il senso della vita – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Tue, 12 Feb 2019 11:14:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Il senso della vita… 5 anni dopo. https://www.cultmag.it/2019/02/12/il-senso-della-vita-5-anni-dopo/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/02/12/il-senso-della-vita-5-anni-dopo/#comments Tue, 12 Feb 2019 09:17:18 +0000 https://www.cultmag.it/?p=5951 Nel film Il senso della vita dei Monty Python avviene una conversazione tra diversi pesci nell’acquario del ristorante:

Pesce 1: «Buongiorno».

Pesce 2: «Buongiorno».

Pesce 3: «Buongiorno».

Pesce 4: «Buongiorno».

Pesce 3: «Buongiorno».

Pesce 1: «Buongiorno».

Pesce 2: «Ah, Buongiorno».

Pesce 4: «Novità?»

Pesce 1: «Non molte».

Pesci 5 e 6: «Buongiorno». 

Altri: «Buongiorno». 

Pesce 1: «Frank ha appena chiesto che c’e di nuovo».

Pesce 5: «Davvero?» 

Pesce 1: «Sì. Uh huh».

Pesce 3: «Hey, guardate, stanno mangiando Howard».

Pesce 2: «Davvero?»


[Si spostano per guardare un cameriere che serve un grosso pesce grigliato a un uomo] 


Pesce 2: «Sono cose che ti fanno pensare, vero?» 
Pesce 4: «Voglio dire… che senso ha?» 
Pesce 5: «Non chiederlo a me».

In un giorno di qualche anno fa mi trovavo a Padova e, per ingannare l’attesa, io e zia andammo a mangiare in un ristorante. L’oste ci propose le moleche, piccoli granchietti che si possono trovare nella laguna di Venezia solo in alcuni periodi dell’anno, perché è in autunno e in primavera che questi fanno la muta perdendo il loro vecchio carapace mentre rimangono in solitaria attesa della formazione del nuovo, che li proteggerà vita natural durante.

Un momento di estrema vulnerabilità per questi crostacei, che mi ha fatto pensare alla delirante scena del film dei Monty Python; ma la mia intenzione non è quella di descrivervi la ricetta di questo piatto, innegabilmente saporito, non essendo il mio un sito di cucina, ma sottolineare come quel giorno ho scoperto una nuova bellissima metafora della vita: sentirsi come una moleca.

In questo periodo è così che mi sento e, fuor di metafora, da piccola ci sono realmente caduta nella laguna – rincoglionita non lo sono diventata con il tempo ma lo sono sempre stata – il tutto perché attratta irresistibilmente dal muschietto verde sulle scale.

Quel giorno ho avuto paura, così come molte altre volte mi è capitato nella vita e, l’unica cosa che si desidera fare, quando ci si sente così, è stare in casa a riflettere.

Colette ha scritto: «ci sono giorni in cui la solitudine è un vino inebriante che ti ispira libertà, altri in cui è un tonico amaro e altri ancora in cui è un veleno che ti fa sbattere la testa contro il muro».

Quella che la scrittrice riporta è una triplice accezione di questo strano sentimento: la solitudine è una compagna fedele e alcune volte genera bellezza, libertà nel comportamento e nel pensiero, ma al tempo stesso, la solitudine, può essere amara quando ti rende ansioso, indeciso e con le “paturnie”, oppure può diventare un pensiero incessante che rischia di trasformarsi in vacua tristezza e profondità abissale da cui è difficile riemergere.

Talvolta ci si riconosce nelle parole dei grandi scrittori, così come capita di provare un’emozione forte osservando un’opera d’arte, una fotografia o ascoltando una determinata musica.

L’arte fa questo: crea emozione, un ventaglio molto ampio di sentimenti che può mutare a seconda del proprio umore.

A me personalmente capita con la meravigliosa canzone By This River di Brian Eno, libera, amara e a tratti profondamente dilaniante: un viaggio nel proprio Io, nell’amore e nell’evoluzione dell’essere.

Le mie mani ora scorrono sulla tastiera e penso a questo anno trascorso: il quinto senza Marinella.

Era il 12 febbraio 2014 quando ho potuto dare il mio ultimo bacio a lei che tutto era nella mia vita e penso se, e quali, progressi ho fatto in quella che Freud definirebbe l’elaborazione del lutto.

