio complesso, intellettualmente denso e artisticamente unico.

La Fondazione Maeght è privata e si autofinanzia con risorse proprie, principalmente attraverso i biglietti d’ingresso, ma è stata riconosciuta d’interesse pubblico, portando avanti una politica culturale di spessore.

Un luogo che riunisce una delle più importanti collezioni di opere d’arte del XX secolo, nato solo grazie alla lungimiranza di Marguerite e Aimé Maeght e ancor oggi valorizzato dagli eredi.

Testo a cura di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
Foto ©Beatrice Piantanida ©Francesco Sardisco
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Surrealist Lee Miller https://www.cultmag.it/2021/03/07/surrealist-lee-miller-ricordo-di-una-mostra/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/03/07/surrealist-lee-miller-ricordo-di-una-mostra/#respond Sun, 07 Mar 2021 21:01:00 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6893 Era il 2019 quando, nelle sale di Palazzo Pallavicini a Bologna, inauguravamo la mostra Surrealist Lee Miller, una delle figure più affascinanti e misteriose del Novecento; modella di straordinaria bellezza, cuoca estrosa, impavida corrispondente di guerra ma soprattuto fotografa di eccelsa bravura.

In quell’anno, parlando con Vittoria e Maurizio, della ONO Arte Contemporanea di Bologna e l’archivio Lee Miller, decidemmo di portare la mostra in Italia, non sapendo effettivamente se saremmo riusciti a trovare un luogo adatto.

Ci provammo e, dopo tanto cercare, il sogno si realizzò!

Lee Miller nasce a Poughkeepsie, nello Stato di New York, il 23 aprile 1907, da Florence e Theodore, un personaggio eccentrico, da cui Lee apprende l’amore per la tecnologia, la caparbietà nel portare avanti i propri progetti e l’amore per la fotografia.

Lee era una ragazza dalla bellezza eterea, ma a renderla veramente irresistibile era l’aura che emanava la sua personalità ribelle, che alle bambole preferiva i giochi pericolosi in giardino e armeggiare nel suo piccolo laboratorio chimico.

La sua infanzia non fu spensierata, infatti, all’età di sette anni venne violentata da un amico di famiglia, il che comportò in lei un profondo turbamento psicologico aggravato dal contagio di una malattia venerea.

I genitori, per alleviare il dolore della figlia, accontentarono ogni sua richiesta, libertà che rese la già intraprendete Lee, ancor più sfrontata e dopo l’ennesima espulsione dal liceo, il padre fu costretto a mandarla a Parigi nel 1925, dove si iscrisse a una scuola di teatro che abbandonò subito dopo per vivere da bohémien.

Surrealist Lee Miller, Palazzo Pallavicini, 2019. ©Claudia Stritof

Theodore, preoccupato, la riporta in America dove Lee si iscrive nel 1926 all’Art Students League di New York, ma un avvenimento fortuito sta per cambiare drasticamente i suoi piani.

È il 1927, Lee Miller sta per attraversare una delle strade di New York e rischia di essere investita da un auto, se non fosse che Condé Nast – proprietario di “Vogue” e “Vanity Fair” – prontamente la afferra e la salva.

Lei per lo spavento balbetta qualcosa in francese e lui rimane colpito dalla giovane fanciulla dall’abbigliamento europeo; così nel marzo dello stesso anno il volto di Lee Miller viene utilizzato per illustrare un’ormai storica copertina di “Vogue” disegnata da Georges Lepape. Lee diventa il nuovo volto della società moderna e incarnazione della new woman.

Era innamorata della mondanità di New York, ma la vita parigina le mancava e decide di andare a Parigi.

Lee Miller appena arriva in città si reca nello studio di Man Ray, ma la portinaia la avverte che l’artista è appena partito per Biarritz e che farà ritorno solo tra un mese. Sconvolta dalla notizia Lee si reca in un caffè poco distante per bere un Pernod con molto ghiaccio, ma qualcosa accade: ecco Man Ray!

Inizia l’avventura surrealista di Lee Miller, che non solo diventa modella e musa ispiratrice di Man Ray, ma instaura con lui un profondo sodalizio artistico, che li porterà a realizzare insieme tra le più belle fotografie dell’epoca e fare importanti scoperte tecniche come la solarizzazione.

Lo stile della giovane Lee in poco tempo si fa tecnicamente maturo e concettualmente sofisticato grazie alle molte influenze che riceve in questo straordinario periodo della sua vita.

