firenze – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Sun, 14 Feb 2021 21:58:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Alinari: storia di un archivio https://www.cultmag.it/2019/06/19/alinari-storia-di-un-archivio/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/06/19/alinari-storia-di-un-archivio/#respond Wed, 19 Jun 2019 06:41:29 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6101 Di qualche tempo fa è la notizia che lʼarchivio fotografico Alinari non sarà più presente nella sua storica sede fiorentina di Via Nazionale, perché – come si legge sul sito della CGIL – il palazzo è stato venduto, il patrimonio è oggetto di trattativa e per una parte dei dipendenti vi sarà una cessazione dei rapporti di lavoro.

Una notizia che fa riflettere oggi, ma che già negli anni scorsi, aveva allarmato numerosi fotografi e studiosi come Gianni Berengo Gardin, Giovanna Calvenzi, Ester Coen, Mario Cresci, Mimmo Jodice, Bruno Toscano e Roberta Valtorta, i quali avevano espresso un accorato appello per la tutela e valorizzazione dell’archivio.

I libri della Fratelli Alinari, le mostre da loro curate, nonché l’organizzazione e la valorizzazione dell’archivio hanno rappresentato per molti appassionati e non, un punto di riferimento imprescindibile per la cultura italiana.

A livello personale, la mia passione nei loro confronti nasce da piccola, quando sfogliavo alcuni dei libri presenti nella mia libreria con immagini in bianco e nero che riportavano la dicitura Fratelli Alinari.

Sempre più incuriosita dallo scoprire chi fossero questi Alinari, una volta trasferitami a Firenze, ho iniziato a frequentare il Museo, fino al drammatico giorno in cui questo ha chiuso. Successivamente ho acquistato tutti i volumi di “Fotologia”, rivista imprenscindibile per una ricognizione sul passato e per lo studio della fotografia; poi due anni fa, finalmente, ho avuto l’occasione di assistere a un restauro nei loro laboratori grazie alla sincera disponibilità dimostratami da chi vi lavora con passione.

La storia dell’archivio è quella di tre fratelli, Leopoldo, Giuseppe e Romualdo, che nel 1852 aprono un laboratorio fotografico a Firenze e fondano, due anni più tardi, la società Fratelli Alinari.

La passione verso la fotografia nasce dopo aver studiato presso i calcografi Bardi e già nel 1856 pubblicano Photographies de la Toscane et des Ètats Romains, catalogo in un unico foglio che evidenzia quelli che sono i loro interessi verso il patrimonio artistico italiano, in unʼepoca in cui lʼItalia era ancora un paese frammentato e in attesa di essere unificato. 

Il prestigio degli Alinari cresce smisuratamente, i tre fratelli aprono diverse filiali e sono sempre alla ricerca di novità, così da instaurare una fitta rete di scambi internazionali che permette loro di acquisire un patrimonio archivistico di inestimabile importanza, tenendosi aggiornarti sulle ultime novità tecnico-scientifiche ma anche culturali, creando in Italia, un vivace cenacolo di appassionati e continui confronti con istituzioni pubbliche e private.

All’epoca, nello storico palazzo di Via Nazionale, in cui gli Alinari si trasferiscono nel 1863, lavorano circa trenta dipendenti con un’organizzazione ben strutturata, molto rigida, in cui vi sono laboratori di sviluppo, la stamperia, l’archivio e la sala posa (frequentata giornalmente da illustri personaggi italiani e stranieri), e inoltre a questo affiancavano anche un’importante attività di ricognizione sul patrimonio culturale, come testimonia la prima celebre campagna fotografica della Cappella Sistina, avvenuta nel 1890.

Dopo una serie di sfortunate morti in casa Alinari, la ditta dal 1890 passa in mano di Vittorio, il figlio di Leopoldo, intellettuale colto e raffinato, che inizia anche la pubblicazione di importanti volumi ispirati alla letteratura nazionale, come la Divina Commedia e il Decameron. 

Nonostante il fermento che anima l’entusiasta Vittorio, questo viene meno quando muore il piccolo figlio Carlo, dramma personale che porta l’erede di Casa Alinari a cedere la società alla Fratelli Alinari I.D.E.A. (Istituto di edizioni artistiche), il cui archivio viene salvato da 94 azionisti di cui ognuno deteneva il 5% del capitale.

