marina abramovic – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Fri, 27 Mar 2020 13:34:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Lo sguardo guaritore di una frattura emotiva del cuore. https://www.cultmag.it/2016/12/16/lo-sguardo-guaritore-di-una-frattura-emotiva-del-cuore/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/12/16/lo-sguardo-guaritore-di-una-frattura-emotiva-del-cuore/#comments Fri, 16 Dec 2016 18:45:18 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4233 U’ Signuri Vi spezzau u’ cori…! Una frase detta a mia madre con spontaneità e immediatezza da una signora nella campagna gioiosana.

Una tipica donna calabrese vestita con una maglia nera di cotone, la gonna fino ai polpacci muscolosi, dalle braccia possenti e con il suo immancabile faddale [grembiule] sporco di farina e sempre ben saldo alla vita.

Era una mattina qualunque, di un non meno precisato giorno di novembre e, non so per quale motivo, questa frase mi è risuonata nella mente per tanto tempo dopo che la signora l’ha pronunciata. Probabilmente perché sono state parole dette con genuinità da chi la fede la sente ancora viva nel proprio cuore, la cui religiosità atavica si denota dalla voce gracchiante di chi ha pronunciato molti rosari, così come dai molti particolari sparsi nella  piccola casupola nel bel mezzo della campagna.

Con grande semplicità la signora dal vestito nero è riuscita a esprimere un concetto di dolore immenso in modo altamente figurativo; subito ho immaginato un cuore posto su una superficie di splendente candore con i contorni ben definiti ma ormai disgregato in molti minuscoli pezzi. Un cuore i cui frammenti sarebbe stato impossibile unire come diversamente accade con un soprammobile.

Qualche giorno dopo l’accaduto ho visto un’immagine della serie Shattered Flowers realizzata dal fotografo Jon Shireman, il quale utilizzando dell’azoto liquido ha congelato dei fiori per poi frantumarli. Margherite, iris e papaveri che, seppur disintegrati, sono ancora ben riconoscibili per la loro sagoma e per i loro colori, proprio come fossero oggetti di porcellana purissima.

Jon Shireman, Shattered Flowers. ©Jon Shireman Photography.

Il fotografo ha ribaltato la concezione stessa di ciò che riteniamo bello, infatti  quel fiore ha conservato la sua bellezza, una bellezza diversa nata dal dolore e dalla distruzione.

Questo mi ha fatto riflettere sul dolore che le persone vivono nel proprio intimo, un sentimento che è sempre difficile descrivere e spiegare perché, ognuno a suo modo, lo vive in segreto con emozioni così particolari che comunicarle nella loro integrità sarebbe impossibile.

Credo esiste una  bellezza nel dolore e la storia insegna, così come le biografie degli artisti; sappiamo bene che il dolore è motivo di riflessione e quindi motivo di ispirazione. Molte persone affermano di creare le loro opere quando accade qualcosa di particolarmente sofferente nella propria vita e solitamente le opere dei più celebri artisti non raccontano la Gioia di Vivere ma l’Urlo dell’anima.

Saturno domina la loro nascita e si sà “Saturno è il pianeta dei malinconici, e […] anche quando non è nominata, l’antica divinità incombe sinistra”.

Il dolore è importante per la vita di ognuno di noi perché insegna che la vita è altro rispetto alla quotidianità e alla routine giornaliera; in qualche modo cambia il proprio modo di vivere e di rapportarti agli altri perché l’uomo pensieroso tende a rinchiudersi nei propri pensieri e si ritrova a fare i conti con la propria interiorità.

Marie von Ebner-Eschenbach ha scritto “il dolore è il gran maestro degli uomini. Sotto il suo soffio si sviluppano le anime”, queste crescono, si temprano e si ricoprono di cicatrici che celano un dolore intenso.

Jon Shireman, Shattered Flowers. ©Jon Shireman Photography.

Giornalmente molte persone soffrono e basta passare pochi giorni in ospedale per ricordare tutto quel dolore che si è cercato di dimenticare nel tempo. L’attesa estenuante di un verdetto, l’incapacità di decidere sul da farsi, il dolore di una malattia, l’impossibilità di fare qualcosa di concreto, l’angoscia del futuro che può cambiare la tua vita in poche ore, se non minuti.