Questo periodo da moleca mi fa aver paura dei sentimenti forti, della non genuinità di chi mi sta accanto, dell’a-sentimentalismo, cosicché mi ritrovo a scrutare da lontano i comportamenti e le parole di chi mi circonda per cercare conferme come fossi un boy-scout che con il suo binocolo scruta per la prima volta la natura incontaminata.

Noto come molti miei atteggiamenti siano mutati, anche se, come scrivevo un anno fa, la titubanza non è svanita: sento il bisogno impellente di cercare trasparenza e “amore” nelle persone e, alla soglia dei miei trentuno anni, alcune volte mi sento una bambina che si reca incuriosita a toccare il muschio sulle scale veneziane.

In sostanza, sono un vero casino! Lo sono nel cucinare, nello scrivere, nel mettere giù una struttura razionale di tesi, nell’inviare email formali, così come nell’esprimere i miei sentimenti. 

Scrivere è l’unico modo per sondare la mia anima salva e, alcune volte, è difficile farlo, perché doloroso è vedersi vagare nell’oscurità e riconoscere l’oblio come familiare ma scongiurata la tragedia, le parole emergono fluenti, o almeno si spera.

Chi ha sondato la propria anima in profondità è stato Fabrizio De André ed è lui che ci ha fatto capire cosa significa la solitudine in quel bellissimo testo che è Anime Salve. In un commento all’opera, il cantautore scrive: 

«sostanzialmente quando si può rimanere soli con se stessi […] credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante, e il circostante non è fatto soltanto di nostri simili, direi che è fatto di tutto l’universo: dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle».

Isolarsi, staccare per un attimo dal trambusto chiassoso della città, dai rumori incessanti di cellulari squillanti su autobus maleodoranti e distogliere il proprio sguardo dalla normalità, credo possa far bene, a patto che ci si ritrovi un attimo dopo.

In questi cinque anni continuo a mangiare troppa cioccolata, soprattutto la notte, continuo a leggere le riviste partendo dalla fine, continuo a bere negroni, anche se in numero decisamente minore; ascolto, ahimè, meno musica e assisto a meno concerti dal vivo, amo festeggiare i compleanni di chi mi sta accanto e condividere le cibarie del-pacco-da-giù, ma soprattutto cerco di stupirmi delle più piccole sciocchezze che mi accadono, non perché io sia fuori dal mondo o rintronata ma perché in passato ho imparato che è possibile sprofondare in un abisso profondo in cui non esiste più nulla.

«Ho visto la morte», e come me, altre persone. L’abbiamo vista sopraggiungere lentamente, sfiorare il corpo della persona amata e abbiamo sperimentato la sensazione di sentirci inutili.

Mi è capitato di non riconoscere il Tristo Mietitore: ho visto i piedi raggelarsi ogni giorno di più e inconsciamente avevo capito che Mari non aveva freddo e nonostante questo continuavo imperterrita a preparare quella cazzo di borsa dell’acqua calda. L’arte insegna: i protagonisti della Zattera della Medusa di Géricault portano quei maledetti panni sui piedi, era il particolare che più mi attraeva del quadro… e io non ho capito.

Forse ora vedrò i Cavalli Alati di Harry Potter, che per i non-fan del genere, potevano essere visti solo da coloro che hanno assistito e compreso la Morte.

In realtà, a cinque anni dalla scomparsa di Marinella, non credo di averla ancora pienamente accettata: mi chiedo il perché non sia qui con me, dove dovrebbe stare colei che mi completava.

Oggi ho riletto una lettera che mi è stata donata:

«Non ti conosco e sto imparando a capirti attraverso i tuoi scritti […] C’è qualcosa in quel che scrivi che va diritto al cuore, ovvero all’animo. Non posso trattenere qualche lacrima quando parli dell’amore per tua sorella; non posso non pensare quale importanza abbia sul tuo animo, sul tuo modo di pensare, sui tuoi comportamenti […] E’ una ricchezza interiore che coltivi nella sofferenza, con cura, con amore».

Non posso dare torto al caro amico di penna che ha colto pienamente il mio stato d’animo: da un lato la sofferenza e la paura di affrontare il passato, dall’altro l’esigenza di farlo per comprenderlo e, spero prima o poi, di distillarne il meglio dalle sensazioni forti che ancora mi trascino come una catena pesante stretta in vita.

