New York – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Sat, 13 Feb 2021 23:19:46 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Il padre dell’istantanea e dell’impossibile. https://www.cultmag.it/2020/01/08/il-padre-dellistantanea-e-dellimpossibile/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/01/08/il-padre-dellistantanea-e-dellimpossibile/#respond Wed, 08 Jan 2020 08:15:00 +0000 http://claudiastritof.wordpress.com/?p=99  “Non intraprendere un progetto a meno che non sia manifestamente importante e quasi impossibile”.

 – Edwin Land

Edwin Land (1909-1991), secondo per numero di brevetti solo a Thomas Edison, è stato definito l’ultimo dei grandi geni, inventore e fisico americano, ha rivoluzionato il concetto di fotografia con la creazione della Polaroid.

Nel 1926 Edwin Land lascia l’Università di Harvard e trascorre molte ore nella biblioteca pubblica di new York, sfogliando libri di fisica e ottica. Land è curioso, vorace di conoscenza e trae grande ispirazione da queste letture, in particolare dal testo di ottica di Robert W. Wood, la cui prima edizione uscì nel 1905, mentre la seconda nel 1915.

L’idea venne a Land quando rimase abbagliato dai fari di una macchina mentre passeggiava lungo un viale newyorchese, pensando che per evitare incidenti, dovesse creare un polarizzatore sottile ed economico. Dopo diversi esperimenti, mette a punto un foglio polarizzante, chiamato Polaroid, costituito da una pellicola di plastica in cui erano incorporati numerosi cristalli di erapatite.

Pochi anni dopo Land fondò la Polaroid Corporation, società creata insieme al professore di Harvard, George Wheelwrigh, che attirò l’attenzione di molte industrie come General Motors, General Electric ed Eastman Kodak, che nel 1934 divenne il primo cliente di Land.

Aprile 1947, Edwin H. Land dimostra il funzionamento della Polaroid.
Image ©Baker Library/Harvard Business School

La nascita della macchina fotografica di plastica è legata a un aneddoto personale, infatti, dopo un intero giorno trascorso a fare fotografie con la famiglia in vacanza a Santa Fe, Jennifer, la più piccola delle figlie di Land, ingenuamente chiese al padre come mai non fosse possibile vedere subito le immagini scattate. Ai tempi d’oggi la domanda apparirebbe assolutamente banale e scontata, ma all’epoca fu una domanda geniale che scatenò una vera e propria rivoluzione tecnologica.

Land in quel momento ebbe l’illuminazione e nel giro di un’ora chiamò il proprio avvocato per avviare le pratiche per brevettare una macchina in grado di sviluppare una fotografia positiva in sessanta secondi, grazie a pellicole dotate di un rivestimento fotosensibile a cui venivano aggiunte sostanze necessarie per lo sviluppo.

Leggenda o realtà, si racconta che durante una notte tempestosa, mentre Land si trovava all’Hotel Pennsylvania di New York scattò la sua prima istantanea.

Aveva 37 anni e prima di inventare la Polaroid, aveva già messo a punto altre interessanti scoperte: le lenti polarizzate, i filtri ottici, i visori notturni e nel 1938 annuncia anche la creazione del Vectograph, un sistema 3-D utilizzato in campo militare.

Land è stato un uomo estremamente creativo e innovativo, non solo nelle sue invenzioni, ma anche nel modo di commercializzarle, come avvenne quando invitò i dirigenti della Società Optical nella sala di un albergo, dove il bagliore del sole riflesso sul davanzale colpiva a sua volta un acquario in cui i pesci rossi erano al momento invisibili, Land consegnò loro un foglio polarizzato e guardandoci attraverso essi furono in grado di focalizzare i pesci. Le lenti polarizzate vennero subito acquistate per creare i primi occhiali con lenti polarizzate.