Non è detto che tutti prima o poi debbano fare i conti con le fratture emotive del cuore e con le sue conseguenze, ma purtroppo c’e chi DEVE, senza se e senza ma, affrontare la realtà.

Alcune volte cerchiamo di prepararci agli avvenimenti futuri, a quello che potrebbe accadere, ma la verità è che si arriva quasi sempre impreparati davanti al dolore.

Il dolore può essere celato alle persone che non avranno mai il tempo di fermarsi a guardare lo sguardo altrui , ma un giorno quella corazza verrà riconosciuta da un proprio simile e le sensazioni che erano state addomesticate non potranno far altro che riemerge con forza nel presente diventando lo specchio in cui ri-conoscerci.

Jon Shireman, Shattered Flowers. ©Jon Shireman Photography.

Ancora una volta l’arte ci dice qualcosa in più sulla nostra vita: nella performance The Artist is present, tenutasi al MoMA di New York nel 2010, Marina Abramovic è rimasta seduta 7 ore al giorno per tre mesi guardando negli occhi chiunque si fosse seduto davanti a lei.

L’artista chiude gli occhi, li riapre e davanti a lei un nuovo sguardo, una nuova vita, nuovi pensieri, nuovi dolori da condividere e da scrutare.

Un tempo che giornalmente dovremmo donarci per scrutare noi stessi e gli altri. Messi di fronte al nostro stesso dolore la corazza cade e le nostre paure si palesano. Sentimenti lontani, passati e repressi riemergono per donarci nuove sensazioni così come è successo alla Abramovic nel momento in cui ha riaperto gli occhi e davanti a lei c’era Ulay, suo celebre compagno d’arte e di vita.

L’incontro con Ulay si svolge con un climax lento e delicato che inizia con un primo sguardo tra i due: alla felicità del primo istante, segue uno sguardo meditativo e subito gli occhi si inumidiscono, probabilmente perché la mente ha ormai varcato la soglia del ricordo e della consapevolezza, ed è qui che il pianto emerge, seguito da un sospiro profondo e da un forte trasporto emotivo che porta l’artista a trasgredire le regole e tendere le mani verso Ulay. Lui sorride e dopo pochi istanti lei si ritrae teneramente, ma non prima di aver accennato un riavvicinamento.

The show must go on: l’artista asciugandosi le lacrime cerca di ritrovare la concentrazione.

Si siede un’altra persona davanti a lei, ma questa volta è più difficile riaprire gli occhi perché le sensazioni donategli da quel momento sono state forti,  ed ecco che l’artista apre e chiudi gli occhi per pochi secondi, fino a quanto, con un ultimo sospiro, li riapre definitivamente.

Marina Abramovic, The Artist is present, MoMA 2010. © 2010 Scott Rudd

Tutti noi abbiamo bisogno dello sguardo altrui, di uno sguardo che senza pretendere spiegazioni riesca a capire  l’altro  perché molto spesso non è facile comunicare la propria persona e le proprie emozioni.

Il conforto può arrivare da una signora sconosciuta nella campagna gioiosana, da un amico comprensivo o da chiunque sia disposto a fermarsi per un attimo a guardarti.

Un giorno, neanche tanto lontano, un amico mi ha detto: “ […] se piangi è perché hai tempo per poterlo fare, ma nel momento di tirare su le maniche sei una roccia, fai un sospiro profondo e non mollare, non sentirti sola, hai tutti noi dalla tua parte […]”.

Marina Abramovic, The Artist is present, MoMA 2010.

Ogni volta è sempre lo stesso magone che annebbia la vista e ti chiedi per quanto tempo sarà così? Sarà per sempre? Ci sarà mai fine alla finte partenze? Io voglio credere di si, perché nulla avrebbe senso e credo che queste domande purtroppo debbano rimanere senza una risposta.

Non sono sicura che dietro le porte del Paradiso le lacrime non scenderanno più o almeno non lo sapremo fino a quando questo non accadrà, per ora ciò che rimane è sperare che il Tempo sia clemente e che per una volta la ruota giri  perché “il tempo può abbatterti; il tempo può piegarti le ginocchia; Il tempo può spezzarti il cuore, e farti implorare pietà” [Eric Clapton, Tears in Heaven] ma, sempre citando le meravigliose parole che il mio amico mi ha donato, “bisogna andare avanti perché c’e un nuovo giorno e altri respiri da fare”.

