glioblastoma – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Sun, 14 Feb 2021 15:40:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Strade principali e vie secondarie https://www.cultmag.it/2021/02/12/strada-principale-e-vie-secondarie/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/02/12/strada-principale-e-vie-secondarie/#respond Fri, 12 Feb 2021 08:26:55 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6745 Io ero la piccola, Lei la grande. Ci passavamo diciassette mesi di differenza e credevo che non mi avrebbe mai lasciata. Ho avuto una sorella ma, a soli 26 anni, mi è stata strappata via da un mostro famelico.

Se dovessi scrivere un romanzo sulla nostra storia, questo sarebbe l’inizio.

Scriverne non è mai stato facile, nonostante io l’abbia fatto regolarmente, a partire dal 12 marzo di quell’anno maledetto.

Il motivo? Trovare una via di uscita al dolore che mi stava annientando, prima a causa della malattia, poi per la sua assenza.

Ernest Hemingway ha scritto: “non c’è nulla di difficile nella scrittura. Tutto ciò che fai è sederti alla macchina da scrivere e sanguinare”.

Così è! Chi parla di sé, qualunque sia il mezzo di scrittura, “sanguina”!

In questi giorni nel mio personale “museo della memoria” ha fatto la sua comparsa il fotografo Settimio Benedusi con il progetto ES_SENZA del 2015.

Un lavoro che inizia con un autoritratto realizzato dal fotografo poco prima di andare alla messa commemorativa in suffragio del padre, morto otto anni prima.

Ritrattosi insieme alla madre Renza, i due soggetti, metaforicamente “nudi” di fronte ai nostri occhi, affrontano l’assenza; una dualità, questa tra presenza/assenza, che viene vissuta costantemente da coloro che hanno perso la persona amata.

Evidentemente sentita anche dallo stesso Benedusi, la cui fotografia, nata da un’esigenza di espressione personale, si è tradotta in una solida riflessione concettuale.

Settimio Benedusi, ES_SENZA, 2015 ©Settimio Benedusi

Quando qualcuno ci lascia si è ossessionati dalle sue fotografie e Benedusi non è da meno, ma lui non si limita a osservare le immagini con nostalgia o con photos, direbbero i greci, ma le estrapola dall’album di famiglia e le modifica con photoshop, cancellando la figura del padre, prefigurando il luttuoso evento e la solitudine da esso derivata.

Diversi tipi di “scrittura” ci portano a un unico fine: sondare il proprio passato e le proprie emozioni; guardarle in faccia senza aver paura. Sanguinare e reagire.

Il mio cammino è iniziato sette anni fa e dopo il primo scritto, letto in chiesa dalla voce spezzata di mia madre, sprofondai nel divano di casa attanagliando la mente con mille domande.

A un anno di distanza confesso di aver imparato a pronunciare la parola morte; una piccola bugia detta a me stessa probabilmente per sopravvivere alla perdita.

Rivivevo i nostri ricordi d’infanzia e pian piano riaffioravano quelli felici, dimenticando progressivamente la malattia.

Nel giorno del suo 31° compleanno, capivo di essermi smarrita nuovamente e mi appellavo alla sua sicurezza per ritrovare la via da percorrere.

Cercare Lei insistentemente mi ha portata a smarrirmi. Non si può essere un’altra persona, men che meno cancellare il passato, ma questo lo si può riscrivere; il che non vuol dire falsarlo, ma semplicemente cercare di comprenderne lo svolgimento, stando attenti a non rifugiarsi in esso troppo a lungo, perché si rischia di cadere in un oblio profondo, come è accaduto a me.

Che non fosse ancora tutto lineare nel mio percorso, risulta chiaro dallo scritto quattro anni senza te…, quando riemergeva in me la paura della malattia e cinque anni dopo mi sentivo impaurita come una moleca senza guscio.

Probabilmente Freud avrebbe definito questo ripresentarsi degli eventi traumatici una “coazione a ripetere” che mi ha impedito di prendere coscienza con trasparenza della situazione e che evidentemente mi destabilizzava.

Settimio Benedusi, ES_SENZA, 2015 ©Settimio Benedusi

Così, sei anni dopo, facevo di nuovo i conti con la malattia, motivo che mi ha convinta a pubblicare le uniche fotografie superstiti del nostro ultimo anno insieme.

L’energia liberata in tutti questi anni mi aveva stimolata e desideravo mettere ordine al caos; un lavoro che si è svolto in modo lento e graduale, con tanto dispendio di energia fisica e mentale.

Così l’anno scorso, di fronte al tappeto blue di Yves Klein al MAMAC di Nizza, capivo che era ormai giunto il tempo di iniziare a rileggere ciò che avevo scritto.

In questi anni più scrivevo e più “sanguinavo”, ma al tempo stesso più cercavo di rielaborare verbalmente e grammaticalmente le frasi sconnesse e troppo viscerali, più la comprensione giungeva, trovando quel distacco dall’emotività totalizzante e autodistruttiva. Un distacco tra l’Io narrante e l’Io vivente che altro non è che un modo per sopravvivere ai propri pensieri con lucidità, cercando di far cadere ogni maschera e illusione.

Nell’ultimo anno credo di aver preso coscienza sulla meta da raggiungere, dico “credo” perché ancora mi trovo nelle vie secondarie alla ricerca della via maestra da percorrere con sicurezza. Sento che non è ancora il momento di scrivere la parola fine al racconto del mio passato; ma ci siamo quasi.

Prima o poi, arriverà il momento in cui godere a piene mani dei piccoli momenti di felicità. Forse è una vana speranza, forse mi sentirò per sempre a metà. Queste sono altre domande destinate a restare senza risposta… ma il fatto che ormai io non me le ponga più con tanta insistenza, qualcosa vorrà dire.

Persa tra mille ricordi, parole e fotografie, ecco che anche oggi mi sono ritrovata nel mio Museo, rifugio e salvezza dell’anima.

Mari, sempre nel mio cuore: mia carezza, mia forza, mio coraggio. Come ogni anno, stasera brinderò a te mia dolce sister.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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Il giorno del tuo 34° compleanno https://www.cultmag.it/2020/09/13/il-giorno-del-tuo-34-compleanno/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/09/13/il-giorno-del-tuo-34-compleanno/#comments Sun, 13 Sep 2020 14:18:46 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6709 Esattamente un anno fa iniziavo lo scritto dedicato a Mari con una “congiunzione”; elemento grammaticale di unione tra passato e presente, in vista di un futuro che all’ora mi era sconosciuto.

Questo anno è trascorso e, dopo molti mesi, sappiamo essere stato un anno denso per tutti, colmo di incertezze e insicurezze. Un anno di progetti saltati, di altri creati, di vite da riscrivere, di parentesi da chiudere. Un anno di esigenze sorte, di dubbi instillati e di intense emozioni vissute.

Un anno che – visti gli ultimi avvenimenti – è assolutamente da portare a termine.

Settembre non è il mio mese portafortuna, non credo lo sia mai stato, ma lo amo, per la calma che questo dona allo spirito, per i profumi che accompagnano i pomeriggi di fine estate e le serate passate con il primo fresco autunnale.

Settembre per me è un mese un po’ ballerino, denso di ricordi e di concentrazione; il mio spartiacque emozionale, anche perché di solito significava partire e allontanarmi dalla mia famiglia per andare “su”. Oggi, invece, ho deciso di andare con calma, di fermarmi e riflettere.

Ciò che ho notato in questi giorni, riguardando le fotografie di quando eravamo piccole Mari e io, come, crescendo, fossimo rimaste caratterialmente uguali.

Io sempre pasticciona e mai in posa nelle fotografie, lei sempre impeccabile, sorridente e fotogenica.

Alle feste io mi divertivo arrampicandomi sugli alberi, come ancor oggi mi piace girovagare nella natura, lei invece prendeva il microfono cantava e ballava, come sempre. Ero sempre io a seguirla e lei molte volte si infastidiva essendo la sorella più grande.

Ma forse forse… era proprio questo il nostro bello.

Nell’ultimo periodo sto riflettendo molto sul presente e, le infinite elucubrazioni mentali, mi hanno spinta a pormi delle domande su come ho affrontato la sua perdita e come ho cercato di colmare la sua assenza.

Ho scritto tanto di lei, di noi… dei vari momenti affrontati: il dolore indelebile della malattia per molti anni e poi, pian piano, il sorgere di bellissimi ricordi vissuti insieme.

Mi sono accorta anche di averla cercata a un ritmo frenetico nelle altre persone, sperando di trovare all’esterno un legame come il nostro, speranza vanificata perché impossibile sostituire l’amore di una sorella o l’appoggio che lei poteva darmi in determinate situazioni, conoscendo ogni mia piccola titubanza o incertezza; ma probabilmente la cosa più grave è che ho cercato lei in me come un tornado impazzito.

Una continua ricerca che mi ha portata a convivere per molto tempo con una persona diversa da quella bambinetta dispettosa che si agita e scalpita all’interno di me.