La prima Polaroid Land Camera fu venduta il 26 novembre 1948 al Jordan Marsh, un grande magazzino di Boston, che qualche ora dopo registrò il boom di vendite.

Il lavoro di Land negli anni continuò incessantemente: la Polaroid non solo venne amata da fotoamatori ma anche da grandi artisti che la adottarono come loro mezzo espressivo, tanto che fu lo stesso Land a raccogliere e acquistare molte fotografie di artisti famosi, talune volte scambiandole o barattandole macchine fotografiche.

Giunse a raccogliere 25.000 immagini tra cui quelle di Andy Warhol, Robert Frank e Ansel Adams, quest’ultimo anche consulente della ditta.

Il ’72 è invece l’anno di nascita della Polaroid SX-70, la prima macchina istantanea a colori che utilizzava un rullino di formato quadrato.

Test photograph of Meroë Marston Morse scatta una fotografia nei laboratori Polarois, 1940 ca. ©Polaroid Corporation Records. BAKER LIBRARY HISTORICAL COLLECTIONS, Harvard Business School.

Land fu una persona molto stravagante, sempre innovativa e mai ordinaria. Ottimista di natura, era dotato di grande sensibilità artistica e ingegno. Era alto meno di un metro e ottanta e si contraddistingueva per il ciuffo nero e gli occhi intensi. Sempre sopra le righe, come era solito ripetere: «se vale la pena di fare qualcosa, allora è meglio farla in eccesso».

Non è un caso che un grande visionario come Steve Jobs abbia dichiarato la sua ispirazione alla figura di Edwin Land. Abbandonando l’università, avviò da solo la sua fortuna aprendo due industrie e collaborato con politici e governatori. Edwin Land è un esempio straordinario di uomo che ha cambiato il suo percorso personale e dato avvio a una nuova grande epoca.

La favola creata da questo grande uomo stava per terminare nel febbraio 2008, quando giunge il triste annuncio che terminerà la produzione delle pellicole istantanee, dopo che nel 2007 era già cessata la produzione delle fotocamere.

Nei primi mesi del 2010 qualcosa è cambiato: il marchio è stato rilevato da un gruppo di dodici tecnici, ingegneri e chimici che hanno ricominciato la produzione delle pellicole, sono stati riaperti gli stabilimenti a Enschede, al confine tra l’Olanda e la Germania.

Il progetto è rinato con il nome di Impossible Project, riunendo dieci dei migliori ex dipendenti Polaroid che hanno condiviso la passione e la fede “in un sogno impossibile”, riuscendo a creare una nuova pellicola con lo scopo di portar in salvo milioni di Poaroid ancora funzionanti ma non più utilizzate.

APPROFONDIMENTI UTILI:

The Story of Edwin Land, The Harvard Gazette.

Archive Edwin Land, BAKER LIBRARY HISTORICAL COLLECTIONS.

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RealDoll: androidi e sentimento nella fotografia di Elena Dorfman. https://www.cultmag.it/2019/06/04/realdolls-androidi-e-sentimento-nella-fotografia-di-elena-dorfman/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/06/04/realdolls-androidi-e-sentimento-nella-fotografia-di-elena-dorfman/#respond Tue, 04 Jun 2019 06:00:59 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1197 Le RealDoll, ovvero bambolo estremamente realistiche, non sono giocattoli solo sessuali ma veri e propri oggetti d’affezione, che si trovano in vendita dal 1996, grazie alla prima lungimirante azienda che iniziò a produrle, la Abyss Creation, nello stabilimento di San Marcos, in California.

L’idea di queste bambole è stata dello scultore Matthew McMullen, che non a caso è chiamato lo “Steve Jobs del sesso”, il quale ha sempre nutrito una profonda ammirazione verso la donna e il suo corpo, tanto da iniziare a produrre manichini estremamente realistici che lo ritraessero con assoluta veridicità.