Fratelli Alinari, La creazione di Adamo, affresco, Michelangelo Buonarroti (1475-1564), Volta della Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano, 1890 ca. ©Archivi Alinari, Firenze.

Siamo giunti alla data del 1920 e i negativi catalogati sono più di 70.000, un patrimonio di inestimabile valore, dal punto di vista qualitativo, documentario, artistico e per la divulgazione scientifica, perché allʼinterno dellʼarchivio, con il passare del tempo, sono entrati a far parte innumerevoli fondi o singole immagini, come l’archivio Anderson e Brogi (acquistati dal Senatore Giorgio Cini), oppure con l’attuale proprietà, che vede Claudio De Polo alla direzione, se ne sono aggiunti molti altri come quello di Italo Zannier, Von Gloeden, Michetti, Lattuada o Wulz. Per non dimenticare le meravigliose cornici – da quelle più sontuose a quelle più povere dei pescatori bretoni -, i dagherrotipi, le innumerevole camere e strumenti ottici e i tantissimi album fotografici con le legature in legno, in lapislazzuli e molto altro ancora.

Quello nell’archivio Alinari è un viaggio nel tempo, fatto di racconti, alcuni già narranti, altri ancora da scoprire… se solo ci fermiamo a cercare, osservare e conoscere, ma anche a SALVAGUARDARE e CUSTODIRE.

Gli archivi sono una fonte inestimabile di conoscenza, fondamentale per la crescita culturale del paese, ma spesso vengono abbandonati al loro destino, così come spesso viene dimenticata la catalogazione del patrimonio, lo studio dello stato conservativo delle opere, la loro messa in sicurezza e di conseguenza la loro valorizzazione. Tematiche che gli addetti ai lavori conosco bene, ma che forse dovrebbero interessare tutti, diventando argomento centrale nella nostra attualità.

L’Archivio Alinari ha sicuramente contribuito a creare la Cultura nel nostro paese e, come scrivono i dipendenti della Fratelli Alinari, «vogliamo domandarci pubblicamente quali saranno le sorti del patrimonio e soprattutto delle risorse umane che da anni si sono occupate della sua valorizzazione, sviluppando con esso un forte rapporto identitario».

La domanda che si pongono i dipendenti è una: «cosa seguirà quindi al più grande trasloco di fotografia al mondo»? E a questa ne vogliamo aggiungere un’altra: cosa sarà delle persone il cui rapporto di lavoro cesserà e che fino a oggi sono state alle dipendenze degli Alinari?

La sede verrà sgomberata entro il 30 giugno e al suo posto troveranno posto venti appartamenti, molti dei quali già venduti. La Regione Toscana ha dichiarato di voler acquistare il fondo (e il tavolo di discussione sembra essere già avviato), così come il Comune, disposto dalle ultime notizie di voler trovare un luogo adatto alla sua consultazione. L’importante è che tutte le Istituzioni competenti intervengano con un’azione comune, garantendo così la sopravvivenza e l’accessibilità all’importante Archivio dei Fratelli Alinari, fondamentale per lo studio e la conoscenza collettiva.

Attenderemo con ansia ulteriori aggiornamenti.

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Ringrazio il preparato personale dell’archivio per il confronto rispetto ad alcuni approfondimenti e per la disponibilità dimostratami a suo tempo. Esperienza unica.

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Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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Viaggio nell’eterno: il Cimitero degli Inglesi di Firenze. https://www.cultmag.it/2016/03/07/viaggio-nelleterno-il-cimitero-degli-inglesi-di-firenze/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/03/07/viaggio-nelleterno-il-cimitero-degli-inglesi-di-firenze/#respond Mon, 07 Mar 2016 10:06:52 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3124 Se dovessero chiedermi cosa mi manca di Firenze, automaticamente, direi il Cimitero degli Inglesi, dove ogni tanto andavo per pensare e trovare un po’ di tranquillità.

Il Cimitero degli Inglesi è un luogo pittoresco, piccolo ma immerso nel verde e costellato di statue ed epigrafi le quali lo rendono un luogo magico e fuori dal tempo, nonostante sia collocato nel bel mezzo dei chiassosi viali della città, dove spesso e malvolentieri si sente il rumore delle macchine e dei clacson.

Cimitero degli Inglesi. ©Claudia Stritof. All rights reserved.

Tomba di Arnold Savage Landor. Cimitero degli Inglesi. ©Claudia Stritof. All rights reserved.