Eravamo due parti diverse di un meraviglioso universo e ci compenetravamo per le nostre differenze. La cosa più complicata sta proprio in questo: ritrovare l’equilibrio da soli è difficile, ma è l’unica via per mantenere viva la propria essenza e salvare la propria unica meravigliosa esistenza.

Chi sono? Cosa farò? Qual’è il mio posto e con chi? Domande che mi hanno ossessionata per troppo tempo e che ora mi spingono a sostituire quella congiunzione con cui iniziai lo scritto dell’anno scorso, con una pausa, intensa in senso musicale, come un preciso momento di silenzio.

Ogni mia decisione avrà una conseguenza e di questo ne sono consapevole, ne sono stata sempre consapevole, perché l’unica cosa che non vorrei nella mia vita, sono i rimpianti.

Il passato, il modo in cui siamo cresciuti, le amicizie e le paure che nel corso degli anni si sono insediate in noi, velatamente agiscono e ci presentano il conto, che sia esso positivo o negativo. Più rifletto e più comprendo che ho sempre amato sorprendere e amo essere sorpresa, anche perché – ormai è una certezza – ogni volta in cui ho smesso di sorprendermi tutto è andato storto.

Qualcosa cambia e capisci che l’aria da assaporare è altra, che può esserci molto di più da pretendere da se stessi e anche dagli altri per stare bene.

Probabilmente sta qui il segreto: essere consapevoli, creare le proprie immagini del desiderio e immergersi in esse affinché la famosa legge d’attrazione si attui. Più facile a dirsi, che a farsi, ma da quel poco che ho capito in questa strana vita è che l’accettazione è il punto di partenza per scrivere nuove pagine di vita. 

Alcune volte la vita sembra sfuggire e allora è proprio quello il momento di prendersi una pausa per respirare e poi continuare il proprio tragitto.

Y. Klein, Senza titolo monocromo blu (IKB 3), 1960 © Adagp, Paris

Io l’ho capito poco tempo fa al museo di arte contemporanea di Nizza, quando mi sono trovata di fronte al tappeto blu di Yves Klein, un’opera che mi ha donato grade tranquillità e una strana sensazione di fluidità nel pensiero come antidoto all’insopportabile pesantezza della mente. 

Osservando quel blu oltremare ho sentito l’esigenza di afferrare il mio tempo, entrare in contatto con me stessa, controllare i pensieri assordanti e librarli nel vuoto.

Una potenza che invade l’Universo, sia quello fisico che quello mentale, questo è l’International Blu Klein, «la più perfetta espressione del blu», sintesi tra cielo e terra.

Klein non trovandolo pronto sul mercato dovette fermarsi, sperimentare e creare tale essenza cromatica. Un duro lavoro di ricerca, non facile certo, ma volto a creare la propria personale meraviglia.

Un concetto non così banale, soprattutto dopo il periodo denso che tutti abbiamo affrontato, perché il solo che ci consente di prenderci il tempo necessario per comprendere la vibrazione che ci ha percorso violentemente negli ultimi mesi.

Klein scriveva: «ora voglio andare oltre l’arte – oltre la sensibilità – oltre la vita. Voglio andare nel vuoto: la mia vita dovrebbe essere come la mia sinfonia del 1949, una nota continua, liberata dall’inizio alla fine, legata ed eterna al tempo stesso perché essa non ha inizio né fine… Voglio morire e voglio che si dica di me: Ha vissuto perciò vive».

Mari ha vissuto e io continuo a farlo. Anche quando sapeva che non ce l’avrebbe fatta, lei ha lottato. Io non sono lei, non lo sono mai stata, ma ci siamo sempre compenetrate e questa è stata la nostra forza ed è la mia.

Per molto tempo ho creduto di dover trovare una me che probabilmente non è mai esistita e se non tutte le cose giungono per casualità, in questi miei ultimi mesi una poesia scritta dalla mia bisnonna, Maria Macrì Lucà, mi è venuta in soccorso.

Sorella che taci e sorridi

che giaci

tra fiori odorosi di zagara bianchi,

con piccole mani,

congiunte sul cuore […]

tu senti sorella, il mio pianto,

Tu senti il mio canto!

Sorella, è già sera

per il cuore che non ebbe mattino!

Passò la bufera

sul dolce giardino della mia giovinezza

e tutto travolse, infranse, schiacciò […]

E allora sorella, tu sola sentisti

che tetro terrore mi colse,

che cupo silenzio m’avvolse!

Nel buio, nel fango, prostrata,

inutile cosa restai […]

e buio era il cuore e il pensiero […]

E allora, sorella che giaci,

tra fiori odorosi,

parlasti, con voce lontana, velata

ma chiara al cuore,

dicesti: “Sorella,

asciuga il tuo pianto!

Detergi le piaghe!

Sorridi! Cammina!

Sorella, la vita è un’istante

che passa veloce:

Si ferma, Si tace,

e viene, Sorella, nei Cieli

la Pace!”

Tutto si acquieterà.

La mia bisnonna, così come coloro che hanno amato e poi perso, conoscono quanto sia dura la strada per risorgere; basta fermarsi un attimo, darsi il tempo per riflettere e “impregnarsi con la più perfetta forma del blu”, per poi osservare con chiarezza pensieri e sentimenti.

Si deve andare avanti, questo può essere un percorso più o meno lungo, ma si deve fare, per non dimenticare chi si era ed essere se stessi con consapevolezza.

Buon trentaquattresimo compleanno, mia dolce sister… oggi, come ogni anno, brinderò a te. 

***

Testo ©di Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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La fotografia del ricordo. Sei anni senza te. https://www.cultmag.it/2020/02/12/la-fotografia-del-ricordo-sei-anni-senza-te/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/02/12/la-fotografia-del-ricordo-sei-anni-senza-te/#comments Wed, 12 Feb 2020 07:12:12 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6501 Eccoci giunti al sesto anno… il sesto della mia vita senza Mari.

Sei anni dal giorno in cui quel maledetto mostro l’ha portata via da noi. Io avevo 26 anni, lei 27… e tra qualche giorno ne compirò 32. Strana questa esistenza!

Quest’anno ho deciso di parlare di lei attraverso una delle mie passioni più grandi: la fotografia, poiché, ancor oggi, sono tante le persone che mi chiedono perché ho smesso di fotografare.

Alla domanda, non è mai seguita una risposta. Un giorno della mia vita ho mollato… No, non è questa la verità.

Il mio aver riposto la reflex nell’armadio è stata una decisione nata in seguito a un progetto, che all’inizio non si configurava come tale ma che mio malgrado lo è diventato.

All’epoca scattavo giornalmente. Mi truccavo, impersonavo altri soggetti, guardavo negli occhi le persone e chiedevo loro di poterle fotografare; l’unico momento in cui non volevo scattare era quando “andava fatto”: feste, cene, compleanni. La responsabilità, in quel caso, passava a mia sorella.

Un giorno ricevetti una telefonata: «devi tornare a casa, Mari sta male. Stiamo andando all’ospedale di Reggio Calabria».

Impaurita e senza altre informazioni, prendo la macchina fotografa e una borsa con due vestiti, mi fiondo sul primo treno e inizio la mia discesa verso Rosarno.

Non avendo la giusta concentrazione per leggere e né la voglia di riposare, passavo il tempo guardando dal finestrino, ascoltando musica e ogni tanto passeggiavo nei vagoni claustrofobici di Trenitalia.

Ferma, davanti a una delle porte di uscita, scattai. Ancora non sapevo che quella sarebbe stata solo la prima fotografia di una lunga serie del nostro ultimo anno passato insieme. 

Finalmente ero giunta in ospedale. Eravamo lì senza nessuna notizia, in attesa  dei medici. Tra uno scherzo e un pisolino di Mari, arriva il pranzo. In quel preciso momento mi accorgo che aveva poca forza e che quel cucchiaio di plastica tra le sue dita sembrava pesare come un macigno. Non capendo il motivo, scattai una seconda fotografia.

Dopo i primi giorni passati a Reggio, siamo arrivate a Verona e nella città scaligera, io ho continuato a scattare. Prima dell’operazione, dopo l’operazione, la notte accanto a lei, quando ci annoiavamo, il giorno appena mi svegliavo, il pomeriggio in attesa di entrare in ospedale. Ancora durante la chemio, la radio e durante gli infiniti pomeriggi passati nel convitto delle suore.

Io e Mari non avevamo mai smesso di scattare. Lei fotografava me, io lei. Inconsapevolmente era nato un progetto. Volevamo documentare la malattia, volevamo spiegare cosa significasse avere un gliobliostama IV grado e cosa volessero dire chemio e radio. Lo facevamo per noi ed era una continua e dolorosa scoperta che lei viveva in prima persona, io osservandola, parlandoci e vedendo ogni suo cedimento.