Roland Penrose and Picasso in Roland’s Studio, Farley Farm, Chiddingly, England 1950 by Lee Miller  © Lee Miller Archives, England 2021. All rights reserved. leemiller.co.uk Roland Penrose © Lee Miller Archives, England 2021. All rights reserved. leemiller.co.uk

Apre uno studio a Montparnasse nel 1930, da subito frequentato da una ricca clientela internazionale, che della sua collaborazione si avvalgono per realizzare fotografie commerciali, anche se il nucleo più importante di opere in è certamente quello rappresentato dalle immagini surrealiste, divertenti, misteriose e inquietanti.

Nel 1932 si trasferisce a New York per iniziare una nuova avventura e aprire uno studio fotografico, che ha un grande successo e lavora a ritmi serrati, dapprima dedicandosi ai lavori commerciali, per giungere solo in un secondo momento alla ritrattistica.

Lee Miller, essendo di natura inquieta ed estremamente esuberante, perde molto presto di interesse verso la vita newyorchese e, caso volle, che un giorno giungesse in città l’imprenditore egiziano Aziz Eloui Bey, conosciuto qualche tempo prima a Parigi grazie all’amica Tanja Ramm.

Lee e Aziz passano giorni intensi insieme nella tenuta di famiglia e un giorno Lee chiama la madre inaspettatamente e le dice: «stamattina ci siamo sposati!».

È il 19 luglio del 1934 e Lee si trasferisce al Cairo per vivere il suo idillio d’amore, anche se dopo un anno di permanenza inizia a emergere in lei una sensazione di inquietudine e insoddisfazione personale, che la spinge a partire verso Parigi.

La stessa sera del suo arrivo, va a un ballo surrealista dove incontra gli amici di vecchia data che, appena la vedono, le corrono incontro rimproverandola per essere sparita per cinque lunghi anni.

Surrealist Lee Miller, Palazzo Pallavicini, 2019. ©Claudia Stritof

Durante questa stessa festa rivede anche Julian Levy, gallerista newyorchese da cui Lee aveva esposto le proprie fotografie, e fu lui a presentargli Roland Penrose, collezionista d’arte con cui subito scocca il fatidico coup de foudre!

Qualcosa è cambiato in lei dopo aver riassaporato la vita spensierata di Parigi e anche Aziz se ne accorge.

Lee scappa dall’Egitto con l’intenzione di intraprendere un lungo viaggio insieme a Roland Penrose, ma la situazione precipita velocemente a causa dell’invasione della Polonia da parte di Hitler.

Tornati a Londra, lui viene incaricato di tenere lezioni sulle tecniche di mimetizzazione, mentre Lee lavora come fotografa per “Vogue”, all’epoca diretta dal fotografo Cecil Beaton, il quale inizialmente rifiuta il suo aiuto, ma che accetta all’indomani dello scoppio della guerra, dato che la maggior parte dei fotografi furono costretti ad arruolarsi.

Lee Miller dopo un anno fa richiesta di accreditamento alle forze armate Usa come corrispondente di guerra, attività suggeritagli dal nuovo fotografo di “Life”, David E. Scherman, suo grande amico, amante e compagno di viaggio per tutti gli anni dei tragici combattimenti.

I primi servizi di Lee sono dedicati alle protagoniste silenziose della guerra, le donne e al ruolo, anche se a queste immagini continua ad alternare quelle realizzate per la moda, che a queste date ambienta tra le macerie londinesi.

Sei settimane dopo il D-Day, va in Normandia per documentare il lavoro delle infermiere negli ospedali di prima linea; tornata in agosto a Londra, s’imbarca con la US Navy perché incaricata di raggiungere Saint-Malo per fotografare la fine dei combattimenti nella città, ma contrariamente alle notizie ricevute, la guerra non era finita e Lee è l’unica inviata sul posto.

Era una donna forte e coraggiosa, condivideva le razioni di cibo con i militari, recuperava i feriti sul campo di battaglia e fotografava i primi attacchi con le bombe a napalm, ma poco dopo la resa dei tedeschi, venne scoperta da un ufficiale in zone di guerra a lei interdette, violazione che le procurò un arresto immediato.

Terminato il periodo di reclusione, Lee arriva a Parigi il giorno della Liberazione ma il peggio doveva ancora avvenire, perché inizia per lei e Scherman un periodo di incessanti spostamenti che li porterà fino in Germania.