Il cimitero è stato fondato nel 1865 e chiuso nel 1877, quando prende avvio il risanamento di Firenze con l’attuazione del Piano Poggi: in questo periodo le antiche mura della città vengono abbattute per far largo agli attuali viali di circonvallazione e il cimitero, prima addossato alle mura, ora è inglobato all’abitato, assumendo l’attuale forma ovale. Il camposanto per fortuna è stato salvaguardato dalla distruzione, al contrario di ciò che accadeva per altri cimiteri, in virtù del suo notevole pregio artistico e le importanti personalità ivi seppellite.

Appena varcata la soglia si viene catturati da una sensazione di atemporalità, ogni suono svanisce, ed è come essere catapultati in una dimensione diversa, spirituale e solenne, che accompagna il visitatore per tutta la durata della visita. Dallo stretto vialetto in ghiaia ci si addentra sulla collina, fino ad arrivare sulla sommità dove si erge la colonna commemorativa offerta da Federico Guglielmo IV di Prussia nel 1858. Qui si incrocia un secondo vialetto perpendicolare al primo che scende sui fianchi della collina, mentre dei cipressi schermano lo sguardo e cingono il visitatore in un abbraccio purificatore e rassicurante.

Le tombe realizzate da abili mani in periodo Romantico sono di eccezionale bellezza, i marmi bianchi risplendono sotto il sole cocente, le lucertole si spostano velocemente tra le foglie d’edera al suono del passo leggero che incede sulla terra, mentre nell’aria si sente il profumo dolce delle rose e quello pepato del legno di cipresso. Un angelo tiene in mano una corona di alloro, due angioletti sono intenti a leggere delle preghiere su un cartiglio mentre una donna anziana abbandona la nuca sulla tremolante mano. Le vesti cadono morbide sullo scheletro della Morte bendata che è intenta a falciare un mazzo di gigli, mentre il simbolo dell’uroboro campeggia su un’urna sferica.

Sulle lapidi si scorgono nomi antichi e importanti, preghiere e lodi di uomini che vissero in un tempo lontano e che lì hanno trovato la pace eterna, tra questi lo scrittore Jean Pierre Vieusseux, la poetessa inglese Elisabeth Barret Browning, la cui bellissima tomba è stata disegnata da Frederic Leightoin, e quella del poeta Walter Savage Landor. Ovunque si leggono simboli di morte e resurrezione: su una tomba vi è una corona di alloro, una pianta sempreverde che nell’iconografia cimiteriale di solito è legata al concetto d’immortalità, rappresenta la gloria e il trionfo e talune volte anche la purezza fisica e spirituale. Ancor più frequente è l’ancora, simbolo di fermezza di spirito e di fede, mentre l’incessante trascorrere del tempo è trasfigurato nella clessidra.

Cimitero degli Inglesi. ©Claudia Stritof. All rights reserved.

Cimitero degli Inglesi. ©Claudia Stritof. All rights reserved.

Il Cimitero degli Inglesi è un luogo incantevole, un’isola di pace, che non a caso si dice sia stato d’ispirazione per il celebre dipinto L’isola dei morti di Arnold Böcklin, il quale aveva sepolto qui l’adorata figlia Mary, morta in tenera età.

Immersa in questa pace, il mio pensiero corre, la mente vaga e scaturiscono profonde riflessioni sui sogni ancora mai realizzati e sui desideri reconditi, ma sorgono anche paure e timori di un futuro incerto. Ferma, all’apice del monticciolo, mi torna in mente quella bellissima poesia che è La Collina di Edgar Lee Masters, perché proprio lì poeti, artisti, filosofi, scrittori e scultori eternamente dormono su quella collina a ricordarci di vivere il nostro fugace tempo della vita prima che sia ormai troppo tardi per sognare e vivere intensamente.

Testo e immagini ©Claudia Stritof. All rights reserved.

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Cimitero degli Inglesi. ©Claudia Stritof. All rights reserved.

Cimitero degli Inglesi. ©Claudia Stritof. All rights reserved.

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Cimitero degli Inglesi. ©Claudia Stritof. All rights reserved.

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Testo e immagini ©Claudia Stritof. All rights reserved.