Mia sorella era una cazzuta e nonostante la malattia ha continuato a svolgere la sua vita: studiava per diventare notaio, si è laureata, andava in palestra, gioiva, rideva e – a parte l’esser passate alla birra analcolica – cercava di svolgere una vita il più normale possibile.

Non sapevamo quale sarebbe stata l’ultima fotografia, né quando questo sarebbe avvenuto, anche se a un certo punto dovetti fare i conti con la realtà e scattare l’immagine che nessuno vorrebbe conservare nella propria memoria. Io lo feci perché ne avevo bisogno.

Inconsapevolmente, dopo la morte di Mari, ho continuato a scattare ossessivamente, non la vita nel suo scorrere – essendo diventata sostanzialmente un ghiro – ma la mia attenzione era andata verso un oggetto, che ogni giorno stava lì a ricordarmi che lei non c’era più: il manifesto mortuario.

Era affisso sulla cassettina dell’elettricità nella strada parallela al mio portone di casa. Nel tempo quel manifesto ha iniziato a svanire, a logorarsi, fino a quando qualcuno non lo ha strappato. Evidente non ero l’unica persona a cui quel manifesto faceva male, solo dopo scoprì essere stata mia nonna.

Innumerevoli giorni (mesi) di divano dopo, torno all’università e durante quel maledetto viaggio in treno succede l’irreparabile: rubano la mia valigia con la memoria esterna e il computer. Non avevo più nulla se non rari file che avevo spostato su dropbox.

Il viaggio a Lourdes. ©Claudia Stritof.

Eccoci giunti al momento in cui ho ufficialmente posato la mia reflex nella sua custodia e nascosta nell’angolo più buio del mio armadio.

Qualche tempo dopo, accade di nuovo qualcosa e senza che io me ne rendessi conto incomincio un nuovo progetto con l’’instantanea appena regalatami da Cristiano.

Da quel giorno ho iniziato a documentare la mia vita con l’intenzione di ricordare giorno per giorno gli avvenimenti, associandoli a un testo, affinché mi ricordassero chi ero e cosa stavo diventando. Era nato il progetto 365, che poi è durato tre anni della mia vita e a cui ho posto fine quest’anno: il 31 dicembre 2019.

La perdita della persona amata – una sorella, una figlia, un marito o una moglie – è qualcosa che non si riesce a comprendere e che mai dovrebbe essere esperito.

Ci si sente a metà, come se qualcuno ti avesse portato via una parte di cuore; ma ci si deve rialzare. Io grazie a mia madre – donna coraggiosa, mia fonte d’ispirazione e mio modello d’amore -, alla mia famiglia e alle molte persone che mi sono state vicine, ci sono riuscita. Non è stato semplice e qualche volte ricasco nel mio pessimismo universale, ma non oggi, perché la mia voglia di prendere a morsi questa vita è tanta perché, dopo sei anni e innumerevoli peripezie, ho imparato qualcosina in più dalla vita.

Ora tutto sta mutando e se ho una paura matta dei prossimi mesi, non vedo l’ora di iniziare a viverli. Non so se sto prendendo le decisioni giuste, non so quale sia la decisione giusta, ma è giusto seguire ciò che al momento ci rende felici. A rendermi felice è poter scrivere di fotografia al momento, così come alcune persone e sento che il mio volermi bene, fa bene anche a chi mi sta intorno perché provano le mie emozioni, così come vivono le mie gastriti.

Wadsworth Longfellow scrisse: «le feste più sacre sono quelle che celebriamo in silenzio e solitudine. Sono gli anniversari segreti del cuore, quando il fiume dei sentimenti rompe gli argini».

Oggi certamente non è una festa, ma una ricorrenza, quella dell’ultimo bacio con mia sorella, e ho voluto tramutare questo “anniversario del cuore”, in una riflessione, cercando di rompere quelle barriere mentali che mi costringono all’immobilità, alla paura e al dolore asfissiante che provo dentro. Perché si prova purtroppo e oggi, come ogni anno, sento di volerlo condividere con chi amo.

Condividiamo questo dolore con mia madre e, con il tempo, ho scoperto con molte altre persone, che la loro esperienza mi hanno raccontato e da cui sono uscita fortificata. Quello che ho capito è che guardare il dolore in faccia fa male, ma dobbiamo sempre ricordare di aver ereditato un miracoloso destino che, aperte parentesi avrebbe potuto non essere così bastardo, ma essendolo stato, non ci deve far dimenticare la grinta, la passione, la forza che abbiamo compreso di avere, seppur celata in qualche meandro del nostro cuore.

I miei cuori. ©Claudia Stritof.

Mari ha amato la vita più di ogni altra cosa, celebrandola con la massima intensità in ogni suo giorno di vita, io sono sempre stata un pò “bradipo”, ma ciò non toglie che devo dire grazie, perché ho amato e amo, ho anche perso tanto e ho sofferto, ma poi mi sono sempre rialzata.

È difficile venire a patti con se stessi e, alcune volte, si pensa di non aver meritato questa vita, ma non è vero. Ultimamente mi hanno detto «devi vivere nelle infinite possibilità», non pensare ai “non” e ai “ma”. Pensa che ci riuscirai, provaci e ti sorprenderai. Solo così si riuscirà a mutare il proprio punto di vista sul mondo.

In un articolo letto pochi giorni fa, la psicologa Marie Laure Colonna, definiva i fratelli come un solo essere umano diviso a metà. Un’identità molteplice che si manifesta attraverso il più nobile dei sentimenti: l’amore che non svanirà mai.

Dopo sei anni, posso dire di aver imparato a gestire alcuni pensieri, ma la voglia di poter parlare con lei, di raccontarle le mie giornate e condividere la mia vita con lei non è mutata. Ho piuttosto imparato a convivere con il ricordo e vivere del suo amore, come di quello che mi circonda. Come disse, Susan Sontag, nel libro Davanti al dolore degli altri, «è la passività che ottunde i sentimenti», sta a noi rinnovarli con il dono dell’emozione, della condivisione e con la voglia di star bene “qui e ora”.

Come ogni anno, stasera con un negroni brinderò a te mia dolce sister. Sempre nei mie pensieri e nella mia vita.

Testo e fotografie di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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Il giorno del tuo compleanno… https://www.cultmag.it/2018/09/13/il-giorno-del-tuo-compleanno-2/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2018/09/13/il-giorno-del-tuo-compleanno-2/#comments Thu, 13 Sep 2018 06:40:42 +0000 https://www.cultmag.it/?p=5657 Il dolore è un sentimento lento da comprendere e ognuno ha il proprio modo per farlo; io solitamente scrivo e questo mi aiuta a concretizzare e a dar un nome alle emozioni, anche quelle più invasive.

Oggi è il 13 settembre 2018: altro anno, altro compleanno, quello di Mari, eterna ventisettenne.

La riflessione, il pensiero e l’ascolto è ciò che più ho imparato ad apprezzare negli ultimi anni e oggi, nel giorno del suo compleanno, ho deciso di ricordarla affidandomi alle parole degli altri, o meglio, intrecciare le mie con quelle di chi l’ha conosciuta.

Questo mi è stato possibile grazie al prezioso raccoglitore in cui sono conservati i molti testi a lei dedicati e scritti durante il suo funerale. Ma facciamo un passo indietro.

Oltre al quaderno delle firme, nei giorni del lutto, ho chiesto a zio Rug di fare due taccuini con una scritta: «lascia un pensiero felice per Marinella». Non conoscevo bene il motivo della mia richiesta, ma volevo qualcosa di speciale per Mari, avevo bisogno di condividere di più con chi l’aveva conosciuta. Quel giorno mentre io ero in cucina ad abbracciare amici che si susseguivano uno dopo l’altro, le pagine bianche di quei taccuini venivano sfogliate una ad una e vergate con parole bellissime.

Da questa mia richiesta istintiva è nato uno scrigno di dolore, di speranza, di cordoglio, di vicinanza… Pagine di un diario collettivo che persone, conosciute e non, hanno voluto condividere con me e che io ringrazio immensamente perché quello che emerge è un ritratto stupendo di Mari, vivace, allegra, decisa e solare proprio come lei era giornalmente.

Qualcuno scrive «sei stata un buon esempio per tutti, hai dimostrato con tutte le tue forze e il tuo coraggio che nella vita si deve lottare fino all’ultimo». Così è stato! In un anno di malattia ci sono state due operazioni al cervello, tanti viaggi alla ricerca di una speranza, una laurea in giurisprudenza, la mai interrotta frequentazione della scuola notarile e la sempre presente palestra.

Lei la vita l’ha dominata percorrendo vie di dolore fino in fondo e non perdendo mai la speranza nella guarigione… viveva intensamente giorno per giorno senza mai farsi sfuggire le occasioni che la vita le presentava. Appassionata di moda, di macchine, di moto, di snowboard, di sub… eravamo all’opposto, ma proprio grazie a lei, conoscevo sempre qualcosa di nuovo e quel qualcosa presto sapevo che sarebbe diventato anche un mio interesse e viceversa.