Lee decide di accreditarsi con l’Us Air Force e attraversa la Francia per partire alla volta di Torgau in Germania, per poi fermarsi a Norimberga, dove scopre che la Rainbow Company sarebbe entrata nel campo di concentramento di Dachau.

I due fotografi, Miller e Scherman, furono tra i primi ad accedere all’area e Lee rimase incredula per ciò che stava vedendo: l’odore era nauseabondo, le cataste di corpi erano innumerevoli, i moribondi giacevano disperati in pozze di vomito ed escrementi, mentre alcune SS erano state linciate dai prigionieri.

Di fronte a tale orrore la verità non poteva più essere celata e Lee sentì l’esigenza di raccontare ciò che aveva visto senza mezzi termini.

Lee e David alloggiarono anche a Monaco, luogo dove viene scattata quella che è una delle fotografie più conosciute di Lee Miller: lei nuda nella vasca da bagno appartenuta al Führer, mentre il giorno seguente i due fotografi partono verso Salisburgo, per seguire l’attacco dell’inespugnabile chalet appartenuto Hitler, fino a che non giunge la notizia ufficiale: la guerra è finita!

Tornata a Parigi Lee Miller ha un grave crollo psicologico dettato anche dall’uso che faceva di amfetamina, alcol e sonniferi ma, nonostante ciò, continua a viaggiare senza tregua.

La fine della guerra fu un momento di amara disillusione per Lee Miller, la quale si rese conto che il mondo era ancora dominato dall’interesse personale di criminali e politici corrotti. Ormai tutto le sembrava inutile.

Emotivamente fragile e fisicamente sfinita, torna a Londra e nell’estate del 1946 intraprende un viaggio con Roland in America.

 Roma Gypsies and Lee Miller, Brasov, Romania 1938 by Roland Penrose © Lee Miller Archives, England 2021. All rights reserved. leemiller.co.uk Roland Penrose © Lee Miller Archives, England 2021. All rights reserved. leemiller.co.uk

È un periodo molto felice: Roland acquista una nuova casa in campagna, Farley Farm, che diventa meta prediletta di artisti, critici e letterati, oltre a ospitare la sua ricca collezione d’arte contemporanea; nasce Anthony e Lee dedica sempre più tempo alla casa e al giardino.

I servizi per “Vogue” si fanno sporadici e la cucina diventa la nuova passione di Lee, tanto da venir riconosciuta come cuoca a livello internazionale.

Le uniche fotografie che scatta in questo periodo sono i ritratti degli amici impegnati in stravaganti attività a Farley Farm, una ricca collezione di immagini che sarà pubblicata su “Vogue” nel 1953 con il titolo Working Guests, l’ultimo articolo della carriera da giornalista di Lee Miller. 

Dal 1955 Lee subisce un grave turbamento psico-fisico: non si piace più, veste in modo sciatto e il whisky è la sua sola consolazione, inoltre Roland è sempre più impegnato a fondare l’Institute of Contemporary Arts ed è per giunta innamorato di una nuova compagna.

I tempi in cui Lee scattava penetranti fotografie sono ormai lontani e una sera mentre era a cena con l’amica Tanja Ramm le confessa: «mi hanno appena detto che ho il cancro. Non ho voglia di parlarne, ma so che non durerà a lungo».

Il declino fu veloce, Roland non la lasciò mai da sola e fu tra le sue braccia che Lee Miller morì il 21 luglio 1977.

Si chiude così il racconto su Lee Miller, una donna e artista che ha vissuto la sua vita vissuta sempre al massimo grado di intensità, in perenne ricerca di se stessa e delle infinite occasioni che l’esistenza poteva offrirle.

Surrealist Lee Miller, Palazzo Pallavicini, 2019. ©Claudia Stritof

È difficile raccontare una donna di tale caratura ma a emergere è sempre la sua duplice natura: donna ironica e divertente e fotografa empatica e rispettosa del dolore altrui, qualità umane che le hanno permesso di cogliere con grande sensibilità gli eventi più tragici del XX secolo.

Testi estrapolati dalla mostra "Surrealist Lee Miller" (Palazzo Pallavicini, Bologna, 2019 ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati 
Archivio Lee Miller
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Tatuaggi e fotografia: ritratti di una passione. https://www.cultmag.it/2021/03/06/tatuaggi-e-fotografia-ritratti-di-una-passione/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/03/06/tatuaggi-e-fotografia-ritratti-di-una-passione/#respond Sat, 06 Mar 2021 16:13:00 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1945 Morto il 30 giugno 2010, Herbert Hoffmann è stato uno dei grandi nomi del tatuaggio e non ha certo bisogno di presentazioni; meno conosciuta è invece la sua attività di fotografo, un lavoro svolto con costanza fino alla fine dei suoi giorni.