Testo ©Claudia Stritof

Marina Abramovic, The Artist is present, MoMA 2010. ©Bennett Raglin/Getty images

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Epistemologia della morte https://www.cultmag.it/2014/04/13/epistemologia-della-morte/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2014/04/13/epistemologia-della-morte/#comments Sun, 13 Apr 2014 16:22:45 +0000 http://claudiastritof.com/?p=841 La parola morte è una parole difficile da pronunciare. Solo pochi giorni fa, dopo tanto tempo, sono riuscita a pensarla realmente. E’ stata la prima volta dal giorno del funerale di mia sorella.

Piuttosto dico «è andata via» come se fosse in viaggio e in parte è vero: forse una nuova vita da intraprendere, forse l’inizio, forse la fine del viaggio. Sta di fatto che ancora non l’ho pronunciata, ma il fatto di averla scritta e pensata mi ha fatto riflettere.

Per curiosità sono andata a spulciare la definizione del sostantivo femminile Morte nella Treccani. Una descrizione semplice e scientifica:

“Cessazione delle funzioni vitali nell’uomo, negli animali e in ogni altro organismo vivente o elemento costituito di esso: è in lutto per la m. di un fratello; l’afta epizootica ha causato la m. molti bovini […]. Da un punto di vista biologico, la morte si può considerare come l’estinzione dell’individualità corporea, non tanto dei singoli elementi che la compongono, quanto delle necessarie correlazione tra organi e funzioni.”

Tutto così preciso e lineare, in pratica l’epistemologia della morte. E’ una cessazione dell’individualità corporea, e fin qui tutto chiaro, il corpo muore perchè le sue funzioni vitali cessano. Ma allora mi sorge una domanda: perchè è così difficile pronunciare questa parola?

Quando si entra in contatto con la morte, dire questa semplice parola diventa uno scoglio insormontabile. Le teorie sul dualismo anima e corpo sono molteplici e risalgono all’alba dei tempi.

Tante teorie, tante perdite e tante riflessioni sono state fatte nel corso dei secoli. Nel mio intimo ho sempre pensato alla morte e come questa fosse presente nella nostra vita. Fin da piccola (all’epoca ero anche una darkettona pensierosa e borchiata) ho riflettuto su di essa ma quando il Tristo Mietitore sopraggiunge con il suo manto nero è sempre inaspettata, a maggior ragione quando essa è prematura.

Allora come si affronta? Come si supera il dolore? Come si trovano le risposte a domande universali? Come si placano i pensieri? Cercando in un blog ho trovato un altro paranoico che come me che si poneva  domande sulla morte; un ragazzo al suo interessante scritto ha risposto: «Prima di tutto, scialla! E viviti la vita». Forse ha ragione l’anonimo ragazzo, viviamola così, con spensieratezza… espresso con un neologismo alquanto odioso ma che esprime bene il concetto che ognuno di noi dovrebbe ricordare sempre.

Secondo me, l’unica risposta che ci può essere è la riflessione e questa è sopraggiunta in me quando sono andata con un mio amico, Giuseppe, in un sito archeologico non distante dal mio paese, agli scavi del tempio dorico di Kaulon a Monasterace. All’inizio eravamo un pò increduli dell’erbacce e da come si debba giungere al sito attraversando la statale lasciando la macchina sul ciglio della strada ma nonostante queste incoerenze della terra in cui sono nata, è stata una bella emozione. Abbiamo scherzato e fatto qualche deduzione da finti-archeologi e ad un certo punto, arrivato il momento sigaretta, mi sono realmente voltata ad osservare il mare. All’improvviso mi ha colta una sensazione che non mi capitava da un pò di tempo: di tranquillità e di immobilità atemporale, non quella vissuta fino ad oggi con la paura di quello che sarebbe successo, ma di immersione nella storia senza tempo, il che potrebbe sembrare una contraddizione, ma è stata proprio quella la sensazione.

Il tempio si trova a 100 m. dal mare su un’altura e mettendosi di spalle a quella che un tempo era l’entrata del luogo sacro, si ha la visione dello Jonio in tutto il suo splendore, nonostante quel giorno la giornata fosse uggiosa. Lì ho iniziato a pensare alla storia e di come nel V sec. a.C questa terra era diversa, non c’era la statale ma solo quel magnifico tempio che si stagliava con il suo candore sul mare, doveva essere una  meravigliosa visione per chi giungeva con la nave a Punta Stilo.