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Il Negroni: un secolo di storia. https://www.cultmag.it/2016/02/17/il-negroni-un-secolo-di-storia/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/02/17/il-negroni-un-secolo-di-storia/#respond Wed, 17 Feb 2016 14:37:53 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3007 Dolce e amaro al tempo stesso, rosso come l’amore servito con una fettina d’arancia e senza cannuccia. Un equilibrio perfetto di semplicità: questo è il Negroni! Tre ingredienti miscelati in parti uguali: Vermut rosso, bitter Campari e Gin. Sembrerebbe la cosa più semplice del mondo e invece… molto spesso il Negroni è imbevibile.

Per chi come me è cresciuto al Blue Dahlia di Marina di Gioiosa Ionica (R.C), avrà sicuramente una venerazione verso il Negroni di Ruggero, estate o inverno che sia è sempre una certezza. Non tutti però conoscono la vera storia del cocktail e finalmente un libro fa chiarezza sulla sua nascita: Negroni cocktail. Una leggenda italiana, scritto da Luca Picchi ed edito da Giunti Editore.

L’autore, che con dovizia di particolari racconta la nascita dell’aristocratico cocktail, scrive: «sorseggiare un Negroni invita a socializzare, avvicina la gente, ci trasporta con un’area nobile e un po’ misteriosa, al tempo che fu», quello della Firenze di primo Novecento, nei suoi numerosi caffè frequentati da letterati e artisti. Una città viva e in pieno fermento politico e culturale abitata da bottegai, viaggiatori, politici e aristocratici che passeggiavano gli uni accanto agli altri per le storiche vie del centro.

Il Negroni nasce tra il 1919 e il 1920 in via de’ Tornabuoni al Caffè Casoni di Firenze grazie all’amicizia che lega il conte Camillo Negroni e il barman Fosco Scarselli.

Il conte Camillo Negroni nel giardino del suo appartamento in via Orcagna a Firenze. Tratta dal libro Negroni cocktail. Una leggenda italiana di Luca Picchi, edito da Giunti editore. Courtesy Collezione famiglia Negroni-Bentivoglio.

Il conte Camillo Negroni nel giardino del suo appartamento in via Orcagna a Firenze. Tratta dal libro Negroni cocktail. Una leggenda italiana di Luca Picchi, edito da Giunti editore. Courtesy Collezione famiglia Negroni-Bentivoglio.

Cammillo Luigi Manfredo Maria Negroni è stato un uomo dalle mille vite e dai molti interessi: nato il 25 maggio 1868 dal conte Enrico Negroni e da Ada Bishop Savage Landor (a sua volta figlia dello scrittore anglosassone Walter Savage Landor, sepolto in quel bellissimo luogo che è il Cimitero degli Inglesi a Firenze), rimane orfano di padre molto presto e già a sedici anni è iscritto all’Accademia Militare di Modena. La madre nel frattempo si risposa con il marchese Paul de Teurenne, trasferendosi in una villa presso Scandicci e al suo ritorno da Modena il clima familiare non è più lo stesso. A causa delle numerose incomprensioni con la madre e il patrigno, il conte decide di andare negli Stati Uniti assecondando il proprio spirito cosmopolita e girovago.

Nel 1887 il conte Negroni appassionato di cavalli diventa cowboy tra le praterie del Wyoming e il Canada, successivamente si trasferisce a New York, dove frequenta ambienti esclusivi e ricevimenti importanti, da vero dandy quale il conte era. Trascorre sette anni nella Grande Mela, assaporando la vera essenza di quella che è stata definita la Golden age of cocktails, infatti qui apprezza e conosce i drink più amati dell’epoca. Sempre in questo ambiente vivace alla socializzazione e dedito alla bella vita apre una scuola di scherma e infine conosce Anta Zazworka, donna che lo accompagnerà e lo seguirà nei suoi numerosi viaggi, fino a quando nel 1912 i due decidono di vivere stabilmente nella natia Firenze.

Camillo Negroni, Ada Savage Landor, Anta Negroni (moglie di Camillo).

Camillo Negroni, Ad Savage Landor, Anta Negroni (moglie di Camillo).

Il conte avvolto dal fumo della sua immancabile sigaretta e cilindro sul capo, ogni sera prima di recarsi al Grand Hotel di Firenze, oggi St. Regis, per intrattenersi con la buona società fiorentina e internazionale, si recava al Caffè di Gaetano Casoni per deliziare il proprio palato con i cocktail serviti dall’amico e barista Fosco Bruno Sabatino Scarselli, il quale aveva iniziato a lavorare al caffè subito dopo la Prima Guerra Mondiale. Si racconta che Scarselli fosse il bartender perfetto: colto, socievole, attento ai gusti e alla personalità del cliente ma anche educato ed elegante, così come gentile ed umano era il conte, «forse un po’ snob e garbatamente spavaldo, ma sempre disponibile all’amicizia. Amante del rischio, non badava al domani prima di aver vissuto intensamente l’oggi».