Al 2002 risale il suo BilderbuchMenschen – Tätowierte Passionen 1878-1952 (Living Picture Books – Portrait of a Tattooing Passion 1878-1952), libro fotografico edito nel 2002, che contiene più di quattrocento immagini in bianco e nero scattate in oltre trent’anni di onorata carriera.

Sfogliando le pagine di questo meraviglioso libro fotografico si percepisce subito lo spirito indagatore di Hoffmann e la sua bravura come tatuatore, che gli hanno permesso nel tempo di essere riconosciuto come grande artista e, soprattutto, di far accettare un’arte che prima di lui si riteneva disonorevole, sopratutto nella Germania nazionalsocialista, contesto culturale e storico in cui il giovane Hoffmann cresce.

Herbert Hoffmann, Emma und Oskar Manischewski, 1958, Vintage Printe, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Negli scatti da lui realizzati si nota come l’attenzione non vada al dettaglio del tatuaggio, come accade in molte riviste specializzate, ma alle persone, ai loro atteggiamenti e ai loro rapporti.

Ritratti attraverso cui Hoffmann, involontariamente, compie un attento studio antropologico della personalità degli uomini e delle donne che da lui si recavano per farsi tatuare; denotando come l’importante non sia il tatuaggio in sé, ma le storie narrate che si celano dietro di esso e che portano il proprio corpo a diventare una tela dipinta su cui sono impressi i segni d’esistenza.

Herbert Hoffmann, Ulla Hansen, 1968, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Herbert Hoffmann nasce a Stettino nel 1919, città della Pomerania anteriore tedesca. La sua passione verso i tatuaggi nasce molto presto, quando da bambino guardava con meraviglia e stupore i corpi tatuati delle persone che incontrava per strada: solitamente proletari e uomini del popolo, che con fierezza mostravano i propri tatuaggi, nonostante nella Germania nazista fosse proibito tatuarsi, perché simbolo di pericolosità e di marginalità sociale.

Fino al 1939 il giovane Hoffmann lavora come fornaio, attività che sarà costretto a cessare perché viene chiamato alle armi e costretto ad arruolarsi. Dopo essere stato fatto prigioniero dall’Armata Rossa nel ’44, una volta liberato, va ad Amburgo dove decide di farsi tatuare una croce, un’ancora e un cuore, simboli delle virtù teologali, al cui interno è anche un cartiglio con le parole fede, speranza e carità.

È il 1949: per il giovane trentenne il tatuaggio sulla mano destra sarà solo il primo di una lunghissima serie.

Herbert Hoffmann, Wilhelm Wedekämper, 1960, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Apprende il mestiere da autodidatta e sperimenta le prime opere su uomini anziani che si affidano alle sue mani ancora inesperte, ma piene di talento.

Nel 1955 ottiene la licenza di tatuatore e apre il suo studio ad Amburgo e, sempre in questo stesso periodo, Hoffmann inizia a scattare con la Rolleiflex.

I tatuaggi oggi sono diventati la normalità: molti i testi dedicati alla sua storia e ancor di più le mostre a loro dedicate: da quella dedicata al tatuatore Marco Manzo, che ha portato i corpi delle sue donne al Maxxi di Roma, oppure Tattoo – Storie sulla pelle al museo, al museo M9 di Mestre, fino a giungere alla più recente Sergei Vasiliev – Russian Criminal Tattoo alla ONO arte contemporanea di Bologna.

C’è stato un un tempo in cui questi segni incisi sulla pelle non erano ben visti dalla società, ma con estrema lucidità e grazie alla sua Rolleiflex, Hoffmann è riuscito a cogliere un vivido ritratto di un mondo rimasto ai margini per fin troppo tempo, narrando così un mondo in continua evoluzione.