In questi anni grazie a lei ho stretto nuove amicizie, in primis, con alcuni colleghi della scuola notarile che sempre la ricordano con grande amore. Uno di loro mi ha scritto: «Lei è stata d’ispirazione per tutti. Da sola è riuscita a creare un gruppo incredibile […] Molti ragazzi di quel corso oggi sono notai ed è anche grazie a lei […] Era davvero una persona positiva, determinata, che ci metteva tutto in quello che faceva. E soprattutto quando faceva una cosa era la passione a muoverla, non un tornaconto personale».

Un altro amico scrive: «circa un anno fa eri seduta accanto al mio caminetto […] la fiamma illuminava il tuo viso e sembravi un angelo. Questa immagine la porterò sempre con me. Marinella, adesso sei tu che devi illuminare il cuore di tua mamma e di tua sorella».

La sua bellezza è ricordata da molti: «hai voluto che ti ricordassimo bella e sorridente. Bene, così ti porterò sempre nel mio cuore», e ancora, «se il mio mare avesse un volto sarebbe il tuo… tu sei del mare, del vento e della terra che custodiranno per sempre la tua fanciullezza. Per me queste viuzze non avranno mai più luce. Ciao Guerriera».

«Il mare – scrive un’anima gentile – mi ricorderà sempre la tua meravigliosa grazia. E’ stato un dono averti avuto con noi», oppure «non vedere te correre sul lungomare non sarà più la stessa cosa», mentre un anonimo scribacchino – che evidentemente la conosceva bene – scrive: «Zitti tutti… Parla Marinella».

Scorrendo le pagine di questo diario corale, una lunga lettera ripercorre i ricordi adolescenziali, dalle sedute di abbronzatura intensiva cosparse di birra agli amori passati, per terminare al presente: «ricordo te quest’estate, forte, sorridente… così voglio ricordarti».

In molti ricordano Mari, papà e me sulla vespa azzurrina, mentre innumerevoli bigliettini dopo, una lettera di estrema bellezza: «rivedo me e te con i nostri cerchietti a tenerci per mano all’uscita della scuola […] rivedo me, te e Claudia a Canolo, a dormire nei letti a castello e ricordo le risate di quando voi mangiavate le quaglie e io dicevo che non le avrei mai mangiate».

I due anni di Mari festeggiati a Canolo.

La nostra amica continua «sono questi i ricordi meravigliosi che custodisco a chiave nel mio cuore, i ricordi di due bimbe con gli occhi spensierati che non avevano ancora mai conosciuto il male». Ed è così, non avevamo ancora conosciuto il male, non sapevamo quanto la vita potesse essere bastarda, semplicemente eravamo felici.

Retorica? Per alcuni si, per me no… Questi pensieri infatti li ho riscontrati in molte frasi scritte nei taccuini: la fugacità, il tempo scaduto e il dar per scontato la vita stessa.

«Marinella per me è stata una presenza trascurata, nell’irrinunciabile illusione che ci sia sempre ancora tempo», sconcertante verità di un ragazzo del mio paese, con cui io stessa ho iniziato a parlare solo dopo questa intensa lettera. Essendoci sempre visti e distrattamente salutati, abbiamo dato per scontato che ci saremmo stati sempre e forse, in un futuro imprecisato, saremmo capitati ad una cena estiva insieme.

Un’altra persona scrive: «voglio ricordarti come quando ti ho conosciuta, grintosa e determinata. Avevi gli “occhi della tigre”. La tua storia mi ha fatto capire come siamo piccoli noi che ci arrabbiamo per il nulla quando tu sorridevi innanzi a quel mostro che ti ha portato via. Che la tua voglia di vivere ci sia da esempio».

Esempio, riflessione, sconcerto sono parole molto utilizzate nei taccuini… così come citazioni, poesie, la canzone di Marinella, frammenti di parole altrui e a lei dedicate perché, come scrive qualcuno, «non trovo le parole giuste per esprimere la sofferenza che oggi porto nel mio cuore».

L’ultima frase che riporto è proprio una citazione scritta da una persona a me molto cara: «la felicità si dimentica, il dolore rimane sempre dolore», che in sostanza era ciò che aveva affermato Albert Einstein. Conoscendo la persona che l’ha scritta ne comprendo il senso e il dolore… e non posso dar torto al gentiluomo d’altri tempi.

Il dolore rimane sempre dolore, le sensazioni sorte da un male lancinante, quale la perdita di un figlio o di una sorella, non credo si possano dimenticare, stanno sempre lì in agguato, seppur assopite. I momenti felici invece vanno e vengono, e se anche questi sfuggissero alla nostra memoria, sicuramente ci sarebbe qualche fotografia a ricordarli. Io molti ricordi belli nel tempo li avevo messi in pausa e archiviati, per far prevalere il dolore della perdita, ed è per questa ragione che oggi, nel giorno del suo compleanno, ringrazio chi ha voluto condividere con me il suo ricordo, perché ciò che ne è derivato è un ritratto ricco di infinite sfumature e una sinfonia celestiale di parole toccanti.

Se dovessi pensare ad un’opera d’arte ora, non penserai ad un ritratto monumentale scolpito nel marmo come quelli cimiteriali, ma ad un’installazione di Christian Boltanski fatta per il Museo di arte ebraica di Parigi, dove i nomi delle persone che non ci sono più sono ricordati su semplici fogli di cara, che ogni anno devono essere stampati, affinché il ricordo delle persone venga rinnovato.

Ecco questi foglietti e le parole che mi sono state donate, sono una resurrezione metaforica, un ricordo vivo e pulsante che esaltano l’eterna bellezza di Mari e le rivolgono una preghiera laica di amore e riflessione.

E ora basta con i troppi pensieri, stasera sarà il tempo di un buon negroni per augurarti un meraviglioso compleanno mia dolce Sister, così come avremmo fatto. Sei sempre splendente nei miei ricordi…

Testo e vita di ©Claudia Stritof

***

***Quest’anno “Rock the Casbah” versione The Banditi ai cui concerti ballavamo come matte***

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Quattro anni senza te… https://www.cultmag.it/2018/02/12/quattro-anni-senza-te/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2018/02/12/quattro-anni-senza-te/#comments Mon, 12 Feb 2018 15:04:18 +0000 https://www.cultmag.it/?p=5423 Ernest Hemingway scriveva: «oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno. Ma quello che accadrà in tutti gli altri giorni dipende da quello che farai tu oggi».

Questa frase, pronunciata con parole e da persone diverse, ultimamente mi è stata detta molto di frequente. E’ difficile mettere in pratica il concetto espresso in queste poche righe perché è connotato da una coraggiosa voglia di esistenza. Vuol dire afferrare la propria vita a denti stretti e farla volgere al meglio in modo cosciente e consapevole.

A me questa consapevolezza e questo coraggio molto spesso mancano, mi crogiolo nei ricordi e nei pensieri… vago, osservo, ascolto, provo a cambiare le cose ma poi basta un intoppo per tornare al mio bicchiere sempre mezzo vuoto.

Ultimamente ho deciso di prendere una pausa da tutto ciò che era la mia vita di prima, dalle mie certezze e dalle mie insicurezze. Sto cercando di affrontare il mondo “da sola” e ho deciso di farlo cambiando le carte in tavola quasi all’improvviso. Ho preso delle decisioni che stanno avendo delle conseguenze – sopratutto sul mio sonno, visto che ormai dormire è diventata un’impresa non da poco – ma ho deciso di farlo lo stesso. Non so se queste mi porteranno ad una realtà più consapevole, ma semplicemente dentro di me ho sentito che era giunto il momento, perché se si ha paura della solitudine non si avrà mai la lucidità per poter stare bene con gli altri.

Un giorno leggendo Se il sole muore di Oriana Fallaci ho ritrovato le sensazioni che stavo provando: «sono stupendi i trent’anni, ed anche i trentuno, i trentadue, i trentatré, i trentaquattro, i trentacinque! Sono stupendi perché sono liberi, ribelli, fuorilegge, perché è finita l’angoscia dell’attesa […] Non temiamo la punizione perché abbiamo concluso che non c’è nulla di male ad amarci se ci incontriamo, ad abbandonarci se ci perdiamo: i conti non dobbiamo più farli con la maestra di scuola e non dobbiamo ancora farli col prete dell’olio santo. Li facciamo con noi stessi e basta, col nostro dolore da grandi».

Leggendo questa frase mi sono detta: ecco un’altra persona che sa come vivere. Alcune volte mi chiedo come si possa raggiungere questa consapevolezza… Se c’e un qualche libro rivelatore di cui non sono a conoscenza, una poesia o una musica che da avvio al tuo cambiamento facendoti acquisire concretezza. Cosa fa dire “eccomi, sono al mondo e sto bene!”?

