alberto giacometti – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Mon, 15 Mar 2021 14:45:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Fondazione Maeght: “Ceci n’est pas un musée!” https://www.cultmag.it/2021/03/15/fondazione-maeght-ceci-nest-pas-un-musee/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/03/15/fondazione-maeght-ceci-nest-pas-un-musee/#respond Mon, 15 Mar 2021 13:56:35 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6959 La Costa Azzurra non è sinonimo solo di mare e divertimento, ma basta dirigersi verso l’interno per visitare paesini incastonati nella folta vegetazione mediterranea che domina le Alpi Marittime.

Saint Paul de Vence, situato a 25 km da Nizza, è un borghetto cinto da mura che, durante il corso del Novecento, è diventato meta prediletta di artisti come Paul Signac, Amedeo ModiglianiPablo Picasso, Henri Matisse e molti altri.

Proprio in questo paese, nel 1920, Paul Roux, grazie all’aiuto della madre, apre un piccolo bar- caffetteria “Chez Robinson”, che qualche anno dopo, insieme all’inseparabile moglie Titina, trasforma in locanda con tre camere da letto e chiama La Colombe d ́Or.

Raux, amante dell’arte e della culturale, intrattiene lunghe conversazioni con i suoi ospiti e organizza serate appositamente dedicante, che per ringraziarlo dell’accoglienza – come era uso all’epoca – gli donando opere d’arte con cui inizia ad adornare le pareti della locanda.

Sulle orme del padre e della madre, il figlio Francis, prosegue l’attività: nel 1952, Fernand Léger installa una sua grande opera sulla terrazza; negli anni Cinquanta è la volta di Mirò, Braque, Chagall… a cui seguirono Calder, César e molti altri artisti, fino all’ultimo intervento site specific avvenuto qualche anno fa.

Prima di visitare Saint Paul de Vence non conoscevo l’affascinante storia de “La Colombe d’Or”, ma, durante l’estate scorsa, andammo lì per visitare la Fondazione Maeght.

Un luogo la cui storia inizia dall’amore che lega gli editori e mercanti d’arte, Marguerite e Aimé Maeght e la loro genuina passione verso l’arte contemporanea; infatti non nasce come uno spazio museale, ma è il frutto di un progetto molto più ampio, una vera e propria fucina d’arte, in cui, nel corso di molti anni, avrebbero lavorato artisti diversi tra loro, ma uniti dall’idea di dare il loro apporto a un’utopia, divenuta realtà.

Marguerite e Aimé commissionano la progettazione dell’edificio all’architetto Josep Lluís Sert, nativo di Barcellona e formatosi sotto l’influenza di Antoni Gaudì, dalla Bauhaus e di Le Corbusier.

Sert con la sua architettura ha rispettato la volontà dei committenti, inserendo l’edificio nell’ambiente circostante e facendolo dialogare armoniosamente con esso, grazie a una struttura caratterizzata da grande chiarezza formale e funzionale.

Nasce così un percorso che si snoda tra le sale interne della Fondazione e i cortili esterni; passando attraverso terrazze, bacini d’acqua e il labirinto.

Appena varcata la biglietteria, ad attenderci è il giardino delle sculture progettato dal paesaggista Henri Fisch, dove sono conservate le ceramiche di Léger; La Fontaine di Pol Bury del 1978; Les Reinforts, stabile di Alexander Calder del 1963; la scultura del vento di Takis, le sculture di Jean Arp e quelle di Eduardo Chillida, Erik Dietman, Barbara Hepworth, Joan Miró e molti altri artisti.

Entrati all’interno dell’edificio, ad accoglierci è un primo nucleo dedicato alle esposizioni temporanee, ma, fin da subito si vedono particolari interessanti, incontrando le vetrate di Jean Miró oppure la grande vasca musiva dove “nuotano” Les Poissons di George Braque.

La Fondazione è una continua sorpresa e a ben guardare, altre opere si scorgono sulla muratura e sul perimetro esterno degli edifici: il mosaico del muro di cinta è realizzato da Pierre Tal-CoatMarc Chagall firma il mosaico les Amoureux all’esterno della biblioteca (edificio che custodisce circa 30.000 volumi di arte moderna e contemporanea!); le vetrate Oiseau mauve et blanc di Georges Braque e La Croix et le Rosaire di Raoul Ubac, adornano la cappella di San Bernardo, che ospita anche un crocifisso di fattura spagnola del XII secolo e una Via Crucis di Ubac.