Frau Wulkow, ca. 1967,29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Come Herbert Hoffmann ha detto: «chi è estraneo al tatuaggio spesso vede solo corpi deturpati o raramente abbelliti da tatuaggi incancellabili che evocano sofferenze fisiche e rischi di infezioni […] ma per chi si tatua non è così. Nessuno si tatua per diventare più brutto, nè per masochismo! Chiunque si tatua, lo fa per dare a se stesso qualcosa di più: per essere più bello, per sentirsi e apparire più forte, più sexy, per dare sfogo a un dolore, un lutto, una gioia, un amore, per scongiurare una paura, un pericolo o per gioco […] Ci si tatua per esprimere i sentimenti più seri e profondi e per quelli più superficiali e frivoli e… perchè no?, per rivendicare il proprio diritto al gioco. Non ho mai incontrato qualcuno che si tatuasse per farsi del male! Spesso i tatuaggi che vediamo per strada non sono proprio bellissimi, questo però dipende dalla disinformazione e dal cattivo gusto dilagante, non da un intento autolesionista. Oggi sono brutti i vestiti, la moda, le automobili, le case, la pittura… e sono brutti molti tatuaggi… solo un’informazione corretta e libera da pregiudizi e luoghi comuni può insegnare a distinguere quelli belli da quelli brutti e aiutare a capire che un bel tatuaggio è un tatuaggio che ti rende più bello…».

Negli uomini del popolo, Hoffmann trova la sua personale fonte di ispirazione, decidendo di farsi guidare da loro verso universi sconosciuti e microcosmi unici, ma tutti talmente importanti da dover essere eternizzati in uno scatto… e questo lo farà fino al 2010, giunto all’età di 90 anni.

Testo  ©Claudia Stritof. All rights reserved
Photo Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann
Articolo del 15/06/2015 aggiornato in data 6 marzo 2021.
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Articoli da me scritti per altre riviste. In questa sezione i link di riferimento. https://www.cultmag.it/2021/02/14/mi-trovi-anche/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/02/14/mi-trovi-anche/#respond Sun, 14 Feb 2021 10:50:11 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6821

Addio a Giuseppe Rotunno, il mago della luce

Photolux Magazine,
8 febbraio 2020.

Jeff Bridges dietro l’obiettivo. Panoramiche dal set.

Photolux Magazine,
Issue 6 "Intersezione. Tra cinema e fotografia", 10 novembre 2020.

Le “fotografie animate”. Piccola storia di una scoperta che rivoluzionò il mondo

Photolux Magazine,
Issue 6 "Intersezione. Tra cinema e fotografia", 10 novembre 2020.

Matthieu Gafsou – “Human+”: Il divorzio della forma dalla materia

Photolux Magazine,
Issue 5 "Di Mondi Possibili", 9 luglio 2020.

Mario Giacomelli – Gente di Calabria

Photolux Magazine,
27 maggio 2020.

Alinari – Storia di un Archivio

Photolux Magazine, 11 maggio 2020.

Masayoshi Sukita – Stardust Bowie

Photolux Magazine, 6 marzo 2020.

Romano Cagnoni – L’essenza della storia

Photolux Magazine,
Issue#3 Mondi
15 novembre 2019.

Baron Wolman – Woodstock: un’utopica realtà

Photolux Magazine, 6 marzo 2020.

La conquista di una “magnifica desolazione” nelle fotografie NASA

Photolux Magazine, 
Issue#3 Mondi
15 novembre 2019.

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Strade principali e vie secondarie https://www.cultmag.it/2021/02/12/strada-principale-e-vie-secondarie/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/02/12/strada-principale-e-vie-secondarie/#respond Fri, 12 Feb 2021 08:26:55 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6745 Io ero la piccola, Lei la grande. Ci passavamo diciassette mesi di differenza e credevo che non mi avrebbe mai lasciata. Ho avuto una sorella ma, a soli 26 anni, mi è stata strappata via da un mostro famelico.

Se dovessi scrivere un romanzo sulla nostra storia, questo sarebbe l’inizio.

Scriverne non è mai stato facile, nonostante io l’abbia fatto regolarmente, a partire dal 12 marzo di quell’anno maledetto.

Il motivo? Trovare una via di uscita al dolore che mi stava annientando, prima a causa della malattia, poi per la sua assenza.

Ernest Hemingway ha scritto: “non c’è nulla di difficile nella scrittura. Tutto ciò che fai è sederti alla macchina da scrivere e sanguinare”.

Così è! Chi parla di sé, qualunque sia il mezzo di scrittura, “sanguina”!

In questi giorni nel mio personale “museo della memoria” ha fatto la sua comparsa il fotografo Settimio Benedusi con il progetto ES_SENZA del 2015.

Un lavoro che inizia con un autoritratto realizzato dal fotografo poco prima di andare alla messa commemorativa in suffragio del padre, morto otto anni prima.

Ritrattosi insieme alla madre Renza, i due soggetti, metaforicamente “nudi” di fronte ai nostri occhi, affrontano l’assenza; una dualità, questa tra presenza/assenza, che viene vissuta costantemente da coloro che hanno perso la persona amata.