Le domande che la Fallaci pone mi hanno spaventata perché mi sono resa conto di essere titubante, di cercare amore e di aver paura di riceverlo e ormai, alla soglia dei trent’anni, è ora di fare i conti con il mio dolore ma anche con le mie gioie e le mie insicurezze.

Oggi è il 12 febbraio 2018. Sono passati quattro anni  da quel maledetto giorno e da allora sono successe così tante cose che mi sembra essere passata una vita intera.

Non so dire cosa sia cambiato effettivamente e non posso neanche dire che il dolore sia meno intenso: in alcuni giorni si sente un male lancinante che ti scuote e che non comprendi. Senti che la solitudine si impossessa di te lentamente e poi esplode all’improvviso.

Ricordo Mari quanto era meravigliosa, ricordo il suo sorriso e il suo modo di prendermi in giro. Ricordo che era bellissima e sicura di sé. Ricordo che in alcuni momenti mi faceva incavolare tantissimo, e che io facevo incavolare lei, tanto da non parlarmi per giorni interi.

Oggi scrivere è difficile, sarà la pioggia, saranno gli impegni della giornata, ma faccio fatica a pensare, o meglio, a ricordare. Allora ho preso il mio diario di quei giorni ormai lontani. Un diario che spezza il cuore, perché in quei momenti non ho avuto la lucidità di filtrare i miei pensieri e ho descritto minuziosamente ogni apparizione giornaliera di quel maledetto mostro sul suo corpo.

Vi risparmio questa lettura perché penso che non faccia bene a nessuno, ma ciò di cui mi stupisco è la lucidità della perdita che non ricordavo assolutamente di avere: il 14 novembre 2013 «io e Mari abbiamo fatto una bella passeggiata sul lungomare, abbiamo scherzato tanto e parlato. Lei è molto tenera. Alterna momenti di tristezza a momenti di grinta».

Il 15 novembre è stato un giorno positivo «abbiamo guardato Ritorno al futuro […] Nel pomeriggio Mari si è levata quella maledetta tuta e finalmente è tornata splendete e impeccabile come una volta. Sempre sui tacchi, sempre perfetta mentre mamma è in cucina che prepara la pizza». Durante lo stesso giorno annotavo: «non riesco a non pensare che lei non sarà lì a sostenermi quando starò male, a gioire quando sarò felice. Rimarrò senza Lei che per tutta la vita ho imitato e amato più di ogni altra cosa. Cerco di non pensarci ma non ci riesco e l’unica cosa che spero ogni notte prima di addormentarmi è che lei si svegli bella, grintosa e sorridente come pochi mesi fa». Lo scritto prosegue con note “tecniche”: «eliminare la puntura di cortisone. Introdurre deltacortene e diminuire keppra di uno (siamo a quattro). V giorno di Themodal».

Da questo scritto mi sono resa conto che dopo quattro anni non ricordo più i nomi dei medicinali, eppure li conoscevo come mamma ricorda a memoria le preghiere del suo rosario… le bisbigliavo ogni attimo e le annotavo minuziosamente sul quadernino delle medicine, con tutti i vari parametri.

…arriviamo al 9 dicembre. Era un lunedì soleggiato e la mia mente era attanagliata da mille domande: «raccontare le proprie storie di vita, le proprie gioie e i propri malanni… a cosa serve? Forse serve a qualcuno che è nella tua stessa condizione? Forse serve a dare la carica a chi sta meglio e alcune volte perde il coraggio di vivere? Forse serve solo a me. Mari deve fare la risonanza e al momento è dentro. Lei è sempre più confusa. Il glioblastoma è una bestia nera, io cerco informazioni su cosa accadrà. Mi sembra di non darle nessun aiuto. Parlo con le persone che hanno il suo stesso male: la signora che ho incontrato oggi ha 65 anni e anche lei ha un tumore al cervello. Prende soldesam, keppra, etc. ma i dosaggi sono minori, molto più bassi rispetto a quelli di Mari […] Rimane la speranza di un risultato positivo… Ma so che non sarà così… Ho paura delle posate che cadono dalle sue mani e dei bicchieri versati».

Direi che posso conclude qui con i ricordi e torniamo al presente e alla bellissima scoperta che mi ha fatto fare Vittoria proprio in questi giorni: il Questionario di Proust – un test molto interessante per cercare di comprendere qualcosina in più della propria persona. Una delle domande è:

Qual è il dono di natura che vorrebbe avere?

Non so bene quale sia la mia risposta definitiva ma il mio primo pensiero è stato “poter tornare indietro nel tempo”, riabbracciare Mari e vivere nuovamente quell’ultima passeggiata insieme sul lungomare di Gioiosa, perché ora sono consapevole del fatto che sarebbe stata la nostra ultima camminata insieme. Una passeggiata di cui ricordo ogni attimo, le foto fatte quel giorno, i manifesti strappati del circo vicino al vecchio passaggio a livello, la lumaca in fondo al lungomare, l’asfalto bagnato e lei che mi dice: «Cla andiamo a casa, sono stanca». Siamo state bene. Eravamo semplicemente io e lei.

Sò che “l’essere felice a piene mani” mi è stato strappato quel giorno, sono consapevole di questo, ma credo anche che in questa vita ci possa essere altro. Tempo fa ho osservato le stelle: si osservano ogni sera, ma non le ricordavo così belle e splendenti, forse perché era da tanto tempo che non mi prendevo un attimo per stare immersa nel buio di una montagna ad osservare il cielo. Ciò che ho capito quella sera è che posso ancora sorprendermi. Osservare delle semplici stelle e scoprire che brillano e palpitano come mille cuori, ognuna diversa dall’altra, qualcuna in modo più flebile, altre in modo più intenso.

Il mio sogno di felicità?

Potrebbero essere delle stelle, potrebbe essere un abbraccio, potrebbe essere un sorriso sulla porta, un aperitivo con le amiche, delle olive mangiate con Mattia a Milano, mille risate con Vitto e Mauri in galleria per figuracce colossali, un medico gentile di cui ti fidi che ti da una buona notizia e ti dimentichi di pagare perché vivi sulle nuvole, oppure potrebbero essere tutte queste cose insieme. Forse il mio sogno di felicità potrebbe consistere nel trovare il coraggio, che gli altri dicono di vedere in me, ma che io non riesco a scorgere; forse il sogno consiste nel credere che la “felicità” possa realmente esistere e che questa non si manifesti sorridendo, ma credere che prima o poi potrai rifarlo senza avere paura.

***

Questionario di Proust:

Qual è, per lei, la più grande disgrazia?

Dove le piacerebbe vivere?

Qual è il suo ideale di felicità sulla terra?

Quali colpe le ispirino maggiore indulgenza?

Chi sono i suoi registi preferiti?

Chi sono i suoi pittori preferiti?

Chi sono i suoi compositori preferiti?

Che qualità apprezza in un uomo?

Che qualità apprezza in una donna?

Quali sport pratica?

Sarebbe capace di uccidere qualcuno?

Qual è la sua occupazione preferita?

Chi le sarebbe piaciuto essere?

Qual è il tratto principale del suo carattere?

Cosa apprezza di più negli amici?

Qual è il suo difetto principale?

Qual è la prima cosa che l’attrae in una donna?

Qual è il suo colore preferito?

Qual è il suo fiore preferito?

Chi sono i suoi autori preferiti in prosa?

Chi sono i suoi poeti preferiti?

Chi sono i suoi eroi nella vita reale?

Quali sono i suoi nomi preferiti?

Cosa detesta più di tutto?

Qual è il dono di natura che vorrebbe avere?

Crede all’immortalità dell’anima?

Come vorrebbe morire?

Qual è lo stato attuale del suo animo?

***

 

Testo e vita di ©Claudia Stritof
Immagine di copertina ©SASHA IGNATIADOU.
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Tre anni senza te… https://www.cultmag.it/2017/02/12/tre-anni-senza-te/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/02/12/tre-anni-senza-te/#comments Sun, 12 Feb 2017 09:43:28 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4512 3 anni… in alcuni momenti mi sembra un’infinità di tempo come se fossero passati secoli da quel 12 febbraio 2014.

Non scorderò mai il momento in cui è andata via: ero sul terrazzo che parlavo al telefono con il mio migliore amico e ho chiuso la chiamata improvvisamente. Non scorderò la disperazione sul volto di mia madre, né le mani di mio zio che angosciosamente toccavano i miei capelli mentre io accarezzavo la guancia di Mari per l’ultima volta. Non scorderò mai quello che ho provato e che mi è impossibile raccontare perché troppo forte e ancora troppo doloroso per me.

Dopo tre anni concretizzare le parole è difficile perché non so dire cosa sia cambiato, ma io sono diversa e i miei occhi anche. Ne ho avuto la certezza qualche giorno fa quando un’amica ha commentato una mia foto che risale a circa quattro anni fa e che aveva scattato proprio Marinella: «Bonita!! E di più l’occhio ridente». La cosa mi ha fatto riflettere perché questa semplice frase denota una realtà a cui non posso sfuggire: i miei occhi sono diversi e lo saranno per sempre. Come ha detto mia cugina: “non possono essere  gli stessi, e Cla, i tuoi non lo sono già da tanto tempo”.

