citazioni – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Fri, 12 Mar 2021 18:20:23 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Édith Piaf: l’usignolo dall’ugola insanguinata. https://www.cultmag.it/2019/12/10/edith-piaf-lusignolo-dallugola-insanguinata/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/12/10/edith-piaf-lusignolo-dallugola-insanguinata/#respond Tue, 10 Dec 2019 10:35:19 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6274 «Quello che più mi interessa nella vita […] è l’Amore. In qualunque aspetto della vita: l’amore per l’umanità, l’amore per il proprio lavoro, l’amore per le cose a cui teniamo».

Una frase ricca di passione e intrisa di puro sentimento, pronunciata da Édith Piaf, donna dal corpo minuto e dalla voce graffiante, che il suo grande amico, Charles Aznavour, chiamava «il nostro diavoletto».

Édith Piaf è stata una donna vulcanica, adorava scherzare, fare picnic sul prato e passare il tempo in compagnia degli amici più cari, ma è stata anche una donna che ha dato tutto per il suo grande amore, la musica.

La Piaf è un concentrato di arte ed emozione, desiderosa di vero amore, come quello che lei stessa donava, perché la vita è troppo dolorosa per non amare, anche se spesso «l’amore si deve pagare con lacrime amare».

Édith Piaf brinda con il pugile Marcel Cerdan

La sofferenza Édith l’ha esperita in prima persona, essendo stata vittima di incidenti devastanti, sottoposta a molti interventi chirurgici, soggetta spesso a malanni frequenti, per non parlare dei diversi episodi di coma etilico, l’artrite reumatoide e le sfortunate storie d’amore che hanno reso la piccola Édith, un potente concentrato di sofferenza, forza e determinazione.

Nata il 19 dicembre 1915 da una coppia di artisti circensi, la sua infanzia è trascorsa per le strade parigine, dove trascorre il tempo cantando con la sua cara amica Momone. A 17 anni conosce Louis Dupont, con cui ha una figlia, Marcelle Carolina Gassion, morta poco dopo per una meningite, una dramma da cui Édith si riprende lentamente, grazie al canto.

La musica la salva dalla disperazione ed è Louis Leplée, direttore del cabaret Gerny’s a scoprirla e a farla debuttare ufficialmente con il nome d’arte di Môme Piaf. Dopo la misteriosa morte di Leplée, Èdith si rivolge all’impresario Raymond Asso, che diventa suo amante e suo pigmalione, il quale decide di cambiarle battezzarla definitivamente Èdith Piaf.

Così che inizia lo straordinario successo de la chanteuse, che inizia a incidere grandi successi, come La vie en rose, canzone che affascina il pubblico e la critica, facendo approdare la cantante negli Stati Uniti.

Édith in questo periodo è felice, viene immensamente amata dal pugile Marcel Cerdan e con lui si scambia lettere romantiche, intrise d’amore, (oggi conservate nell’archivio della Biblioteca Nazionale Francese e raccolte nel libro Moi pour Toi), ma fino al 28 ottobre 1949, quando avviene la tragedia, perché l’aereo con a bordo il pugile precipita sulle Azzorre.

Édith Piaf e Jean Cocteau

Nonostante la disperazione per la morte dell’amante e indebolita fisicamente dall’artrite reumatoide, con i suoi 42 chili di peso, i vestiti sempre neri, i capelli ricci e con la voce roca, nel 1952, Édith si risolleva psicologicamente grazie alla musica, che le dona ancora una volta la forza d’amare.

Nel mese di settembre si sposa con Jacques Pills a New York e nonostante il largo uso di morfina che la costringe a iniziare un trattamento di disintossicazione, ormai fisicamente sfinita, continua a esibirsi senza tregua, riscuotendo successi internazionali come avviene alla Carnegie Hall, dove il pubblico applaudirà per ben sette minuti, e nel 1960 sul palco dell’Olympia, dove presenta pre la prima volta la celebre canzone Non, je ne regrette rien, scritta da Charles Dumont.