La strada è stata molto lunga e, pian piano, con lo sviluppo della tecnologia le real doll, sono state perfezionate, donando loro anche la parola e facendo assumerle espressioni facciali sempre più umane, come chiudere gli occhi o farli muovere autonomamente.

Elena Dorfman, Valentine 3, dalla serie “Still Lovers”, 2002.
C-Print, Aluminium 74,6 x 74,6 cm Courtesy the artist; Edwynn Hook Gallery, New York
© Elena Dorfman

Quando lo scultore mise in vendita le prime bambole sul suo sito internet, il successo non tardò ad arrivare, ma se lo scopo da lui immaginato era prevalentemente sessuale, in realtà chi iniziò ad acquistarle manifestava tutt’altra volontà. I clienti richiedevano esplicitamente bambole realistiche, dotate di un anatomia perfetta e aderente al vero in tutto e per tutto, così come fondamentale era la sensazione che queste dovevano avere al tatto.

Le RealDoll hanno lo scheletro in PVC che permette loro di assumere movenze e posizioni simili al corpo umano, le articolazioni sono realizzate in acciaio inossidabile e il corpo in silicone ricrea una sensazione che al tatto ricorda quella dell’epidermide umana.

Le caratteristiche fisiche si scelgono in base ai propri gusti fin al minimo dettaglio, le mani assumono la posizione che si desidera, le ciglia sono truccate, le unghie perfette e così i capelli. Addirittura alcuni modelli sudano e sono dotate di un sistema di sensori interni, grazie al quale se si stringe un braccio, affiorano le vene blu, inoltre come dice il suo creatore, «alcuni modelli si riscaldano con il movimento, più le muovi più la temperatura in superficie si alza».

«Queste bambole non sono per tutti, non vanno nascoste o buttate sotto il letto», i proprietari le vedono nascere e le seguono durante tutto il percorso che le  porta a nascere, ne scelgono il nome, le caratteristiche fisiche, i dettagli, anche quelli più minuti, e ciò comporta in loro un grande investimento emotivo.

Credo che questo atteggiamento sia particolare, ma sappiamo che ormai il possesso delle RealDoll è molto diffuso, da analizzare certo, ma non da criticare o da pensare semplicemente come un puro sfogo sessuale; i sentimenti che portano ad acquisire una bambola, sono tra i più diversi e di sicuro non sono da prendere con leggerezza o scherno.

Elena Dorfman, Ginger Brook 4, 2001.
Dalla serie “Still Lovers”, 2002.
C-Print, Aluminium 74,6 x 74,6 cm Courtesy the artist; Edwynn Hook Gallery, New York
© Elena Dorfman

Numerose le indagine svolte su questi comportamenti e numerosi i documentari: Guys and Dolls (rinominato Love Me, Love My Doll per la messa in onda del 2007 da parte della BBC); nel 2007 è uscito Lars e una ragazza tutta sua di Craig Gillespie, in cui il protagonista (Ryan Goslin) introduce una bambola nella vita quotidiana e la porta ovunque, presentadole amici e parenti, fino ad ottenere il riconoscimento da parte della società.

Comportamento tra i più comuni, quando si inizia a presentare un’affezione da queste bambole, credendo in tutto e per tutto che esse siano reale e volendo condividere con loro ogni attimo della propria vita.

Un ricercatore britannico, David Levy, ha svolto un analisi approfondita su questo argomento e nel 2001 ha fondato la Intelligent Toys Ltd, essendo fermamente convinto che «presto i robot diventeranno partner sessuali per un vastissimo numero di persone».

Riccardo Campa, docente di Sociologia della Scienza all’Università di Cracovia e direttore della World Transhumanist Association, afferma: «Ci sarà un momento in cui i robot saranno quasi indistinguibili dagli esseri umani, ma più belli e privi di difetti», e continua, «a quel punto, il loro utilizzo anche a fini sessuali sarà inevitabile».