Da 3 anni vivo a fasi alterne come se ogni tanto dentro di me venisse a mancare la corrente o al contrario fossi in sovraccarico di emozioni.

Fino a qualche tempo fa ero ossessionata dal ricordo della malattia, che purtroppo quando emerge mi allontana dai momenti felici passati insieme a lei. Per fortuna però questi ultimi stanno iniziando a riemergere, anche se al momento sono pochi.

I miei “ricordi felici” sono giunti in un momento banale ed erano anch’essi pensieri che qualcuno giudicherebbe futili e che invece mi hanno fatto sorridere. Piccoli e timidi flashback felici che speri non finiscano mai per poter indugiare nei ricordi di te e lei insieme.

Il ritorno dei miei fragili flashback ha coinciso con il rinascere del mio sorriso. E’ molto strano spiegarlo ma era come se mi fossi persa: ricordavo la malattia e il suo dolore ma non ricordavo Noi felici. Come se la malattia avesse obliato i miei ricordi: le orecchie da renna che indossavamo a Natale, le nostre cene a base di Traminer o Muller, le mille ore che perdeva a farmi i capelli con la piastra, quando mi costringeva a indossare i tacchi e invece quando terrorizzata dalla sua guida pazza mi attaccavo alla maniglia della macchina.

Nella perdita di una persona cara ciò che viene a mancare è la quotidianità, i piccoli momenti di normalità e routine, che in realtà capiamo essere preziosi solo nel momento in cui non li abbiamo più. Ciò che cambia sono le emozioni e i sentimenti. Diventano contrastanti: vorresti essere felice ma non lo sei mai pienamente, hai quel sentimento dentro che fa male e non ci puoi fare nulla.

Banalmente, quando penso alle nostre giornate di shopping, il pensiero mi rende immensamente felice, ma allo stesso tempo, quando poi sono costretta a fare shopping da sola divento triste, perché lei era l’unica che riusciva a farmi comprare dei vestiti che non fossero neri.

Ogni tanto, guardando il nostro divano rosso, ripenso a quando dopo pranzo ci sdraiavamo lì e guardavamo un’infinità di programmi scemi, cosa che ormai mi capita raramente, ed è lì che ti accorgi che quei continui litigi per decidere cosa guardare facevano parte di te e che hai perso la tua parte “diversa” quella che ti faceva essere un pò più lei e che ti influenza positivamente nel tuo modo di essere.

Paulo Coelho in Adulterio scrive: «Che cosa c’è di sbagliato nella routine della quotidianità? A essere sincera, proprio niente. Solo… Solo il terrore segreto che tutto cambi all’improvviso, cogliendomi alla sprovvista» ed è quello che è successo a Noi. Tutto è cambiato improvvisamente e allora pensi che quella quotidianità non era poi così male.

Un pò di tempo fa a Padova mi è capitato di assistere a due scene meravigliose per quanto banali ma che hanno generato in me il ricordo che mi ha fatto sorridere.

Due ragazze – figlie di amici di famiglia – la mattina prima di andare a scuola avevano litigato per dei jeans non prestati. Scese dalla macchina: una camminava avanti e l’altra dietro senza mai parlarsi. La cosa ha suscitato in me tanta tenerezza perché lo stesso succedeva a noi: non si sa per quale ragione i vestiti un giorno venivano prestati con felicità, il giorno dopo invece diventavano motivo di litigio. Le ragazze non sanno che quel momento, benché caratterizzato dal risentimento, è in realtà un momento prezioso del loro vissuto, ed è giusto che non lo sappiano perché rappresenta la loro quotidianità.

Ma la storia delle due sorelle non finisce qui, infatti, il giorno dopo scherzavano e ridevano come se nulla fosse successo, come solo due sorelle possono fare perché si sa «le sorelle non hanno bisogno di parole. Hanno perfezionato un linguaggio di smorfie e sorrisi» che solo loro possono capire. Un legame indissolubile e profondo che cela in se quel pizzico di fanciullezza che solo una sorella può conoscere di te.

In questi tre anni mi sono persa nei miei pensieri, mi sono ritrovata, mi sono ripersa e ritrovata nuovamente. Cerco una strada, cerco di tramutare ciò che ho perso in qualcosa da raccontare agli altri perché è difficile raccontare se stessi quando si è persa una parte del proprio essere.

Credo che a 3 anni di distanza la mia mente sia confusa… che la mia ricerca nel capire perché ci sia successo questo non è mai giunta al termine e ti accorgi anche che la continua ricerca in alcuni momenti ti porta fuori strada. Sei qui ma non sei in nessun luogo e molti dei tuoi momenti ti ritrovi a viverli in solitudine.

Mi è capitato di raccontare la mia storia a persone appena conosciute in un ospedale, in un supermercato, su un treno e a mia volta ascoltare le loro. E’ più facile parlare con chi non si conosce perché non ci sono pregiudizi e paura, semplice partecipazione e onesta apertura dell’anima, probabilmente perché sai che quella persona non la rivedrai mai più.

Riflettendo sulla vita e sul percorso che ognuno di noi compie per giungere al proprio traguardo personale mi è tornato in mente un video dell’artista Giovanna Ricotta dal titolo Fai la cosa giusta.

Fai la cosa giusta… è una metafora che si svolge in tre fasi dell’esistenza in cui l’artista incarna la “moto-geisha-samurai”: la prima fase è la consapevolezza «del dover fare qualcosa», la fase intermedia è caratterizzata dalla “follia” creativa e per ultima la disciplina «che permette di arrivare alla meta compiendo la giusta azione».

In fin dei conti ciò che si deve ricercare nella vita, come nell’arte, è la concentrazione, credere che pensieri e azioni positive possano farci stare bene un domani e che la nostra genuina follia possa realmente farci scoprire la nostra strada. E’ dura, lo so, ma vale la pena provarci, cercare giorno per giorno di ricordare chi siamo stati, con chi lo siamo stati e come eravamo per capire chi stiamo diventando.

Vi lascio con un piccolo frammento di Noi, di Lei. Una conversazione avvenuta tra me e Mari quando già il male che ce l’ha portata via l’aveva aggredita, ma lei forte, bella e tenace non ha mai smesso di sognare. Di poter ricominciare a vivere e di lottare per ciò in cui credeva fermamente.

M: Comunque ieri ultimo esame!!! E da oggi vita nuova… Preparazione intensiva.
C: Bellezza. E io che non riesco a studiare.
M: E mi sento fiduciosa, vincerò presto il concorso. Il cervello mi funziona e sto imparando e studiando un casino di cose!!! Oggi vado anche a tagliare i capelli.
C: Iuuuu. E certo che vinci il concorso. Dobbiamo aprire anche una galleria d’arte.
M: Niente galleria…non ti finanzierò!!!! 😋😋
C: Seeeeee. Come no…

La nostra quotidianità. La sua forza, la nostra vita. Ciao Sister.

***

Testo, pensieri e vita di Claudia Stritof.

MAMbo, Fai la cosa giusta (performance), Giovanna Ricotta – Foto di Marcello-Medici.

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Riposo assordante. https://www.cultmag.it/2016/01/14/riposo-assordante/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/01/14/riposo-assordante/#respond Thu, 14 Jan 2016 18:42:28 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1613 Notti insonni passate al tuo capezzale.

Ferma, immobile,

con la testa fasciata da un’aureola bianca macchiata di sangue.

Tubi estranei fuoriescono dalla  tua tempia e dal tuo naso.

Ore incessanti.

Un campanello suona, una luce lampeggia a intervalli regolari,

tutto succede vorticosamente.

Mal di testa! Grando 7.

Ti volti, mi guardi, mi chiedi aiuto.

Ti sorreggo la testa.

Liberati, dolce amore,

liberati dai verdi umori maligni.

Umori e malori.

Urla e fremiti.

Carezze silenziose, campanelli assordanti.

Su e giù per il corridoio.

Liquidi iniettati.

Un riposo breve.

Un riposo stanco.

Una veglia di amore,

 mio tenero angelo.

***

Testo e immagini ©Claudia Stritof. All rights reserved.

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Un anno è passato… https://www.cultmag.it/2015/02/04/un-anno-e-passato/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2015/02/04/un-anno-e-passato/#comments Wed, 04 Feb 2015 10:20:16 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1610 Un anno è passato e rileggendo le parole scritte di getto, ad un solo mese di distanza dalla morte di Mari, la sensazione di spossatezza non è cambiata. Più attenuata, certo. Ma purtroppo rimane lo stesso dolore, che credo mai cambierà.