La tournée prosegue senza interruzione, ma i numerosi malanni costringono Édith ad assumere molte medicine. Per tutti era ormai la «maschera tragica della canzone», ma c’e ancora un ultimo piccolo brandello di felicità che spetta alla piccola Édith, il matrimonio con Théophanis Lamboukas, un giovane con cui nasce una profonda simpatia e che sposerà il 9 ottobre 1962, lui ha 26 anni e lei 46. La mattina del matrimonio Édith ci ripensa, ma sarà proprio Theo a farla rinascere e darle la forza per combattere ancora, fino al 10 ottobre 1963, quando Edith Piaf morirà.

Ai suoi funerali parteciparono migliaia di persone, dalle finestre di Parigi risuonava la sua voce e Jean Cocteau, grande amico della Piaf, scrisse l’elogio funebre per l’amica, un elogio che non riuscì mai a leggere personalmente perché fu colpito da infarto lo stesso giorno.

Così recitavano le sue parole:

«Guardate questo piccolo essere le cui mani sono quelle della lucertola delle pietre. Guardate la sua fronte di Bonaparte, i suoi occhi di cieca che hanno ritrovato la vista. Come farà a far uscire dal suo petto minuto i grandi lamenti della notte? Ed ecco che canta, o meglio, come l’usignolo di aprile prova il suo canto d’amore. Avete ascoltato questo lavorio dell’usignolo? Soffre. Esita. Si schiarisce. Si strozza. Si lancia e cade. E d’improvviso, trova la sua strada. Canta. Sconvolge».

Nel 2007 è uscito nelle sale La vie en rose, un ritratto libero della cantante per la regia di Olivier Dahan.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati
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Tre anni senza te… https://www.cultmag.it/2017/02/12/tre-anni-senza-te/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/02/12/tre-anni-senza-te/#comments Sun, 12 Feb 2017 09:43:28 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4512 3 anni… in alcuni momenti mi sembra un’infinità di tempo come se fossero passati secoli da quel 12 febbraio 2014.

Non scorderò mai il momento in cui è andata via: ero sul terrazzo che parlavo al telefono con il mio migliore amico e ho chiuso la chiamata improvvisamente. Non scorderò la disperazione sul volto di mia madre, né le mani di mio zio che angosciosamente toccavano i miei capelli mentre io accarezzavo la guancia di Mari per l’ultima volta. Non scorderò mai quello che ho provato e che mi è impossibile raccontare perché troppo forte e ancora troppo doloroso per me.

Dopo tre anni concretizzare le parole è difficile perché non so dire cosa sia cambiato, ma io sono diversa e i miei occhi anche. Ne ho avuto la certezza qualche giorno fa quando un’amica ha commentato una mia foto che risale a circa quattro anni fa e che aveva scattato proprio Marinella: «Bonita!! E di più l’occhio ridente». La cosa mi ha fatto riflettere perché questa semplice frase denota una realtà a cui non posso sfuggire: i miei occhi sono diversi e lo saranno per sempre. Come ha detto mia cugina: “non possono essere  gli stessi, e Cla, i tuoi non lo sono già da tanto tempo”.

Da 3 anni vivo a fasi alterne come se ogni tanto dentro di me venisse a mancare la corrente o al contrario fossi in sovraccarico di emozioni.

Fino a qualche tempo fa ero ossessionata dal ricordo della malattia, che purtroppo quando emerge mi allontana dai momenti felici passati insieme a lei. Per fortuna però questi ultimi stanno iniziando a riemergere, anche se al momento sono pochi.

I miei “ricordi felici” sono giunti in un momento banale ed erano anch’essi pensieri che qualcuno giudicherebbe futili e che invece mi hanno fatto sorridere. Piccoli e timidi flashback felici che speri non finiscano mai per poter indugiare nei ricordi di te e lei insieme.

Il ritorno dei miei fragili flashback ha coinciso con il rinascere del mio sorriso. E’ molto strano spiegarlo ma era come se mi fossi persa: ricordavo la malattia e il suo dolore ma non ricordavo Noi felici. Come se la malattia avesse obliato i miei ricordi: le orecchie da renna che indossavamo a Natale, le nostre cene a base di Traminer o Muller, le mille ore che perdeva a farmi i capelli con la piastra, quando mi costringeva a indossare i tacchi e invece quando terrorizzata dalla sua guida pazza mi attaccavo alla maniglia della macchina.