Con il raggiungimento della massima perfezione dell’interattività, i dispositivi pian piano riescono a reagire ai nostri movimenti e rispondere alla nostre emozioni.

Se l’analisi sociologica procede spedita nello studio di tale fenomeno, dobbiamo dire che anche quella artistica e fotogiornalistica si è fin da subito interessata a questo argomento.

Già Helmut Newton nella serie Simulato e Umano del 1978, aveva realizzato una campagna pubblicitaria con i manichini e sappiamo quanto questi siano stati cari a Freud nella dedizione del perturbante, ai Surrealisti, ma anche a tutta l’arte successiva.

Il fotogiornalista Zackary Canepari, incuriosito da questo argomento, è entrato dentro la fabbrica di McMullen realizzando un servizio tra il surreale e l’inquietante: con volti eterei riposti in una scatola o manichini inquietanti stesi ad asciugare su ganci di ferro.

©Zackari Canepari

Il mio interesse verso questo argomento però nasce molto tempo, quando ebbi modo di vedere una mostra curata da Franziska Nori, proprio su Elena Dorfman, artista nata a Boston ma che vive e lavora spostandosi tra New York e San Francisco.

Con la serie Still Lovers, ha deciso di entrare in questo mondo oscuro ai più, incontrando i proprietari delle bambole, che hanno voluto condividere con lei i sentimenti che portando ad adottare una bambola nella propria vita.

Legami emotivi forti che travalicano dall’essere meri oggetti sessuali ma, come ben si evince da queste immagini, le Real Doll, ovvero le bambole “umane” qui ritratte vengono viste come vere e proprie compagne di vita: si condivide la lettura di un libro, la visione della televisione tenendosi per mano, un pasto o una colazione.

Gli androidi sono già un discorso “vecchio”, le ricerche della Dorfman risalgono al 2001 e la creazione della RealDoll al lontano 1996. Dopo tutto questo tempo, possiamo essere sicuri di aver accettato e capito senza riserve queste storie d’amore, passione e sentimento?

Nel 2004 si pensava che entro il 2020 questi androidi sarebbero stati dotati di un inizio di coscienza… ma in un mondo come il nostro, dove la paura del diverso vige incontrastata, dove invece di andare avanti con il pensiero, regrediamo allo stato brado, siamo sicuri di essere realmente disposti a comprendere, senza farci scherno delle debolezze altrui, ammesso che queste lo siano. Quali sono i sentimenti che spingono una madre ad acquistare una bambola con le fattezze di una figlia che ormai non c’è più? Quali quelli di un ragazzo che semplicemente vuole guardare un programma tv con la sua ragazza?

Ci sentiamo realmente così pronti a giudicare, senza provare un attimo a capire?

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Revisione di un testo del 20 giugno 2014.

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Berenice Abbott. Topografie https://www.cultmag.it/2017/02/23/berenice-abbott-topografie/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/02/23/berenice-abbott-topografie/#respond Thu, 23 Feb 2017 20:51:36 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4530 “Innanzitutto definiamo cosa non è una fotografia. Una fotografia non è un dipinto, una poesia, una sinfonia, una danza. Non è solo una bella immagine, non un virtuosismo tecnico e nemmeno una semplice stampa di qualità. È o dovrebbe essere un documento significativo, una pungente dichiarazione, che può essere descritto con un termine molto semplice: selettività. La fotografia non potrà mai crescere fino a quando imiterà le altre arti visive. Deve camminare da sola, deve essere se stessa”.

Una frase famosa, più volte citata quando si parla della fotografa che l’ha pronunciata, Berenice Abbott, la quale non solo con queste poche parole esprime la sua posizione rispetto alla fotografia pittorialista d’inizio Novecento, ma è soprattutto un’esplicita dichiarazione di poetica personale e coerenza concettuale. Uguale solo a se stessa la fotografia, deve essere selettiva e indagatrice, deve cogliere i mutamenti in atto nella società e lo spirito del proprio tempo con il fine di comunicare al pubblico la concretezza e la scientificità del reale. Non poteva quindi che chiamarsi BERENICE ABBOTT. Topografie la prima mostra antologica a lei dedicata in Italia presso il Museo MAN di Nuoro, con la curatela di Anne Morin. 

