Claudio Marra – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Sat, 13 Feb 2021 23:19:46 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 La fallacia della società contemporanea. https://www.cultmag.it/2014/01/15/la-fallacia-della-societa-contemporanea/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2014/01/15/la-fallacia-della-societa-contemporanea/#respond Wed, 15 Jan 2014 21:39:39 +0000 http://claudiastritof.com/?p=417 Attualmente siamo soggetti ad un “consumismo” sfrenato d’immagini, a cui i media ci hanno abituati e che, ormai, divoriamo quasi senza rendercene conto. Le fotografie hanno la potenza di mostrarci ciò a cui solitamente non poniamo attenzione e sta a noi esaminarle e cogliere il loro messaggio. Nell’ambito che analizzeremo oggi, ovvero quella della moda, i messaggi inviatici sono molteplici e molto spesso influiscono su di noi inconsapevolmente.

Un giorno leggendo Vogue Italia, ho trovato un servizio che mi colpì molto. Per non smettere mai di far pensieri allora ho analizzato il servizio fotografico firmato da Richard Burbridge. Egli ha iniziato la sua carriera come fotografo nei primi anni novanta, attualmente è uno dei maggiori fotografi di moda, numerose le riviste per cui lavora: Vogue, Harper’s Bazaar, e i-D e numerosi sono anche i marchi per cui ha elaborato le campagne pubblicitarie: Givenchy, Hermes, Louis Vuitton etc.

 

Ha uno stile eclettico: dalla campagna macabra e inquietante svolta per Dazed & Confused, autunno 2010. Ha prodotto la stagione di “War Hero”, modelli vestiti da etichette importanti: Roberto Cavalli, Louis Vuitton etc. Eroi deformati e mutilati da diversi traumi della guerra ma sopravvissuti e ancora pieni di forza e sensualità.

Molto diversa per ispirazione è la campagna per il New York Times Style Magazine dell’Aprile 2012, “Salad Days”. Giorni rigogliosi per la moda, in cui la crisi attuale non si sente, possiamo continuare ad assaporare il benessere e nutrirci di essa, immediato è il confronto con l’Arcimboldo che questi “vestiti li creò” con i suoi ritratti compositi.

L’articolo in apertura al servizio di Burbridge è dedicato alle beauty farm di ultima generazione; vengono descritti dettagliatamente i percorsi benessere e i weekend salutari uniti alle diete naturali ed evergreen. Il tutto all’impronta della naturalezza e della cromoterapia gastronomica. Così recita una parte dell’articolo: “Dopo diete punitive, trattamenti medical center e protocolli clinical, si fa strada una nuova idea di spa, che contempla colore, gioia e appeal”. Lo scatto di copertina ritrae una donna accasciata su un lavandino, presumibilmente della spa, con preziosi orecchini, un estroso copricapo, il tutto trattato con contrasti tonali in linea con i benefici cromo-terapici poco sopra descritti nell’articolo. Essa indossa degli occhialini per proteggersi dai raggi UV della lampada abbronzante.

L’immagine nonostante le incongruenze (perchè è sdraiata sul lavandino? Perchè è vestita in modo elegante e porta gli occhialini? Sarà appena tornata sbronza da una festa glamour?) è ben riuscita: vestiti, gioielli e trucco sono ben visibili. Essa nonostante il contesto esalta il fine dell’articolo: la modella, bella ed elegante ostenta la bellezza del corpo, che è possibile ottenere all’interno delle spa (occhialino). Nel secondo scatto la modella si trova in un supermercato con il volto ricoperto da crema idratante in tinta con il cappotto e ingentilita da preziosi gioielli. Gli alimenti alle spalle, inscatolati e salse, dovrebbero essere prodotti da evitare a favore di una dieta genuina (nota dissonante). La crema sul volto della donna a livello pratica richiama la le lozioni idratanti della spa e a livello fotografico rimanda ad una tecnica di isolamento dei tratti del volto utilizzata per la prima volta da Erwin Blumenfeld negli anni Cinquanta. Il fotografo all’epoca fece in modo da far risaltare il trucco della modella isolando i singoli tratti del volto e marcandoli in modo importante. Il fotografo contemporaneo la ritrae in chiave odierna, in un supermercato, simbolo del mondo dei consumi nel quale viviamo, in cui una donna deve essere sempre elegante.