Un giorno il conte chiese a Fosco di irrobustire il suo solito Americano con il Gin e fu in quel fatidico momento che vedeva la luce il primo Negroni, diventando in poco tempo il drink per eccellenza a Firenze per poi sconfinare in tutto il mondo. Il conte era devoto al suo cocktail e si racconta che in un giorno ne riuscisse a bere quaranta senza mai cedere in preda ai fumi dell’alcol, ma questo probabilmente perché i primi Negroni non venivano fatti nei classici tambler ma negli stretti calici da cordiale, allora molto in voga, come è ben rappresentato nei manifesti di inizio Novecento dall’artista Marcello Dudovich.

Una piccola, ma fondamentale, variante apportata alla tradizione ha tramutato il solito cocktail nel famoso Americano alla maniera del conte Negroni. Un cocktail che a distanza di quasi un secolo continua a deliziare i palati dei più temerari. Si sa, il Negroni lo si ama o si odia, non ci sono mezze misure, tre ingredienti che nella loro semplicità «creano una melodia che accarezza tutti i sensi […] ristora e rinfresca il corpo e la mente».

Testo ©Claudia Stritof. All rights reserved.

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A sinistra: Copertina del libro Negroni Cocktail. Una leggenda italiana di Luca Picchi, edito da Giunti Editore. Il libro raccoglie, oltre a innumerevoli informazioni documentarie sul conte e sulla storia del Negroni, anche molte immagini provenienti dalla Collezione di famiglia Negroni-Bentivoglio di straordinaria bellezza e importanza storica. A destra: Il conte Camillo Negroni. Courtesy Collezione famiglia Negroni- Bentivoglio. Giunti Editore.

A sinistra: Copertina del libro Negroni Cocktail. Una leggenda italiana di Luca Picchi, edito da Giunti Editore. Il libro raccoglie, oltre a innumerevoli informazioni documentarie sul conte e sulla storia del Negroni, anche molte immagini provenienti dalla Collezione di famiglia Negroni-Bentivoglio di straordinaria bellezza e importanza storica. A destra: Il conte Camillo Negroni. Courtesy Collezione famiglia Negroni- Bentivoglio. Giunti Editore.

Etichette realizzate da Depero per Campari. Dall'archivio Campari.

Etichette realizzate da Depero per Campari. Dall’archivio Campari.

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Sak Yan e la magia del tatuaggio thailandese https://www.cultmag.it/2015/10/11/sak-yan-e-la-magia-del-tatuaggio-thailandese/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2015/10/11/sak-yan-e-la-magia-del-tatuaggio-thailandese/#comments Sun, 11 Oct 2015 18:26:30 +0000 http://claudiastritof.com/?p=2134 La mostra fotografica Thai Sak Yan Magic Tattoos è dedicata all’arte del tatuaggio di Ajarn Matt, il cui vero nome è Matthieu Duquenois, nato in Francia nel 1972 ma che dal 2009 dedica anima e corpo allo studio del tatuaggio sacro thailandese.

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Matthieu Duquenois viene a conoscenza del tatuaggio Sak Yan all’incirca dodici anni fa, quando su una rivista francese vede le fotografie di un maestro tatuatore thai e ne rimane talmente folgorato da voler intraprendere un viaggio in Thailandia per approfondire la conoscenza di tale cultura. Inizialmente fotografa e prende parte a diversi riti magici con l’idea di pubblicarne un libro, ma in un secondo tempo la sua passione verso questo nuovo mondo spirituale inizia a diventare pura devozione ed è nel 2009, in un periodo difficile della sua vita, che Matthieu Duquenois ottiene il suo primo tatuaggio sacro. Da quel momento lo studio del Sak Yan, lo trasporta in un profondo viaggio spirituale arricchito dal minuzioso studio delle sacre scritture, decidendo da questo momento in poi di dedicarsi totalmente al cammino di maestro tatuatore. Come egli stesso ha dichiarato in un’intervista «noi in realtà non ci consideriamo come tatuatori. Per noi il rituale del tatuaggio è il mezzo per infondere la magia nel corpo del devoto […] Il significato è quello di cercar di aiutare i devoti a raggiungere i loro obiettivi attraverso il potere del loro tatuaggio».