L’esposizione presenta una selezione di ottantadue stampe originali realizzate dalla Abbott tra la metà degli anni Venti e i primi anni Sessanta, divise in tre sezioni ben strutturate attraverso le quali viene ripercorsa l’intera carriera della fotografa americana. Si parte dalla sezione dei ritratti che indubbiamente caratterizza l’inizio della sua carriera come assistente di Man Ray, che conosce a New York dopo essersi trasferita dall’Ohio per studiare scultura. Insieme decidono di partire alla volta di Parigi e qui sotto consiglio dell’artista dada realizza numerosissimi ritratti dei più importanti esponenti dell’avanguardia artistica e letteraria del tempo. La sua prima mostra personale si svolge alla galleria Le Sacre du Printemps nel 1926, un anno fatidico durante il quale apre anche il proprio laboratorio fotografico che diventa luogo d’incontro per intellettuali e artiste. Sempre a Parigi, la Abbott conosce il famoso fotografo Eugène Atget e subito rimane folgorata dalle sue bellissime immagini di una Parigi che sta scomparendo, fatta di angoli nascosti, mercatini delle pulci e insegne fatte a mano, tanto che sarà lei a fotografarlo in uno dei pochi ritratti pervenuteci dell’artista, così come sarà lei – dopo la morte del fotografo – ad acquistare molti dei suoi negativi promuovendone la conoscenza attraverso pubblicazioni e mostre sia in Europa che negli Stati Uniti.

Sotto l’influenza artistica di Atget la Abbott si dedica a progetti riguardanti gli importanti mutamenti che in quegli anni stanno avvenendo nelle grandi metropoli, e in particolare, con il ritorno a New York inizia il famoso lavoro Changing New York, a cui è anche dedicata la seconda sezione della mostra presso il MAN. Un progetto immenso e un archivio ricco di fotografie attraverso il quale la Abbott ha documentato giornalmente i mutamenti architettonici, topografici e urbanistici che negli anni Trenta hanno interessato la Grande Mela con “fotografie caratterizzate da forti contrasti di luci e ombre e da angolature dinamiche”. L’ultima sezione della mostra è invece dedicata alla fotografia scientifica, che ha caratterizzato la sua carriera dagli anni Quaranta in poi, prima diventando photo-editor della rivista Science Illustrated, poi durante gli anni Cinquanta dedicandosi alla realizzazione di illustrazioni sui principi della luce e della meccanica per il Massachusetts Institute of Technology. La mostra BERENICE ABBOTT. Topografie al MAN di Nuoro – realizzata grazie al contributo della Regione Sardegna e della Fondazione di Sardegna – celebra l’arte e la ricerca di questa straordinaria fotografa che morì il 9 dicembre 1991 lasciando ai posteri un corpus di opere di straordinario valore artistico e scientifico.

BERENICE ABBOTT. Topografie
a cura di Anne Morin
17 Febbraio 2017 – 21 Maggio 2017
Museo MAN, via S. Satta 27- 08100, Nuoro

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Testo di Claudia Stritof pubblicato su Juliet art magazine online (15/02/2017)

Dorothy Whitney, Paris, 1926 © Berenice Abbott_Commerce Graphics_Getty Images. Courtesy of Howard Greenberg Gallery, New York

Nightview, New York, 1932 © Berenice Abbott_Commerce Graphics_Getty Images. Courtesy of Howard Greenberg Gallery, New York