Nella perdita di una persona cara ciò che viene a mancare è la quotidianità, i piccoli momenti di normalità e routine, che in realtà capiamo essere preziosi solo nel momento in cui non li abbiamo più. Ciò che cambia sono le emozioni e i sentimenti. Diventano contrastanti: vorresti essere felice ma non lo sei mai pienamente, hai quel sentimento dentro che fa male e non ci puoi fare nulla.

Banalmente, quando penso alle nostre giornate di shopping, il pensiero mi rende immensamente felice, ma allo stesso tempo, quando poi sono costretta a fare shopping da sola divento triste, perché lei era l’unica che riusciva a farmi comprare dei vestiti che non fossero neri.

Ogni tanto, guardando il nostro divano rosso, ripenso a quando dopo pranzo ci sdraiavamo lì e guardavamo un’infinità di programmi scemi, cosa che ormai mi capita raramente, ed è lì che ti accorgi che quei continui litigi per decidere cosa guardare facevano parte di te e che hai perso la tua parte “diversa” quella che ti faceva essere un pò più lei e che ti influenza positivamente nel tuo modo di essere.

Paulo Coelho in Adulterio scrive: «Che cosa c’è di sbagliato nella routine della quotidianità? A essere sincera, proprio niente. Solo… Solo il terrore segreto che tutto cambi all’improvviso, cogliendomi alla sprovvista» ed è quello che è successo a Noi. Tutto è cambiato improvvisamente e allora pensi che quella quotidianità non era poi così male.

Un pò di tempo fa a Padova mi è capitato di assistere a due scene meravigliose per quanto banali ma che hanno generato in me il ricordo che mi ha fatto sorridere.

Due ragazze – figlie di amici di famiglia – la mattina prima di andare a scuola avevano litigato per dei jeans non prestati. Scese dalla macchina: una camminava avanti e l’altra dietro senza mai parlarsi. La cosa ha suscitato in me tanta tenerezza perché lo stesso succedeva a noi: non si sa per quale ragione i vestiti un giorno venivano prestati con felicità, il giorno dopo invece diventavano motivo di litigio. Le ragazze non sanno che quel momento, benché caratterizzato dal risentimento, è in realtà un momento prezioso del loro vissuto, ed è giusto che non lo sappiano perché rappresenta la loro quotidianità.

Ma la storia delle due sorelle non finisce qui, infatti, il giorno dopo scherzavano e ridevano come se nulla fosse successo, come solo due sorelle possono fare perché si sa «le sorelle non hanno bisogno di parole. Hanno perfezionato un linguaggio di smorfie e sorrisi» che solo loro possono capire. Un legame indissolubile e profondo che cela in se quel pizzico di fanciullezza che solo una sorella può conoscere di te.

In questi tre anni mi sono persa nei miei pensieri, mi sono ritrovata, mi sono ripersa e ritrovata nuovamente. Cerco una strada, cerco di tramutare ciò che ho perso in qualcosa da raccontare agli altri perché è difficile raccontare se stessi quando si è persa una parte del proprio essere.

Credo che a 3 anni di distanza la mia mente sia confusa… che la mia ricerca nel capire perché ci sia successo questo non è mai giunta al termine e ti accorgi anche che la continua ricerca in alcuni momenti ti porta fuori strada. Sei qui ma non sei in nessun luogo e molti dei tuoi momenti ti ritrovi a viverli in solitudine.

Mi è capitato di raccontare la mia storia a persone appena conosciute in un ospedale, in un supermercato, su un treno e a mia volta ascoltare le loro. E’ più facile parlare con chi non si conosce perché non ci sono pregiudizi e paura, semplice partecipazione e onesta apertura dell’anima, probabilmente perché sai che quella persona non la rivedrai mai più.

Riflettendo sulla vita e sul percorso che ognuno di noi compie per giungere al proprio traguardo personale mi è tornato in mente un video dell’artista Giovanna Ricotta dal titolo Fai la cosa giusta.