In quel momento per la prima volta ho pensato alla parola morte, mi è sorta così dal nulla. Forse perchè ero tranquilla, forse perchè avevo la mente sgombra da altri pensieri o forse perchè ho pensato alla storia che va avanti e al tempo che mai si ferma.

Nell’ultimo periodo sono stata immobile, solo da qualche giorno ho iniziato a capire. Molti i consigli e le chiacchierate con amici in questo strano periodo; una sera Natty, un amico passato dal mio paese perchè in tour con la band, mi ha fatto capire che il tempo scorreva e che io mi ero immobilizzata nei pensieri, trascurando la mia anima e il mio corpo.

Anima e corpo una dualità inscindibile, ma fino ad un certo punto. Sul dove vada l’anima dopo la morte nessuno lo sa. Ognuno ha la sua fede e le sue credenze ma nel presente queste sono legate in modo univoco. Io stavo trascurando “l’anima vivente”, e così come facevo io anche molti altri lo fanno, persone a cui succedono cose inaspettate e all’improvviso ci si dimentica di vivere e si dimenticano le proprie passioni.

Ancora non ho raccolto i miei pensieri ma da qualche giorno sperimento, faccio cose nuove: cose che prima per stanchezza mentale non facevo.

Tiziano Terzani ci spiega la vita attraverso lo yin e lo yang. L’universo e l’armonia degli opposti sono la vita, la regolano e dovremmo sempre ricordarlo, ogni tanto si dimentica, ma leggere e vivere ce lo fa ricordare.

“Non c’e acqua senza fuoco, non c’e maschio senza femmina, non c’e notte senza giorno, non c’e sole senza luna, non c’e bene senza male e questo simbolo dello yin e dello yang è perfetto, perchè il bianco e il nero si abbracciano e all’interno del nero c’e un punto bianco e all’interno del bianco c’e un punto nero. Questa è una faccenda sulla quale non riflettiamo mai, noi che perseguiamo il piacere in ogni modo, non c’e piacere senza sofferenza e non c’e sofferenza senza piacere. Solo quando capisci questo godi del piacere e accetti la sofferenza”.

Queste parole molti le hanno lette, molti le hanno citate, molti non le conoscono ma sono una spiegazione efficace alla definizione di vita. Purtroppo spesso è difficile attuarle perchè il dolore a volte ci fa dimenticare e non vedere il bello e il piacevole. Che sia con una grossa risata o con una sigaretta fumata con un amico di fronte al mare sconfinato o una chiacchierata con un negroni in mano alle due di notte, alcune volte basta poco per lasciarsi andare e rivedere il bello e risentire la propria anima. Non è detto che questo stato duri ma sono piccole sensazioni che accrescono la nostra vita, la sua accettazione e alimentano i nostri sentimenti.

Molti mi chiedono come riesco a confidare i miei pensieri al blog ma la risposta è semplice: perchè credo nella condivisione dei sentimenti e dei pensieri, credo che la vita possa far riflettere e credo che le riflessioni egoisticamente mi facciano bene perchè ho avuto sempre l’esigenza di comunicare ciò che mi passava per la testa. Credo che la scrittura come l’arte ci insegni a capire per quel poco che è possibile la vita e i comportamenti umani. Il peso da portare sulle spalle di ognuno di noi cambia da persona a persona, ognuno ha i propri scheletri, i propri ricordi e i propri pensieri, l’importante è che con il tempo si impari a convivere con essi e il loro peso non ci schiacci e non ci tolga il respiro per vivere.

Le domande iniziali rimangono… e a molte di queste non c’e risposta. Ma alla morte si risponde con la vita, come fosse un calcolo matematico dai risultati impossibili da prevedere. L’arte alcune volte non viene capita ma basta aprire gli occhi e stare in silenzio per poco tempo per lasciarsi trasportare da ciò che essa vuole comunicarci, cogliendone gli infiniti insegnamenti.

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Marina Abramovic, Carrying the Skeleton" (2008).

Marina Abramovic, Carrying the Skeleton” (2008).

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