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Gli anni ’90 e il movimento squatter nelle fotografie di Ash Thayer. https://www.cultmag.it/2015/06/25/gli-anni-90-e-il-movimento-squat-nelle-fotografie-di-ash-thayer/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2015/06/25/gli-anni-90-e-il-movimento-squat-nelle-fotografie-di-ash-thayer/#comments Thu, 25 Jun 2015 17:48:34 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1906 E’ il 1999 quando Iggy Pop registra l’album Avenue B, prodotto da Don Was, un album che la critica ha definito tipicamente newyorchese per le sonorità fluide e tranquille rispetto agli inizi turbolenti del cantante statunitense. Iggy Pop alla fine degli anni novanta non poteva scegliere titolo migliore se non citare una delle famose vie di Manhattan dell’Alphabet City, collocata tra il Lower East Side e l’East Village. Siamo allo scadere del decennio e il quartiere è in pieno fermento culturale e artistico, già da molto tempo è diventato oggetto d’interesse da parte della popolazione più povera che abusivamente occupa le case abbandonate di proprietà del comune, dando così avvio al movimento degli squatter.

All’epoca camminare in Alphabet City non voleva dire incontrare persone pericolose e randagi perditempo, ma piuttosto immergersi in culture differenti che condividevano lo stesso luogo in piena e totale armonia. C’erano i punk con creste e chiodo borchiato, i neonati adepti del grunge con camicioni in flanella e anche studenti, anarchici e hippie, ma soprattutto non esistevano etichette. Uomini, donne e bambini non venivano giudicati per la loro provenienza o per i propri ideali, ma semplicemente erano persone in cerca di un tetto sotto cui vivere e persone con storie da raccontare. Oggi tutto questo non esiste quasi più, ne rimane solo una piccola parte, gli storici pub che hanno visto nascere tanta musica indimenticabile vengono sostituiti da cafè alla moda, mentre si aprono boutique e ristoranti all’insegna del fashion, dopotutto i tempi son cambianti e anche il punk ha fatto il suo ingresso nei musei, tra le più citate mostre “PUNK: Chaos To Couture” del 2013 al Metropolitan Museum of Art.

Kill City: Lower East Side Squatters 1992-2000. © Ash Thayer

Kill City: Lower East Side Squatters 1992-2000. © Ash Thayer

Ma è fondamentale ricordare la storia dell’Alphabet City per non snaturarne gli ideali del quartiere e comprendere le ragioni che ancora le permettono di essere una zona caratterizza dal verde dei suoi orti, dalla convivialità dei suoi abitanti e dalle pareti dipinte dai molti murales.

A raccontare i mitici ’90 dell’Alphabet City ci pensa un libro fotografico, “Kill City: Lower East Side Squatters 1992-2000” della fotografa Ash Thayer, da poco uscito per la casa editrice powerHouse Books. Negli anni novanta la Thayer era una giovane studentessa di arte, che da Memphis, Tennesse, si trasferisce in un appartamento di Brooklin a New York. Nel 1992 viene sfrattata dall’appartamento in cui vive perché impossibilitata a pagare l’affitto ed è così che la sua nuova vita ha un nuovo inizio allo storico C-Squat nel Lower East Side.