Ho imparato a pronunciare la parola MORTE, ma non l’ho mai fatta mia, riesco a dirla di rado. Per me Mari “è andata via”, forse sperando che ancora torni da noi. Forse sperando in un suo abbraccio e in una sua carezza. Ancora oggi, spero che lei mi chiami e come se fosse partita per un lungo viaggio mi racconti tutto ciò che ha fatto in questo anno. Faccio fatica a non poter parlare con lei e allora le scrivo messaggi come se potesse leggerli, proprio come facevamo una volta, speranzosa di ricevere una risposta, che so che non arriverà.

Se ripenso all’anno scorso, proprio in questi giorni le davo l’ultima carezza e toccavo per l’ultima volta la sua guancia calda, oggi rimane solo il ricordo di quel contatto e di quella sensazione insostituibile.

Ho avuto una sorella, anche se per soli 27 anni, che mi è stata strappata via all’improvviso. La prossima settimana io avrò la stessa età e non mi sono neanche accorta che un anno è passato, come se avessi vissuto in una bolla d’aria, in cui ogni tanto manca l’ossigeno.

Da una parte ricerchi le fotografie per rivivere quei momenti felici, ma dall’altra in alcuni attimi vorresti non pensare, perché alcune volte i pensieri fanno molto male, sono come se un macigno che ti fa sprofondare in una sorta di oblio, non so bene perché ma improvvisamente la tranquillità svanisce e allora i pensieri affollano la mente.

Il tempo è trascorso, la vita è andata avanti, anche se molto lentamente, tutto è cambiato e nulla è più uguale a prima, ho sentito il “lento appassire della vita”, e fa male.

E’ passato un anno… e forse è troppo poco. Non so spiegare cosa sia cambiato ma posso dire che la nostra vita non è più la stessa. Mi chiedono: “Come ci si sente?” – “Come si affronta?”… Non lo so, è una sensazione strana, si cerca di capire come affrontare la normalità della vita. Ma non esiste più una normalità. Non hai delle abitudini come le avevi prima. Il tempo, le decisioni, gli stimoli e i pensieri cambiano.

Non potrei spiegarli tutti perché semplicemente li vivo quotidianamente con il dolore nel cuore ma cercando di avere sempre il sorriso sulle labbra, quello che aveva lei.

I suoi sogni, i suoi desideri e la sua gioia di vivere sono diventati come polline trasportato nel vento, che si è posato su ognuno di noi e ha fatto germogliare una nuova brama di vita. Mari era così carismatica e aveva tante passioni, andava avanti per la sua strada, ed era propria la sua tenacia a infondermi tante sicurezza.

Molte persone ci sono state vicine e ci hanno amato incondizionatamente, vecchie e nuove amicizie che hanno trovato parole e sentimenti autentici nei nostri confronti. Molti messaggi, poesie, ricordi sono stati condivisi con noi in questo anno e molti di essi parlavano di insegnamenti sull’affrontare la vita con nuovi occhi, più puri e più autentici.

Tutto questo è per dire grazie a tutti, condividendo con voi pensieri e sentimenti. Perché con i sorrisi, le sensazioni genuine, l’affetto, i ricordi portate Mari giornalmente nel vostro cuore e lei continua a vivere.

Questa volta non farò riferimenti alle arti visive, ma se mai troverete il tempo vorrei che guardaste “Anam. Il senza nome”, l’intervista a Tiziano Terzani. A molti Terzani non piace, ad altri moltissimo. Io sono tra questi ultimi e ogni tanto sento l’esigenza di sentire le sue parole. Buona visione!!

Siti utili: Tiziano Terzani

Testo ©Claudia Stritof. All rights reserved.

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Tamagotchi: riflessioni sulla vita e sulla morte. https://www.cultmag.it/2015/01/19/tamagotchi-riflessioni-sulla-vita-e-la-morte/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2015/01/19/tamagotchi-riflessioni-sulla-vita-e-la-morte/#respond Mon, 19 Jan 2015 21:17:31 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1538

Quando i Tamagotchi muoiono e sono resettati per una nuova vita, i bambini non hanno la sensazione che tornino uguali a prima. Mentre una volta non vedevano l’ora di far rinascere le macchine che avevano rotto, nel caso dei Tamagotchi hanno il terrore della loro perdita e rinascita. Questo provoca un sincero rimorso perché, come dice un bambino di nove anni, “non doveva succedere. Avrei potuto occuparmene meglio”.

Sherry Turkle, Insieme ma soli.

Ipotesi e sentimenti realistici questi che Sherry Turkle descrive nel suo libro Insieme ma soli, la cosa che sorprende è che le due parole di “vita e morte” siano riferite a dei semplici giocattoli, che poi giocattoli non sono per dei bambini, che in tutto e per tutto li assimilano ad animali viventi.

Molti di noi hanno provato l’ebbrezza di possedere un Tamagotchi da piccoli, con risultati più o meno soddisfacenti. Il mio è morto poco dopo tempo, puzzava e dormiva sempre perché non gli prestavo le adeguate attenzioni, ma per questo, almeno da quello che posso ricordare, non mi sono mai sentita in colpa. Forse perché era un giocattolo, non era un essere vivente, forse ero solo più grande rispetto all’età media dei possessori dei Tamagotchi e quindi capivo la differenza che c’era tra un animaletto tecnologico e uno vivente. Ma sono solo ipotesi, forse era per menefreghismo e basta. E forse mi sbagliavo.

La cosa miracolosa nel Tamagotchi è che può essere resettato, in poche parole si può far rinascere, portarlo a nuova vita, come se nulla fosse successo. Ma questo nella vita non accade… e no, che non accade. E forse è giusto così. E’ il corso della vita e sarebbe troppo semplice premere un bottone e tornare indietro.

Tornare indietro per andare dove? Prima della morte di una persona cara? Prima di un esame andato male? Prima di un incontro sbagliato? Prima di momento perso e che non tornerà più? Forse, e io con tutta franchezza resetterei alcuni momenti della mia vita.

Mi sorge un dubbio, ovvero così facendo forse la nostra vita non andrebbe più avanti, avendo la possibilità di tornare indietro di giorni o anni, saremmo sempre lì a resettare, non avendo neanche più la tensione “del se…”. Sarebbe sempre in un pausa su un determinato istante, rallentando la corsa verso il futuro e sopratutto rischiando di perdere il futuro.

Però il bambino su una cosa ha ragione, sui dubbi sorti in seguito alla morte. Quelli ti attanagliano sempre. “Non doveva succedere”, e su questo non ci sono dubbi. Molte cose negative non dovrebbero accadere e invece accadono inesorabilmente e una persona continua a ripetersi questa frase per cercare di capire la ragione di tutto ciò che accade.

Il bambino nella sua innocenza ha di nuovo ragione quando gli sorge il dubbio: “avrei potuto occuparmene meglio” – “forse avrei potuto fare di più” – “forse se mi fossi comportata così, lei sarebbe stata meglio”. Troppi forse, ma che nella mente risuonano incessantemente. Si pensa di aver fatto troppo poco per una persona a cui vuoi bene. Sono dubbi leciti per quanto possano essere insensati, che non fanno bene, ma che insorgono senza che tu possa farci niente. Sono lì. Alcune volte un po’ più presenti, altre meno. Non so da cosa dipenda la comparsa di questi forse, ma sono pensieri che in un momento qualsiasi potrebbero insorgere, gettandoti in un baratro di ricordi, non sempre positivi, che vorresti ma non puoi condividere, semplicemente perché verrebbero capiti solo in parte e forse perché fa male condividerli.

Allora ecco come un Tamagocthi si trasforma in un motivo di riflessione, cosa che non avrei mai immaginato da bambina, e ad averlo saputo prima, forse non lo avrei mai maltrattato. Non avrei dovuto. Ma rimango della mia opinione, non credo che l’ovetto tecnologico abbia sofferto, ma credo che a soffrire sia stato il ragazzino che ha dovuto assistere così piccolo ad una perdita, che poi tanto virtuale non era, se vista con gli occhi così piccoli di speranza e di amore.

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Mare cristallino e riflessi nucleari https://www.cultmag.it/2014/06/21/mare-cristallino-e-riflessi-nucleari/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2014/06/21/mare-cristallino-e-riflessi-nucleari/#comments Sat, 21 Jun 2014 17:18:42 +0000 http://claudiastritof.com/?p=995

“Un mondo vivido di luci e di colori, fresco, fragrante, come fu voluto da Dio, nei primordi della creazione. Ed i personaggi che lo popolano sono ancora nudi, inesperti, senza parola. Passano i secoli, le generazioni si susseguono veloci, ma Adamo ed Eva vivono ancora nell’Eden. Nascono, muoiono. Un arco di tempo che racchiude la vita: fanciullezza, vecchiaia. Bonacce e tempeste. Eterne vicende umane; ma le vicende, anche se tragiche, anche se grottesche, si ammantano di luci misteriose, si vestono di stupito candore, diventano poesia per chi sa guardare con occhi attenti”.