La mostra Thai Sak Yan Magic Tattoos è un viaggio antropologico e mistico nella tradizione del tatuaggio del sud-est asiatico, una delle arti più antiche di ornamento del corpo e di benedizione dello spirito, che si fa risalire addirittura al terzo millennio a.C e che ancora oggi viene tramandata di generazione in generazione con egual devozione e sacralità.

Quello del tatuaggio Sak Yan è un percorso complesso, sia per il maestro che lo imprime sulla pelle tramite un’asticella con l’estremità appuntita, sia per il devoto che lo riceve come un dono mistico, prestando fede a specifiche leggi morali con il fine di eternizzare il potere magico e spirituale dello Yantra.

Un’arte antica e potente, che richiama a sé spiriti ancestrali e credenze soprannaturali racchiuse nella tradizione del tatuaggio Thai e che come dice lo stesso Ajarn Matt, è giusto tramandare e conservarne attraverso un’importante opera di valorizzazione e tutela che vedrà nel prossimo futuro la nascita di un museo dedicato al Sak Yan, per salvaguardare la cultura e gli oggetti legati alla tradizione del tatuaggio, non solo thailandese ma anche della Birmania, Laos e Cambogia, nazioni in cui questo tatuaggio ha ancor oggi radici forti.

Testo ©Claudia Stritof. All rights reserved.

Tratta dal sito di Ajarn Matthieu. Photo by Fred

Tratta dal sito di Ajarn Matthieu. Photo by Fred

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Addio alla Strozzina, addio alla Nori. Addio al bel paese ormai cinto di ragnatele. https://www.cultmag.it/2014/07/31/addio-alla-strozzina-addio-alla-nori-addio-al-bel-paese-ormai-cinto-di-ragnatele/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2014/07/31/addio-alla-strozzina-addio-alla-nori-addio-al-bel-paese-ormai-cinto-di-ragnatele/#respond Thu, 31 Jul 2014 20:27:10 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1452 “Il Centro di Cultura Contemporanea Strozzina è lo spazio dedicato all’arte e alla cultura contemporanea di Palazzo Strozzi: mostre, installazioni, conferenze, attività educative che conducono alla riflessione su temi della cultura di oggi attraverso il confronto con le opere di artisti contemporanei”, questa è la descrizione riportata sul loro sito. A mio avviso la Strozzina non è solo questo. E chi lo frequenta, chi partecipa o ha partecipato ai sui incontri lo sa e rimarrà molto deluso dalla sua chiusura. Questa è l’ennesima conferma che per l’arte contemporanea a Firenze non c’e posto. Arte medievale e rinascimentali si, ma oltre quella nulla, l’oblio.

Da quando ha aperto la strozzina mi ha regalato mostre stupende, tutte ben organizzate e mai banali. La direttrice Franziska Nori, il suo lavoro lo sa fare, e bene. Ma questo purtroppo non è stato capito e infatti dal primo novembre dirigerà il Frankfurter Kunstverein in Germania. Ci lascia Franziska… e ci lascia la Strozzina. La mostra in programma è stata cancellata all’ultimo momento. Le ragioni sono sempre quelle il budget. La mostra in programma si sarebbe dovuto chiamare “Senza coraggio non c’è sfida”, e posso dire che il coraggio di questi ragazzi e queste ragazze che hanno fatto capire l’arte contemporanea a molti visitatori mi ha sempre ammaliata.

Artribune si pone una buona domanda:

“Viene prima l’uovo o la gallina? O meglio: la scelta di congelare fino a data da destinarsi le attività di uno tra i centri più interessanti per il contemporaneo in Italia è l’antefatto o la conseguenza dell’annunciato addio della persona che, negli ultimi anni, ne ha determinato le fortune?”.

E ancora: “Il lavoro alla mostra era partito e quasi compiuto” ci spiega Franziska Nori, raggiunta telefonicamente, “assieme alla co-curatrice, Rosa Pera, i 13 artisti invitati e innumerevoli liberi professionisti coinvolti nella realizzazione stavamo portando a termine la produzione delle opere e i prestiti internazionali della mostra che avrebbe inaugurato tra soli due mesi e mezzo.Infatti non a caso il mio incarico a Francoforte ha inizio a novembre, dopo l’apertura della mostra. Se la direzione della Fondazione però ha reputato che la mostra d’arte contemporanea che fino a 4 giorni fa era in piena fase di realizzazione si debba cancellare per poter rientrare in un budget complessivo a rischio, certamente sarà così”.