A 5 anni di distanza, il mio presente non è lineare, in alcuni giorni i pensieri si accalcano e diventa difficile poter riflettere razionalmente perché il ricordo si trasforma in nostalgia e questo è un sentimento che io non ho mai saputo dominare.

Si manifesta come un continuo ripensare al passato, a ciò che c’e stato e a ciò che mi ha reso felice e che so di non poter più conquistare.

Vorrei risentire la sua voce, vorrei poter litigare di nuovo con lei, vorrei poterle rubarle i vestiti, vorrei che lei potesse rubare i miei; vorrei bere tutta la notte negroni mentre balliamo, vorrei poterla chiamare per dirle che oggi ho inviato al professore una buona parte di tesi e che ultimamente poche sono le persone che realmente riescano a stupirmi.

La nostalgia è quel sentimento che mi fa desiderare di poter riscrivere il passato e di scambiare il mio domani per un solo giorno di ieri e, cosa ancor più grave, mi sono accorta che negli ultimi tempi essa sia molto presente nella mia vita.

La conferma mi è giunta da Davide l’altra mattina quando, tra un discorso e un cornetto alla nutella, mi ha detto: «non capisco il tuo sguardo in questo momento».

Ha ragione, non poteva comprenderlo, perché quello era uno sguardo volto al passato. Non lo comprendo neanche io ma, lo stesso amico, ha proseguito dicendo «tu mi fai sempre sorridere» ed è stato in quel preciso momento che mi sono riconosciuta, capendo che forse sono io a sbagliare, sono io a non vedere la Claudia del presente che fondamentalmente è la stessa del passato, solo un pò più cresciuta e con i tratti del volto più marcati.

«I ricordi – dice ancora l’altro mio amico di penna – aiutano a coltivare in noi stessi l’amore […] Ognuno di noi anela di continuare a vivere nel ricordo di qualcheduno quando sarà polvere. Quindi continua a parlare della tua amata sorella, non sarà solo viva in te ma anche in chi ti legge».

Cerco di parlare sempre di lei e superato l’imbarazzo con un «mi dispiace» iniziale, il ricordo emerge libero e fluente.

La mia ricerca dopo 5 anni continua, anche se spesso vacilla, e direi che a questo punto possiamo concludere qui con tutte le riflessioni sul mio quinto anno di vita.

Come l’anno scorso mi ritorna in mente la domanda riportata nel famoso Questionario di Proust:

Il mio sogno di felicità?

Vivere non avendo paura. Godere di ciò che la vita mi propone e affrontare tutti gli avvenimenti con coraggio, con qualche esitazione perché questa genera riflessione, ma senza la paura che tante volte mi ha bloccata. Riconoscere me stessa sempre e non avere rimpianti.

Come dice l’annunciatrice alla fine del film dei Monty Python:

«Ecco, il senso della vita: be’, non è niente di speciale… siate gentili con il prossimo, non mangiate i grassi, leggete un buon libro, fate passeggiate e cercate di vivere in pace e armonia con gente di ogni fede o nazione».

Desideri da Miss Muretto? Potrebbe essere, ma scherzi a parte, la felicità io la percepisco in alcuni momenti della mia quotidianità e questa è una domanda troppo importante per limitarsi a rispondere con qualcosa di definitivo.

Forse la felicità risiede nello stare a casa con le persone che ami, con gli amici durante una cena, nelle note suonate al pianoforte mentre intorno domina il silenzio, nel sentire i mie occhi inumidirsi dall’emozione e non per la tristezza.

Cos’é la felicità? Non lo so ma credo che tante possano essere le risposte e tutte ugualmente giuste.

Forse, i tanti piccoli dettagli che compongono la nostra vita, le molte sensazioni provate, le esperienze nuove, i ricordi che creano il passato e il presente da vivere, più probabilmente è accettare quello che la vita ci ha fatto diventare e quello che siamo stati, fermandoci ogni tanto a riflettere, cosicché il nostro guscio da moleca possa ricrescere più forte e resistente di prima.

***

Come al solito… Testo e vita di ©Claudia Stritof

Immagine di copertina dal film di Wes Anderson, Moonrise Kingdom.

Brian Eno, By This River, dall’album Before and After Science (1977).
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