Maria Macrì LucàVecchio mondo e vecchia gente, 1969

Le coste calabresi sono state d’ispirazione per poeti, artisti e girovaghi che le hanno amate e lodate per il verde lussureggiante della sua flora, per la fresca brezza marina e il mare blu cobalto. E’ un profondo legame quello che unisce il mare e l’uomo “pisciaro” rispetto a chi nasce altrove. Il mio mare corre sinuoso cristallino e trasparente lungo la costa come se non avesse una fine.

Eterne vicende umane e paesane si svolgono in questa terra, racconti che diventano poesia e racconto negli occhi di chi sà guardare. Quella che vi racconto io è una storia “generazionale”, che va dalla fanciullezza alla vecchiaia, in cui tutti sono coinvolti, una storia reale scritta dall’avidità dei “potenti”.

E allora perchè iniziare con il nostro mare cristallino e trasparente? Semplicemente perchè il nostro mare può arrabbiarsi e allora si increspa con le sue creste schiumose e le onde si infrangono con tutta la loro potenza sulla spiaggia, creando il boato tipico del mare in tempesta.

 © Claudia Stritof.

© Claudia Stritof.

E’ una mare speciale, che molti posti balneari “d’eccellenza” non hanno la fortuna di avere, ma noi con il nostro mare e le nostre coste non sappiamo viverci, forse qualche anno fa si, quando nelle estati afose le strade brulicavano di turisti, ma tutto questo ormai non c’e più. E’ solo un vano ricordo e un eterno rimpianto.

Il mare trasmette sensazioni contrastanti e ad oggi non riesco a guardarlo con gli stessi occhi, come non riesco più a guardare i monti e l’Aspromonte, oppure passare sotto la galleria della Limina e pensare al male che si cela in essi.  Mare e montagna convivono a pochi passi l’uno dall’altro con semplicità e perfezione, ma le nostre bellezze e le nostre peculiarità sono state minate e contaminate, da chi per soldi non ha pensato a cosa sarebbe accaduto venti anni dopo.

Vite spezzate di giovani, ragazzi, ragazze, mamme, papà, nonne, nonni, fratelli e sorelle, nessuno si salva dagli innumerevoli casi tumorali, che giornalmente colpiscono amici e conoscenti. Come un tempo ha scritto Corrado Alvaro: “la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che essere onesti sia inutile”, forse in molti hanno frainteso questa frase e la disonestà si è impadronita generazione dopo generazione delle menti, intaccando chi volente o nolente vive in queste terre “sterminate”.

I viaggi nel nostro mare risalgano a tempi antichi, ma negli ultimi venti anni questi viaggi sono stati segnati da una partenza ma non da una destinazione. Navi perse o meglio “navi a perdere” che hanno solcato i nostri mari e lì hanno “deciso” di affondare.

Le “navi dei veleni” sono uno degli argomenti di cui molto spesso si sente parlare, ma che molto spesso si dimentica. Più guardo il mare e la terra e più mi chiedo: “e se fosse proprio la nostra terra a farci morire?

L’incidenza tumorale in Calabria, e in particolar modo sulla costa jonica è molto alta. Spesso si leggono notizie sui quotidiani locali e nazionali, in cui vengono riportate dichiarazioni di nuovi pentiti che indicano presunti luoghi dove i barili sono stati interrati e/o navi affondate ma indagini serie non vengono fatte. Perchè non si studiano le cause? Perché si ha paura della risposta? Dobbiamo soccombere tutti prima che i mali che qualcuno ha deciso di portare nella nostra terra per il vil denaro vengano scoperti?

Leggere i dati e le previsioni sull’incidenza spaventa. Il mare può nascondere anche questo male? E se questo nostro mare non fosse più puro? Se fosse proprio lui una delle cause che ci porta ad ammalarci? E perchè inquinare il mare? Per cosa? Per soldi? Chi ci pensa alla popolazione? Molte le indagini, molte le inchieste e molti i miei pensieri e la voglia di capire.

Credo che nessuno dovrebbe provare il dolore della perdita e parlando con molte persone ad un certo punto ti rendi conto che sono molte le persone che giornalmente sono colpite nella mia zona da questo male e si rafforza in me l’idea che sia un sintomo di un male collettivo. Un caso dopo l’altro che ad un certo ti porta a chiederti: e a me quando toccherà?

Molte le navi affondate  i motivi che sposso si leggono sono diversi come quello di  incassare i soldi delle assicurazioni, oppure aiutare i “potenti” a smaltire rifiuti che nessuno vorrebbe, di solito radioattivi. Ecco che allora il Sud del mondo viene riscoperto nel suo splendore e il mediterraneo diventa la meta privilegiata per questi viaggi senza meta.

La nave Jolly Rosso arenata sulla spiaggia di Amantea in provincia di Cosenza nel 1994 . ANSA/ FRANCESCO ARENA

La nave Jolly Rosso arenata sulla spiaggia di Amantea in provincia di Cosenza nel 1994 . ANSA/ FRANCESCO ARENA

Alcuni nomi: la nave Aso, affondata il 17 maggio 1979 al largo di Locri. Trasportava solfato ammonico, prodotto di scarto dell’industria chimica. I documenti ufficiali riportano che la nave sarebbe affondata dopo aver colpito un oggetto sommerso. Il 31 ottobre 1986 affonda la nave Mikigan, al suo interno granulato di marmo, che come il cemento, scherma la presenza di sostanze tossiche e radioattive, affondato nel mar Tirreno. Il 21 settembre 1987 affonda la nave Rigel. Il processo si è chiuso nel maggio del 1992 inchiodando i responsabili. E’ stato un naufragio doloso e truffa alle assicurazioni. La Rigel partita da Marina di Carrara ha poi fatto meta su altre coste fino al giorno in cui venne affondata a Capo Spartivento. Nessun S.O.S lanciato dalla nave, i resoconti sono confusi, ciò che destò l’interesse gli inquirenti fu un’intercettazione telefonica in cui veniva menzionato un carico contenente “merda”. Il 9 dicembre 1988  affonda la Four Star I in un luogo non precisato nello jonio meridionale. Il 14 dicembre 1990 la Jolly Rosso, della società di Ignazio Messina, si arenò ad Amantea (CS), l’inabissamento non riuscì. La nave è stata coinvolta in una lunga inchiesta e che nonostante sia stata archiviata nel 2009, la vicenda è stata collegata all’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, sullo smaltimento di rifiuti radioattivi.

Il giornalista Claudio Cordova afferma: Tante le note “riservate”. La prima è del 17 novembre 1992, allorquando gli 007 del Centro di Reggio Calabria segnalano come i fratelli Cesare e Marcello Cordì, all’epoca latitanti, avrebbero gestito lo smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi provenienti da depositi del Nord e Centro Italia, sotterrandoli lungo i canali scavati per la posa in opera di tubi per metanodotti nel Comune di Serrata, in provincia di Reggio Calabria |…| Agli atti d’archivio, però, vi sono anche le indagini per la cattura del super latitante Giuseppe Morabito, il “Tiradritto” di Africo, paese della Locride. E’ il 1994, Morabito verrà arrestato solo dieci anni dopo, ma già in quell’occasione i Servizi segnalano che il latitante, in cambio di una partita di armi, avrebbe concesso l’autorizzazione a far scaricare, nella zona di Africo, un non meglio precisato quantitativo di scorie tossiche e, presumibilmente, anche radioattive, trasportate tramite autotreni dalla Germania. Ma tutto questo non basta, Africo dopo tutto è lontana all’incirca mezz’ora dal mio paese, e quindi non stupiamoci se anche noi siamo rimasti indenni a discariche abusive di materiale tossico, serve solo il tempo che il male emerga dalla terra e nella provincia di Reggio Calabria, i luoghi dove si trovano le discariche, per la maggior parte grotte, sono: Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno (Cz), Stilo, Gioiosa Jonica, Fabrizia (Cz).

Natale de Grazia

Natale de Grazia

Per chi non è di qui non conoscerà questi paesi, ma sono tutti molto vicini e invece chi vi abita li conoscerà uno per uno, perché vi è nato, perché ci sono gli amici o parenti, perché ha festeggiato una pasquetta, o semplicemente ci lavora o lo visita.

Forse troppo nozionismo il mio, forse è solamente un elenco di “carrette” e di carte, ma chi studia ciò che sta avvenendo nel nostro paese, c’e, esiste, sono persone che si pongono domande e visto che le risposte non vengono date da chi di dovere, le cercano da soli. Io le domande me le pongo e credo che sia giusto condividerle, per la nostra salute, anche se ormai forse è stata intaccata, e quindi credo sia giusto farlo per chi verrà. Ogni anno, vedo “la mia terra” peggiorare, e tutto questo a causa dei suoi stessi abitanti, a causa di chi dall’alto ha deciso di non prendersi cura di Lei come di una mamma e che non la culla come una figlia da far crescere nel modo più genuino possibile.

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