Per chi è amante di Alberto Giacometti, rimarrà piacevolmente sorpreso dalla corte da lui pensata e a lui dedicata, in cui sono conservate, solo per citare alcune opere, L’homme qui marche IFemme debout e Femme de Venise; ma non è tutto, perché volgendo lo sguardo verso l’alto, all’epoca della visita, notammo anche una panchina verde, con su scritto: “Per quelli che volano”, opera dell’artista Luigi Mainolfi e dedicata alla moglie del collezionista Giuliano Gori, ideatori di un altro incantevole luogo: la Fattoria di Celle in Toscana.

Non in ultimo è da citare il Labirinto di Miró, un’opera monumentale dove sono conservate sculture e ceramiche dell’artista catalano e realizzato in collaborazione con l’amico ceramista Josep Llorens Artigas.

La Fondazione Maeght è stata inaugurata il 28 luglio 1964 dal visionario André Malraux, all’epoca Ministro di Stato per gli affari culturali, sotto la presidenza di Charles de Gaulle.

LES GIACOMETTI: UNE FAMILLE DE CRÉATEURS. GIOVANNI, AUGUSTO, ALBERTO ET BRUNO

3 luglio - 14 novembre 2021, Fondazione Maeght

Alberto Giacometti, Le couple (Homme et Femme), 1926. Bronze, 59.5x17,5 cm. ©Succession Alberto Giacometti (Fondation Giacometti Paris + Adage Paris), 2021.

«Vous avez tenté de faire quelque chose qui n’est en aucune façon un palais, en aucune façon un lieu de décor et, disons-le tout de suite, parce que le malentendu va croître et embellir, en aucune façon un musée. Ceci n’est pas un musée!», disse il politico e scrittore, continuando – «lorsque nous regardions tout à l’heure le morceau de jardin où sont les Miró, il se passait la même chose que lorsque nous regardions la salle où étaient les Chagall […] Ces petites cornes que Miró réinvente avec leur incroyable puissance onirique sont en train de créer dans votre jardin, avec la nature au sens des arbres, un rapport qui n’a jamais été créé».

Finisce qui la nostra visita in questo incantevole luogo.

Arte e natura: un binomio indissolubile che caratterizza la Fondazione Maeght; come già detto, luogo di incontro e di scambio culturale per i molti artisti che hanno attraversato le sue sale e che all’unisono, hanno reso questo spazio complesso, intellettualmente denso e artisticamente unico.

Personalità diverse che all’unisono, hanno reso questo spazio complesso, intellettualmente denso e artisticamente unico.

La Fondazione Maeght è privata e si autofinanzia con risorse proprie, principalmente attraverso i biglietti d’ingresso, ma è stata riconosciuta d’interesse pubblico, portando avanti una politica culturale di spessore.

Un luogo che riunisce una delle più importanti collezioni di opere d’arte del XX secolo, nato solo grazie alla lungimiranza di Marguerite e Aimé Maeght e ancor oggi valorizzato dagli eredi.

Testo a cura di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
Foto ©Beatrice Piantanida ©Francesco Sardisco
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La Grande Madre https://www.cultmag.it/2020/05/10/la-grande-dea/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/05/10/la-grande-dea/#respond Sun, 10 May 2020 11:32:05 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6675 La Grande Madre è frutto di una riflessione intorno al concetto di donna intesa come entità creatrice e trasformatrice che dall’antichità, fino a oggi è stata venerata in molte culture in quanto fonte di vita e mediatrice con il divino.

Un giorno ero in visita alla Raccolta Lercaro di Bologna, dove sono conservate molte opere di eccelsa bellezza e grande profondità concettuale.

In questa giornata, dedicata alla festa della mamma, ho deciso di ripercorrere con la mente una visita svolta ormai molto tempo fa e fare il mio augurio attraverso l’arte.

Nellasala vi erano due opere di Eugenio Pellini La madre del 1897 e L’idolo del 1906, a cui si aggiunge una bellissima scultura di Jean Michel Folon, Femme-oiseau del 2002, collocata nella sala dedicata ai reperti fossili in virtù del suo materiale: pietra fossile del Marocco.

Da quel momento, osservando attentamente le tre figure di donna, ho iniziato a riflettere sull’aspetto spirituale che le tre opere sembravano esprimere, anche attraverso i loro titoli.