Personalmente ho visto tutte le mostre della Strozzina… è un bel luogo. Le mostre non erano pesanti ma era attentamente studiate. Usciti da quelle sale si poteva dire: “forse ora ho capito qualcosa in più del mondo dove vivo”. Mostre profetiche e forse per questo motivo non capite. La scelta era sempre oculata: fotografi, videoartisti e artisti vincitori dei più grandi premi, tutti, e dico tutti contemporanei, non nel senso che si intende comunemente, ma dei giorni nostri, giovani come noi… non tralasciando mai i nuovi talenti. Purtroppo sono molto critica, perchè io in questo spazio ci ho creduto e le uniche volte che tornavo a Firenze era per vedere mostre della Strozzina. Uno spazio interessante per chi ama la fotografia, i video e le installazioni.

La Repubblica:

“Al tempo stesso, presidente e direttore parlano della necessità di un «ripensamento del modello organizzativo» dello spazio che tenga conto di «esigenze di medio-lungo termine ». E spiegano che, fintanto che tale ripensamento non darà risultati concreti, non verrà aperto il processo di selezione per un eventuale successore alla direzione”. Una Strozzina senza guida e senza mostre in programma, insomma, quasi un guscio vuoto che comunque continuerà ad ospitare, almeno nei prossimi mesi, attività come «lezioni», «laboratori» e altre iniziative non meglio precisate.

Purtroppo questa è l’Italia e questa è Firenze. Si aprono musei e ancora musei dell’arte del ‘900. Contenitori su cui convergono una serie di opere rimaste nei magazzini, senza avere un nucleo importante. L’arte “attuale, quella che viviamo, non quella da museo” non trova spazio. Per poter conoscere si deve andare all’estero. Come all’estero ci mandate per fare arte. Io non ho più parole. L’Alinari, una ricchezza per l’Italia ha chiuso e ha svenduto… era una collezione che nessuno possedeva. Distrutta. La Strozzina. Chiusa, mostra annullata. La Nori tornanata in Germania. Credo che Firenze si debba porre due domande sulla città. In quella città ho vissuto per cinque anni e ci sono letteralmente scappata… con l’unico rimpianto non aver fatto il tirocinio alla Strozzina con la Nori… e credo che questo rimpianto mi rimarrà.

Buon turismo nel tempo che un tempo fu culturale e a tutti voi che andate a Firenze. Vi riporto la recensione scritta da me su Tripadvisor un pò di tempo fa:

Il Centro di Cultura Contemporanea Strozzina allestisce mostre veramente interessanti.
Capito molto spesso a Firenze e dall’apertura del museo non ho perso neanche una mostra. A Firenze, città d’arte, si fatica a trovare l’arte contemporanea e in particolare fotografia e video-arte.

Io la consiglio, perchè il team guidato da Franziska Nori è molto preparato sulle ultimi tendenze in campo artistico.
Le mostre sono incentrate su temi attuali: digitale, economia e valore nell’arte contemporanea, realtà manipolata e mondo virtuali. La Strozzina organizza numerose conferenze, e permette di partecipare attivamente con laboratori legati alle singole mostre, serate musicali e incontri con importanti storici, critici e sociologi. Il giovedì dalle 18:00 in poi è gratuito.
Come capita spesso in molti musei alcune mostre possono essere più o meno interessanti a seconda dei gusti personali. Quella di Bacon, benchè i pezzi fossero non tra i più famosi è stato molto interessante per la riflessione innescata alla base.
I cataloghi a me piace averli cartacei per cui li ho quasi tutti, dopo un pò alcuni vengono messi in sconto a 10 euro. Il costro è comunque contenuto e sono fatti bene con vari contributi di importanti studiosi. Se non si volesse acquistarli, sono comunque reperibili online, come anche lo streaming degli incontri.
Le mostre non sono mai eccessivamente grandi quindi vi permette di vederla senza stancarsi o fare corse eccessive. Consiglio vivamente agli appassionati di arte contemporanea, fotografia e video”.

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