©Richard Burbridge

©Richard Burbridge

L’eleganza e la bellezza fisica sono quel tocco in più che possiamo acquistare tramite le cure di bellezza nelle spa e, aggiungerei, attraverso i trattamenti di chirurgia estetica (fate attenzione… sta avvenendo un climax, tra un pò spiegherò): portano un pò di gusto nella vita, proprio come le salse alle spalle della modella, un condimento aggiunto al pasto principale, non indispensabile ma che rendono i cibi più gustosi e apprezzabili. Nello scatto successivo Burbridge ci presenta una modella sdraiata sul pavimento optical. Geometria del vestito (Prada) e geometria del volto definito dalle linee tracciate da un’ipotetico chirurgo per procedere al ritocchino. Altro parallello, che non fa mai male allenarsi con voli pindarici, fa venire subito in mente Orlan che con le sue performance indaga, fin dalla fine degli anni ’80, l’esigenza di sperimentare una nuova vita, reinventando il proprio corpo con importanti operazione chirurgiche. All’inizio della sua carriera utilizzò travestimenti ma poi radicalizzò la sua arte intervenendo direttamente sul suo corpo.

La fotografia certifica questa mutazione continua, la propria metamorfosi fisica e di identità per una ricerca orientata ad esplorare nuovi corpi e nuove menti.

Un’esistenza nuova: plasmare il proprio corpo riferendosi a canoni ideali di un tempo remoto o attuali (così l’esempio di Yasumasa Morimura o Cindy Sherman).

Tornando al nostra articolo l climax sta avvenendo sotto i nostri occhi: non più creme idratanti ma veri e propri interventi chirurgici con le tracce di pennarello del chirurgo sul volto della modella.

Nella penultima immagine la modella viene fotografata di ¾ con il volto cinto da una fascia contenitiva (espediente già utilizzato nella campagna per il trucco di Elisabeth Arden nel 1927 del fotografo Adolphe De Meyer). La donna è una donna aggressiva con al collo un collare borchiato, quasi a sottolineare uno stacco tra il collo e la testa, come se fosse un manichino. Un volto solare, impreziosito con molta eleganza dall’abito, dal gioiello e dal trucco.

Una definizione assoluta dei tratti del volto. Una donna erotica e seduttrice nonostante o per merito dell’intervento esterno. La naturalità è ormai abolita. Ultimo scatto: un occhio indiscreto osserva una donna reduce da un intervento chirurgico nel giardino (dell’ospedale?): essa indossa una folta pelliccia ed è perfettamente truccata. Il fotografo Richard Burbridge non fa altro che certificare una realtà di fatto, una continua ricerca da parte delle donne e degli uomini d’oggi di intervenire sul proprio corpo attraverso metamorfosi da attuare su sè stessi per essere accettati da una società che rifiuta il brutto aspetto e che ha eretto a culto la bellezza il proprio corpo. Esso non ha fatto altro che mostrarci ciò che quotidianamente cerchiamo e desideriamo: un’ IDENTITA’ ALTRA, che sia diversa dai nostri tratti, sempre e comunque inadeguati. Allora come se questo non fosse abbastanza vi pongo un ulteriore esempio e motivo di riflessione. In un certo senso le pubblicità appena citate sono la realtà che ormai abbiamo accettato senza nessun timore.
La differenza si vede nelle fotografie di Oliviero Toscani, in cui questa volta è il “frivolo” mondo della moda a porre degli interrogativi; i suoi scatti sono così forti e incisivi che per molti di essi viene richiesta la censura; come se censurandola il problema svanisse. In un’intervista a Repubblica in merito alla campagna Nolita per il gruppo di moda Flash&Partners, Toscani afferma: “Una provocazione, ma soprattutto un allarme su una tragedia del nostro tempo. Ancora più sconvolgente perché a interrogarsi sul problema è il mondo delle passerelle, accusato da tempo di diffondere falsi miti di bellezza”. Sempre nell’intervista a Repubblica Toscani afferma: “Io ho fatto come sempre un lavoro da reporter: ho testimoniato il mio tempo. Sono anni che mi interesso al problema dell’anoressia. Un tema tabù per la moda.” (Repubblica, 24 settembre 2007).