Eugenio Pellini, La Madre, 1897, bronzo. Courtesy Raccolta Lercaro, Bologna. ©Fotografia di Claudia Stritof

Inizialmente a colpirmi è stata la cromia dell’opera di Folon, seguita subito dopo dalla consapevolezza che le tre sculture rappresentassero tre diverse visioni di donna colte con una posizione delle braccia, atte a stringere il bambino nelle sculture di Pellini, e il grembo nella scultura di Folon.

La distanza concettuale e cronologica trasmessami dalle tre opere è stata colmata quando ho visto nelle pagine della biografia di Alberto Giacometti, la meravigliose scultura Femme qui marche.

È stato in questo preciso momento che ho notato come le sculture disposte in sequenza facessero emergere un ragionamento sulla forma femminile e sulla sua progressiva astrazione.

A questo punto le mie riflessioni sono sorte spontanee e tutte convergevano sull’idea de La Grande Dea, divinità primordiale che incarna il ciclo della vita.

Giunta a casa, iniziai a scrivere questo testo, accostando la riflessione, alla lettura di alcuni testi critico-letterari da cui estrapolai citazioni per potenziare il significato concettuale della mia riflessione.

Si sono dimostrate fondamentali per legare e rendere esplicito il significato della sequenza dando così una lettura nuova all’insieme e anche alle singole opere.

Apuleio ne L’Asino d’oro, racconto come la Dea, rivolgendosi allo sventurato Lucio, disse: «io sono colei che è la madre naturale di tutte le cose, signora e reggitrice di tutti gli elementi, la progenie iniziale dei mondi, il culmine dei poteri divini, regina di tutti coloro che popolano gli inferi […] Il mio no­me, la mia divinità sono adorati ovunque nel mondo, in di­versi modi, con svariate usanze e con molti epiteti».

Eugenio Pellini, L’Idolo, 1906, bronzo. Courtesy Raccolta Lercaro, Bologna. ©Fotografia Claudia Stritof

La Dea rappresenta la fertilità, intesa nella duplice accezione, materna e sensuale: nuda e in piedi simboleggia la sensualità, mentre seduta è simbolo di protezione e nutrimento.

«Come madre e signora della terra, la Grande Madre è il “trono in sé” […] su cui il bambino, nato da questo grembo siede in torno. Essere preso in grembo, così come essere portato al petto è un modo simbolico per esprimere l’adozione del bambino, e dell’uomo, da parte del femminile», ed è così che essa è raffigurata da Pellini nelle sculture La Madre e L’Idolo.

A sottolineare questa varietà è proprio Mefistofele, che nel primo atto della seconda parte del testo goethiano, racconta al Faust di un luogo in cui «vi sono auguste dive il cui regno è la solitudine; intorno ad esse non v’è né spazio né tempo, e non si può parlare di esse senza sentirsi turbati. Sono le Madri […] Le une sedute, altre in piedi e vaganti così come si trovano. Forme, continuo cambiamento di forma, eterna presenza del senso eterno! Immagini di tutte le creature…».

Il testo rende esplicito il polimorfismo della Grande Dea, dalle forme umane ma anche astratte, così come appare nelle sculture ieratiche di Giacometti sopracitata, divinità acefale la cui femminilità è visibile solo grazie all’enfatizzazione posta sugli organi sessuali. 

Jean Michel Folon, Femme-oiseau, 2002, pietra fossile del Marocco. Raccolta Lercaro, Bologna. ©Fotografia Claudia Stritof

La vulva così come «i seni minuscoli, appena accennati rafforzano la tendenza, inconscia, a trascendere la dimensione corporea elementare. Diviene particolarmente evidente il momento dell’astrazione, attraverso il quale si accentua il carattere significativo, simbolico, trasformatore del femminile […] Una dea raffigurata in tal modo non rappresenta solo una dea della fertilità, ma anche una dea della morte e dei morti. Essa è la madre terra, la madre della vita, che domina su tutto ciò che è scaturito e nato da lei e che ritorna a lei».

Ed ecco che la scultura Femme-oiseau di Folon chiude il cerchio: una dea maestosa con le braccia incrociate sotto il petto a mettere in evidenza i piccoli seni, la quale, vista frontalmente è una statua votiva di dea primigenia, come quelle che un tempo venivano custodite all’interno delle celle degli antichi templi, ma se vista lateralmente manifesta il suo aspetto mostruoso con la testa di uccello con piccoli occhi neri incavati e il becco rivolto al cielo. La Dea così rappresentata nell’antichità era la mediatrice tra cielo e terra, colei che trasportava le anime dei defunti e le proteggeva vegliando in solitudine negli inferi.