Fai la cosa giusta… è una metafora che si svolge in tre fasi dell’esistenza in cui l’artista incarna la “moto-geisha-samurai”: la prima fase è la consapevolezza «del dover fare qualcosa», la fase intermedia è caratterizzata dalla “follia” creativa e per ultima la disciplina «che permette di arrivare alla meta compiendo la giusta azione».

In fin dei conti ciò che si deve ricercare nella vita, come nell’arte, è la concentrazione, credere che pensieri e azioni positive possano farci stare bene un domani e che la nostra genuina follia possa realmente farci scoprire la nostra strada. E’ dura, lo so, ma vale la pena provarci, cercare giorno per giorno di ricordare chi siamo stati, con chi lo siamo stati e come eravamo per capire chi stiamo diventando.

Vi lascio con un piccolo frammento di Noi, di Lei. Una conversazione avvenuta tra me e Mari quando già il male che ce l’ha portata via l’aveva aggredita, ma lei forte, bella e tenace non ha mai smesso di sognare. Di poter ricominciare a vivere e di lottare per ciò in cui credeva fermamente.

M: Comunque ieri ultimo esame!!! E da oggi vita nuova… Preparazione intensiva.
C: Bellezza. E io che non riesco a studiare.
M: E mi sento fiduciosa, vincerò presto il concorso. Il cervello mi funziona e sto imparando e studiando un casino di cose!!! Oggi vado anche a tagliare i capelli.
C: Iuuuu. E certo che vinci il concorso. Dobbiamo aprire anche una galleria d’arte.
M: Niente galleria…non ti finanzierò!!!! 😋😋
C: Seeeeee. Come no…

La nostra quotidianità. La sua forza, la nostra vita. Ciao Sister.

***

Testo, pensieri e vita di Claudia Stritof.

MAMbo, Fai la cosa giusta (performance), Giovanna Ricotta – Foto di Marcello-Medici.

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Giuseppe Rotunno: il mago della luce. https://www.cultmag.it/2017/01/10/giuseppe-rotunno-il-mago-della-luce/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/01/10/giuseppe-rotunno-il-mago-della-luce/#comments Tue, 10 Jan 2017 08:36:00 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4337 Giuseppe Rotunno, nato a Roma il 19 marzo 1923, è stato uno straordinario direttore della fotografia che ha contribuito con la sua arte a realizzare grandi capolavori della cinematografia italiana e internazionale.

Tra questi: La grande guerra di Mario Monicelli, Rocco e suoi fratelli di Luchino Visconti, Cronaca familiare di Valerio Zurlini, Il Gattopardo di Visconti, Ieri, Oggi e Domani di Vittorio De Sica, La terra vista dalla Luna di Pier Paolo Pasolini, Fellini Satyricon di Federico Fellini, All That Jazz di Bob Fosse, Non ci resta che piangere di Benigni e Troisi, e ancora Le avventure del Barone di Munchausen di Terry Gilliam, Sabrina di Sydney Pollack e La sindrome di Stendhal di Dario Argento.

Giuseppe Rotunno sul set del film ‘La Maja desnuda’ (1958). Courtesy Archivio fotografico della Cineteca nazionale.

Andando a spulciare nella filmografia di Rotunno si rimane stupiti dalla quantità di film a cui ha partecipato come direttore della fotografia ma, soprattutto, ciò che emerge con chiarezza è l’altissima qualità artistica del suo lavoro.

Una storia lunga la sua, fatta di esperienze, sperimentazione e, prima di tutto, di passione; un percorso che ha inizio nella camera oscura del laboratorio fotografico di Cinecittà con Arturo Bragaglia, il quale nutriva una sincera stima verso lo spirito sperimentale e innovatore dell’allora giovanissimo Giuseppe.

Rotunno incontra Bragaglia casualmente. Infatti, dopo la morte del padre, il quale era titolare di una sartoria, Giuseppe Rotunno nel 1938 abbandona la scuola per cercare lavoro, così da aiutare economicamente la famiglia. Un amico lo informa che proprio in quei giorni a Cinecittà si stavano svolgendo dei colloqui per il ruolo di elettricista, ma mentre Peppino era in fila ad aspettare che il suo turno arrivasse, qualcosa accadde.