Oliviero Toscani, Nolita. ©Oliviero Toscani

Oliviero Toscani, Nolita. ©Oliviero Toscani

Numerosissime le sue campagne pubblicitarie, in particolare quelle per Luciano Benetton, di cui Toscani non fu solo il fotografo ma si occupò dell’intera strategia comunicativa aziendale dal 1984.
Fotografie di moda molto lontane dai topos a cui siamo abituati: modelle nude o in-vestite di glamour.

Immagini a cui non si poteva voltare le spalle ma che investivano l’osservatore nel profondo; immagini così penetranti, tanto che la psicologa Gabriella Bartoli analizza il turbamento psicologico dei suoi pazienti in seguito alla visione delle fotografie.

La fotografia fa parte della campagna di sensibilizzazione sull’AIDS. L’uomo ritratto è David Kirby, l’americano malato di Aids che viene ritratto sul letto di morte con i suoi familiari.
La Bartoli riporta la parole del paziente: “ma come si fa ad utilizzare un’immagine di qualcosa che dovrebbe esser riservato all’intimità? […] è un’operazione pubblicitaria da cen-su-ra-re. La morte è da censurare”. Dichiarazioni personali che potrebbero traslare il pensiero della nostra società; tanto è l’effetto di risonanza che la fotografia crea, che essa viene effettivamente censurata.

In conclusione perché Toscani-Burbridge?
Potremmo dire che la prima campagna pubblicitaria, quella di Burbridge, è volta al patinato, alla presentazione della società d’oggi che sempre più si identifica nella ricerca del fisico perfetto ma artificiale. Una serie di incongruenze interne la connotano, dal mondo della spa evergreen si passa al ritocco nelle cliniche estetiche; ma altro non è che una delle facce della stessa medaglia.

Il verso è occupato dalla realtà di Oliviero Toscani, una faccia tragica ma reale. Per questa sua veridicità e per i temi trattati, a differenza dell’altra, non viene accettata.
Si desidera “non vedere”, celare ai nostri occhi la mortalità del corpo e la senilità a cui si tenta di porre rimedio attraverso la chirurgia estetica e attraverso il mondo sognante della moda. La società di oggi combatte la vecchiaia della pelle e la decomposizione della morte mettendo in formaldeide il corpo (Damien Hirst, il suo squalo integro o solo apparentemente; Kirby: troppo crudelmente reale).

La via di uscita non è la censura. La moda è un sogno, ma è anche un modo per porre interrogativi, per riflettere sulla contemporaneità. Immagini che vengono divulgate ad ampio raggio e in fin dei conti dovremmo essere complici dei messaggi della fotografia, e non solo consumatori inconsapevoli, capire il senso positivo o negativo che su di esse grava e come inconsapevolmente agiscono su di noi. Non soffermiamoci ad un’occhiata veloce, sfogliamo i giornali, gli articoli e i blog anche questi possono far riflettere…

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Vite consumate pubblicamente: Nan e Terry https://www.cultmag.it/2014/01/10/vite-consumate-pubblicamente-nan-e-terry/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2014/01/10/vite-consumate-pubblicamente-nan-e-terry/#respond Fri, 10 Jan 2014 19:14:00 +0000 http://claudiastritof.wordpress.com/?p=1131 Tanto tempo fa – quando ho aperto questo blog – l’intenzione era quella di parlare di fotografia e di arte, ma ultimamente, per varie coincidenze e contingenze ho scritto con maggior assiduità della mia vita personale.

Negli ultimi mesi ho scoperto l’importanza del diario pubblico, perché, attraverso questo ho conosciuto persone e condiviso storie e racconti.

A me piace la scrittura e penso che attraverso questa le persone possano avvicinarsi le une alle altre, anche persone sconosciute. E così è stato.

Ci sono opinioni contrastanti sul raccontare i propri sentimenti pubblicamente, ma io personalmente ho sempre pensato che fosse positivo, perché fa riflettere sui sentimenti.

Una volta i diari non erano online, ma cartacei ed esclusivamente personali (si pensi ad Anaïs Nin o a quelli di quando si è piccoli, il nostro scrigno dei ricordi), ma con l’avvento delle nuove tecnologie sono diventati pubblici e “digitali”.