Siamo giunti alla fine di un percorso lungo e non poco travagliato ma che ha portato sicuramente ad una nuova riflessione intorno al concetto di madre.

Jean Michel Folon, Femme-oiseau, 2002, particolare. Raccolta Lercaro, Bologna. ©Fotografia Claudia Stritof

Se all’inizio mi era sembrato impossibile legare concettualmente e formalmente opere così diverse, oggi La Grande Dea ha assunto la sua forma definitiva, trovando nel mutamento della forma la chiave di volta per comprendere secoli di letture iconografiche sul tema della divinità e della Madre. Attraverso l’arte, il potere visionario senza tempo di artisti, che attraverso il simbolo della Madre, hanno manifestato il loro legame atavico che unisce l’uomo al divino.

Testi di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati
BIBLIOGRAFIA:
- Johann Wolfgang Goethe, Faust, liberliber [Progetto Manunzio], 2005.
- Robert Graves, La Dea Bianca. Grammatica storica del mito poetico, Apelphi Edizioni, 2009.
- Erich Neumann, La Grande Dea. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, Astrolabio Ubaldini editore, 1981.
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Lo scrigno dei ricordi https://www.cultmag.it/2017/04/25/lo-scrigno-dei-ricordi/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/04/25/lo-scrigno-dei-ricordi/#comments Tue, 25 Apr 2017 10:35:33 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4837 Nel mio armadio c’e uno scrigno di inestimabile valore al cui interno non sono conservati gioielli e oggetti preziosi ma semplicemente i mie segreti: diari di una vita, quaderni su cui scrivevo i messaggi ricevuti, fotografie, regali e pensieri che nel tempo mi sono stati donati e che per qualche ragione ho deciso di custodire.

Appena si apre la scatola ciò che si sente è un odore di carta invecchiata e sgualcita come un abito tirato fuori dall’armadio dopo tanto tempo. Fogli che ora si presentano ingialliti e strappati, l’adesivo diventato ormai giallo si sgretola al semplice tocco della mano come fosse un sottile strato di caramello mentre la colla è penetrata all’interno delle fibre della carta lasciando segni che un restauratore non riuscirebbe a far sparire neanche con la più minuziosa delle tecniche di pulitura.

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Diario segreto, autunno 2000. ©Claudia Stritof.

Tracce superficiali di un passato penetrante che sono lì a testimoniare la storia di una vita sepolta sotto strati di borse e cinture. Pagine e pagine scritte con penne coloratissime che un tempo emanavano un odore dolce e zuccheroso come quella penna multicolore, scomodissima per scrivere ma divertentissima da usare.

Nel mio scrigno tutto è rimasto così come lo avevo conservato: ci sono lettere inviatemi dagli amici, quelle tragicamente shekspiriane dei primi fidanzati, palloncini a forma di cuore, portachiavi, mozziconi di sigaretta, della sabbia nera, fiori, frammenti di gesso, pietre colorate e una stella marina.

Un’immensa ricchezza conservata dentro semplici scatole di cartone e di latta, proprio come quelle che Christian Boltanski usa nelle sue installazioni, ed è proprio pensando a lui che mi sorge un dubbio: il mio conservare scrupolosamente la vita in una scatola è solo un modo per proteggerla o forse è la voglia di congelare il tempo passato? Si può fermare il tempo? Ed è giusto farlo?

Alberto Giacometti nel lontano 1934 ha realizzato una scultura, che in un certo senso racchiude tutti questi miei dubbi, s’intitola Oggetto Invisibile e raffigura una donna con le mani davanti al petto intenta a stringere un oggetto non è visibile. La donna pensa di possederlo ma in realtà «è un’eterna ricerca» di un desiderio che non può essere soddisfatto mai pienamente perché frutto di una mancanza e di un ricordo lontano.

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Alberto Giacometti, Oggetto Invisibile, 1934, particolare.

Volente o nolente questi scrigni dei ricordi, scricchiolanti e arrugginiti, nel momento della  loro riscoperta, aprono a mondi lontani, oggetti che soli ricordano le tue indicibili verità, i tuoi dubbi, le tue paure, le tue gioie e le tue sconfitte.

L’altro giorno sistemando il mio armadio, tutto ciò è riemerso improvvisamente e allora mi sono seduta per terra e ho iniziato a sfogliare quelle pagine lacere e a ricordare tanti piccoli momenti di una vita che sembra lontanissima.