Evidentemente sentita anche dallo stesso Benedusi, la cui fotografia, nata da un’esigenza di espressione personale, si è tradotta in una solida riflessione concettuale.

Settimio Benedusi, ES_SENZA, 2015 ©Settimio Benedusi

Quando qualcuno ci lascia si è ossessionati dalle sue fotografie e Benedusi non è da meno, ma lui non si limita a osservare le immagini con nostalgia o con photos, direbbero i greci, ma le estrapola dall’album di famiglia e le modifica con photoshop, cancellando la figura del padre, prefigurando il luttuoso evento e la solitudine da esso derivata.

Diversi tipi di “scrittura” ci portano a un unico fine: sondare il proprio passato e le proprie emozioni; guardarle in faccia senza aver paura. Sanguinare e reagire.

Il mio cammino è iniziato sette anni fa e dopo il primo scritto, letto in chiesa dalla voce spezzata di mia madre, sprofondai nel divano di casa attanagliando la mente con mille domande.

A un anno di distanza confesso di aver imparato a pronunciare la parola morte; una piccola bugia detta a me stessa probabilmente per sopravvivere alla perdita.

Rivivevo i nostri ricordi d’infanzia e pian piano riaffioravano quelli felici, dimenticando progressivamente la malattia.

Nel giorno del suo 31° compleanno, capivo di essermi smarrita nuovamente e mi appellavo alla sua sicurezza per ritrovare la via da percorrere.

Cercare Lei insistentemente mi ha portata a smarrirmi. Non si può essere un’altra persona, men che meno cancellare il passato, ma questo lo si può riscrivere; il che non vuol dire falsarlo, ma semplicemente cercare di comprenderne lo svolgimento, stando attenti a non rifugiarsi in esso troppo a lungo, perché si rischia di cadere in un oblio profondo, come è accaduto a me.

Che non fosse ancora tutto lineare nel mio percorso, risulta chiaro dallo scritto quattro anni senza te…, quando riemergeva in me la paura della malattia e cinque anni dopo mi sentivo impaurita come una moleca senza guscio.

Probabilmente Freud avrebbe definito questo ripresentarsi degli eventi traumatici una “coazione a ripetere” che mi ha impedito di prendere coscienza con trasparenza della situazione e che evidentemente mi destabilizzava.

Settimio Benedusi, ES_SENZA, 2015 ©Settimio Benedusi

Così, sei anni dopo, facevo di nuovo i conti con la malattia, motivo che mi ha convinta a pubblicare le uniche fotografie superstiti del nostro ultimo anno insieme.

L’energia liberata in tutti questi anni mi aveva stimolata e desideravo mettere ordine al caos; un lavoro che si è svolto in modo lento e graduale, con tanto dispendio di energia fisica e mentale.

Così l’anno scorso, di fronte al tappeto blue di Yves Klein al MAMAC di Nizza, capivo che era ormai giunto il tempo di iniziare a rileggere ciò che avevo scritto.

In questi anni più scrivevo e più “sanguinavo”, ma al tempo stesso più cercavo di rielaborare verbalmente e grammaticalmente le frasi sconnesse e troppo viscerali, più la comprensione giungeva, trovando quel distacco dall’emotività totalizzante e autodistruttiva. Un distacco tra l’Io narrante e l’Io vivente che altro non è che un modo per sopravvivere ai propri pensieri con lucidità, cercando di far cadere ogni maschera e illusione.

Nell’ultimo anno credo di aver preso coscienza sulla meta da raggiungere, dico “credo” perché ancora mi trovo nelle vie secondarie alla ricerca della via maestra da percorrere con sicurezza. Sento che non è ancora il momento di scrivere la parola fine al racconto del mio passato; ma ci siamo quasi.

Prima o poi, arriverà il momento in cui godere a piene mani dei piccoli momenti di felicità. Forse è una vana speranza, forse mi sentirò per sempre a metà. Queste sono altre domande destinate a restare senza risposta… ma il fatto che ormai io non me le ponga più con tanta insistenza, qualcosa vorrà dire.

Persa tra mille ricordi, parole e fotografie, ecco che anche oggi mi sono ritrovata nel mio Museo, rifugio e salvezza dell’anima.

Mari, sempre nel mio cuore: mia carezza, mia forza, mio coraggio. Come ogni anno, stasera brinderò a te mia dolce sister.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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