È lui stesso a raccontarlo in una bellissima intervista realizzata da Giulio Brevetti per Artribune: “Mentre ero in fila” – dice Rotunno – “passarono due o tre miei coetanei che si lamentavano di un certo Bragaglia, che aveva uno studio fotografico. Sentendo che per ragioni di carattere non ci andava nessuno, allora sono andato io. Sono andato da lui, ho fatto amicizia, mi ha preso a ben volere come un padre. A fine settimana mi dava una Leica, io facevo le fotografie per conto mio e il lunedì, quando tornavo allo studio, le sviluppavo e le stampavo, insomma ho cominciato a fare il fotografo”.

Con il sopraggiungere della Seconda Guerra Mondiale il giovane Peppino parte per il fronte con la sua attrezzatura e sul campo realizza documentari da inviare al comando generale dello Stato Maggiore del Regio Esercito; questo almeno fino al settembre del 1943, quando viene catturato in Grecia e deportato in Germania fino al 1945. Tornato in patria, prosegue la carriera come aiuto-operatore, per diventare in breve tempo operatore di macchina e, infine, direttore della fotografia, proprio durante gli anni del cinema neorealista, impegnato culturalmente e “libero di esprimersi”.

È il 1955 quando Rotunno debutta come direttore della fotografia per il film Pane, amore e… di Dino Riso e da allora non si è più fermato, tanto che da abile sperimentatore quale è, oltre ad occuparsi della fotografia, Rotunno non può che diventare un sapiente insegnate per il corso di fotografia alla Scuola Nazionale di Cinema del Centro Sperimentale di Cinematografia, dove giunge nel 1988 per volere di Lina Wertmüller, all’epoca commissario della Scuola.

Sempre nello stesso anno viene chiamato dal regista Terry Gilliam, ex Monty Python, per partecipare alle riprese de Le avventure del Barone di Münchausen, film tratto dai bellissimi racconti settecenteschi di Rudolf Erich Raspe. Un film straordinario, che vanta un cast tecnico di tutto rispetto, infatti oltre a Rotunno per la fotografia, annovera anche la costumista Gabriella Pescucci e lo scenografo Dante Ferretti.

Giuseppe Rotunno con Federico Fellini sul set del film ‘Amarcord’ (1973). Courtesy Archivio fotografico della Cineteca nazionale.

In uno dei molti dialoghi tra Il Barone Münchausen e Sally Salt, alla domanda sul perché l’uomo cerchi disperatamente di morire, lui risponde:

«Perché, perché, perché! Perché tutto è logica e ragione oggigiorno! Scienza, progresso… Bah, dahhh! Leggi dell’idraulica, leggi della dinamica sociale, leggi di questo, leggi di quell’altro! Non c’è posto per i ciclopi a tre gambe dei mari del sud, non c’è posto per alberi di cetrioli e oceani di vino… Non c’è posto per me!»

Una semplice e, al giorno d’oggi, inconfutabile verità. Qualche volta nella nostra vita dimentichiamo di sognare e allora ecco che fa capolino qualche pellicola a ricordarcelo.

Come afferma lo stesso Giuseppe Rotunno, il mestiere del direttore della fotografia consiste in questo: trovare i difetti che vi sono nella luce e “trasformarla alle nostre esigenze di racconto. Non sempre la luce che si trova nella nostre città è utile al racconto che stiamo facendo per cui se contrasta con la storia impariamo a tradurla a trasformala in modo tale che rappresenti meglio le emozioni della storia che stiamo girando”.

Il direttore della fotografia e il regista, lavorando insieme sinergicamente, rendono possibile il sogno e permettono allo spettatore “di entrare in un racconto cinematografico senza essere distratti” da altri elementi perché, in fondo, aveva ragione François Truffaut quando affermava “fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell’infanzia”.

Testo a cura di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati

Fonti: Centro Sperimentale di Fotografia, Associazione Italiana Autori della Fotografia CinematograficaCinematographers, Treccani, Artribune.
Articolo aggiornato in data 8 maggio 2019.
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