Non ricordo bene dove ho letto questa frase di Dostoevskij ma penso che la potenza del ricordo non sia stata meglio espressa: «sappiate, dunque, che non c’è nulla di più elevato, di più forte, di più sano e di più utile nella vita che un bel ricordo, specialmente se è un ricordo dell’infanzia… Se un uomo riesce a raccogliere molti di questi ricordi per portarli con sè nella vita, egli è salvo per sempre».

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Christian Boltanski.

La vita ti trasforma, ti fortifica, ti annienta e ti salva; una giostra in continuo movimento che a tratti ti fa gioire e a tratti ti fa disperare e che con lo scorrere del tempo porta a dimenticare quei dettagli secondari che pensi non abbiano nessun rilievo e che invece se letti attentamente si dimostrano essere rivelatori per comprendere il tutto; un pò come fa Daniel Arasse che da una piccola mosca sul quadro del Crivelli apre la mente a interpretazioni inaspettate e moraleggianti, tutto questo partendo da un semplice e strana mosca rappresentata su un quadro.

Probabilmente è proprio questa la ragione dell’esistenza della scatola dei segreti: ricordarmi quei piccoli dettagli del passato che a distanza di anni si dimostrano essere fondamentali per capire il presente, il particolare che manifesta le ragioni del tutto.

Sfogliando le pagine del diario leggo di una Claudia che scriveva tre pagine di “ti amo xxx” con la penna rosa, in stampatello e con la E senza stanghetta verticale, perché così andava di moda; il 6 novembre del 2000 aspettavo mamma «con il cornetto del Veneto al cioccolato», mentre la sera dello stesso giorno le pagine si fanno più strazianti perché il mio fidanzato mi ha lasciata e mia sorella per non farmi pensare a questo “tragico dolore” pensa bene di farmi vedere per la prima volta Dracula e io, da instancabile scribacchina, mentre guardo il film annoto «mi sta terrorizzando, non guarderò mai più un film di paura. Ho troppa paura, perché non cambia?! Evviva ha cambiato», pensieri poetici insomma.

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Diario segreto, 2000. ©Claudia Stritof

E poi… il ricordo delle domeniche mattine passate al boschetto, le minuscole pizzette nella bustina bianca del Miramare, la morta zia Elvira, i miei continui mal di gola, le mille influenze, disquisizioni sull’utilità o meno del Grande Fratello e anche il «primo litigio con xxx per una cavolata» a cui faceva seguito la frase «lo amo perché non lo vuole capire», il tutto scritto senza punteggiatura e con una partitura della pagina che molto ricorda i poemi paroliberi marinettiani.

Il 12 novembre 2000 ricopiavo una poesia «tu mi hai dato la forza di amare, e smetto di avere rimpianti. Ci sono giorni in cui non vorrei incontrarti, tanta è la paura di piangere quando appari davanti ai miei occhi…» ed è così, messi di fronte a noi stessi, ai nostri pensieri e ai nostri dubbi proviamo gioia, ma al tempo stesso paura perché si cerca una spiegazione e un significato a quello che siamo e ai cambiamenti avvenuti in noi per poi scoprire fondamentalmente che forse l’unica cosa da fare è non aver paura.

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Diario segreto. ©Claudia Stritof

Ancora una volta mi viene in soccorso Anais Nin quando nel suo diario scrive: «quel che fa disperare la gente è che cerca di trovare un significato universale alla vita nella sua totalità, e finisce col dire che è assurda, illogica, priva di significato. Non c’e un grande significato cosmico che abbracci tutto, c’e solo il significato che ciascuno di noi dà alla propria vita, un significato individuale, un intreccio individuale, come un romanzo individuale, un libro per ogni persona», di cui solo noi possiamo comprenderne l’importanza e la potenza.

Se qualcuno trovasse la mia scatola direbbe: “che cianfrusaglie”, ma in realtà per me quelle parole e quei piccoli oggetti di poco conto sono ragioni di vita e momenti vissuti e condivisi con altre persone che porto nel cuore e che mi hanno fatto diventare ciò che sono ora… in sostanza è ciò che affermava il caro Fedor Dostoevskij, che certo si riferiva ai ricordi che ognuno porta nel proprio cuore, ma che se traslata la frase nella mia inaspettata scoperta rende evidente l’emozione provata nell’aver ritrovato quelle parole e quei frammenti di vita, un misto di dolcezza e sorriso solitario che emerge genuinamente dal proprio cuore solo tramite il ricordo.

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Diario segreto. ©Claudia Stritof.

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Testo e fotografie ©Claudia Stritof.

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