Detto questo, vorrei omaggiare oggi due grandi fotografi che hanno fatto diventare la loro stessa vita oggetto d’arte e del loro corpus un diario pubblico.

La prima è Nan Goldin, pioniera in questo senso, intenta a fotografare tutto ciò che le accadeva con la più assoluta naturalezza.

Se osserviamo i suoi scatti notiamo l’immediatezza con la quale essa si rapporta alla vita, facendo crollare ogni barriere tra la macchina fotografica e i suoi soggetti. Ciò che voleva cogliere era la vita, il suo flusso, così come essa si presentava.

©Nan Goldin

Goldin scatta fin da giovane, ritraendo amici e parenti, ma lo fa in un’epoca in cui ritrarre la propria vita, soprattutto se questa è vissuta al massimo della sua intensità non era poi così banale, né semplice. Sopratutto se si decide che quelle fotografie diventeranno oggetto di mostre e di critica artistica.

Sono gli anni ’70-’80, la piaga dell’AIDS e dell’eroina affliggono la società e ancora non si sa come arginarle; la malattia spezza la vita di giovani anti-eroi poco più che ventenni e Nan si trova immersa completamente in questo mondo.

Un mondo che vive intensamente e che emerge esplicitamente nei suoi scatti.

The Ballad of Sexual Dependency (Aperture Foundation, 1986), oltre a essere un libro meraviglioso, è anche uno slideshow, in cui la Goldin ha racchiuso le fotografie di quegli anni scattate a New York.

Ciò a cui si assiste è la vita della Goldin, un diario intimo caratterizzato dai sentimenti più diversi: paura del futuro, amore, sofferenza, amicizia, depressione, ma anche voglia di vivere.

L’artista stessa afferma: «non ho mai creduto che un solo ritratto possa determinare un soggetto, ma credo in una pluralità di immagini che testimonino la complessità della vita».

Nan racconta il suo mondo e i legami amicali di una vita, con una tale intensità che naturalmente non passano inosservati alla critica; così nel 1996 realizza la prima personale al Whitney Museum di New York, sede in cui presenta un secondo meraviglioso progetto: I’ll be Your Mirror, sull’omosessualità.

Chi ha sempre ammesso il debito verso Nan Goldin è Terry Richardson che più di ogni altro ha saputo sfruttare i social network e la fotografia diaristica per affermarsi come fotografo di fama internazionale.

©Terry Richardson
©Terry Richardson

Di Terry si conosce tutto, grazie al suo lavoro. Se osserviamo le sue immagini, non vi è nessuna differenza tra gli scatti privati e quelli realizzati per la moda: non utilizza una tecnica ricercata e perfetta, ma è caratterizzata da inquadrature casuali e per di più realizzate con qualsiasi mezzo, da una reflex alla fotocamera del cellulare.

Fece scandalo nel 2004 con la pubblicazione del libro Kibosh, che per citare lo studioso Claudio Marra «è una gioiosa reinvenzione della fotografia pornografica, alleggerita da tutti i suoi codici rappresentativi, grazie allo stile “familiare” e antiformalista”».

Un condensato di immagini private che vengono esibite e vissute con assoluta libertà, le quali venivano caricate sul suo photolog Terry Richardson’s Diary, avviato nel 2010.

Diari privati che diventano pubblici, pagine che nascono per essere condivise e che hanno mutato il nostro modo di osservare.

Ciò che una volta era tabù ora è diventato normalità, andando talune volte, oltre ogni limite; ma la condivisione non sempre è negativa, forse perché l’abbiamo assimilata ed è così che iniziamo a conoscere problemi, gioie e dolori che prima non ci erano noti e che invece ora diventano oggetto di discussione e confronto.

Paul Auster diceva: «pensi che a te non succederà mai, che sei l’unica persona al mondo a cui queste cose non succederanno mai e poi, a una a una, cominciano a succederti tutte, esattamente come succedono a tutti gli altri». In Diario d’inverno, Auster racconta la vita di un uomo che va alla ricerca della verità, non verità universali, ma quelle più semplice, spietate e dolorose, quelle che riguardano se stesso e la propria quotidianità.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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