Kill City: Lower East Side Squatters 1992-2000. © Ash Thayer

Kill City: Lower East Side Squatters 1992-2000. © Ash Thayer

Già dal 1995 una violenta ondata di sgomberi ha allontanato molti dei suoi abitanti e questa si è inasprita nel 1997 in seguito ad un incendio avvenuto in una delle palazzine, infatti il sindaco Rudolph Giuliani cogliendo l’occasione dell’incendio, fa sigillare la palazzina ignorando l’ordine del tribunale che consentiva ai residenti di entrare nell’edificio per recuperare i propri averi e dando avvio alla demolizione. Da quel momento le cose iniziarono a cambiare e dei 35 edifici iniziali oggi solo pochi sopravvivono, continuano la loro attività come cooperative mitided equity, conversione che è avvenuta per gli storici ABC No Rio e il C-Squat. Oggi molti di quei ragazzi continuano a lottare per la propria casa e sono diventati attivisti dei diritti umani, ambientalisti e vivono negli squat con le proprie famiglie e proseguendo l’attività di volontari per tenere la comunità attiva. Il libro di Ash Thayer racconta tutto questo, è la storia di un piccolo lembo di terra situato nella Grande Mela che cerca di sopravvivere nonostante le continue pressione che vogliono snaturarne la natura, ma che cerca di sopravvivere per poter esprimere liberamente se stessa, perchè quella terra è di qualcuno ed è di coloro che l’hanno come una figlia da crescere e da amore, dopottuto “This land is ours” recita la scritta affissa all’entrata del C-Squat, che ancor oggi campeggia fiera tra il verde dei giardini e i ristoranti alla moda.

Testo ©Claudia Stritof. All rights reserved.

Kill City: Lower East Side Squatters 1992-2000. © Ash Thayer

Kill City: Lower East Side Squatters 1992-2000. © Ash Thayer

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9781576877340-790x1000

Copertina del libro Kill City: Lower East Side Squatters 1992-2000.

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Vite consumate pubblicamente: Nan e Terry https://www.cultmag.it/2014/01/10/vite-consumate-pubblicamente-nan-e-terry/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2014/01/10/vite-consumate-pubblicamente-nan-e-terry/#respond Fri, 10 Jan 2014 19:14:00 +0000 http://claudiastritof.wordpress.com/?p=1131 Tanto tempo fa – quando ho aperto questo blog – l’intenzione era quella di parlare di fotografia e di arte, ma ultimamente, per varie coincidenze e contingenze ho scritto con maggior assiduità della mia vita personale.

Negli ultimi mesi ho scoperto l’importanza del diario pubblico, perché, attraverso questo ho conosciuto persone e condiviso storie e racconti.

A me piace la scrittura e penso che attraverso questa le persone possano avvicinarsi le une alle altre, anche persone sconosciute. E così è stato.

Ci sono opinioni contrastanti sul raccontare i propri sentimenti pubblicamente, ma io personalmente ho sempre pensato che fosse positivo, perché fa riflettere sui sentimenti.

Una volta i diari non erano online, ma cartacei ed esclusivamente personali (si pensi ad Anaïs Nin o a quelli di quando si è piccoli, il nostro scrigno dei ricordi), ma con l’avvento delle nuove tecnologie sono diventati pubblici e “digitali”.

Detto questo, vorrei omaggiare oggi due grandi fotografi che hanno fatto diventare la loro stessa vita oggetto d’arte e del loro corpus un diario pubblico.

La prima è Nan Goldin, pioniera in questo senso, intenta a fotografare tutto ciò che le accadeva con la più assoluta naturalezza.

Se osserviamo i suoi scatti notiamo l’immediatezza con la quale essa si rapporta alla vita, facendo crollare ogni barriere tra la macchina fotografica e i suoi soggetti. Ciò che voleva cogliere era la vita, il suo flusso, così come essa si presentava.

©Nan Goldin

Goldin scatta fin da giovane, ritraendo amici e parenti, ma lo fa in un’epoca in cui ritrarre la propria vita, soprattutto se questa è vissuta al massimo della sua intensità non era poi così banale, né semplice. Sopratutto se si decide che quelle fotografie diventeranno oggetto di mostre e di critica artistica.

Sono gli anni ’70-’80, la piaga dell’AIDS e dell’eroina affliggono la società e ancora non si sa come arginarle; la malattia spezza la vita di giovani anti-eroi poco più che ventenni e Nan si trova immersa completamente in questo mondo.

Un mondo che vive intensamente e che emerge esplicitamente nei suoi scatti.

The Ballad of Sexual Dependency (Aperture Foundation, 1986), oltre a essere un libro meraviglioso, è anche uno slideshow, in cui la Goldin ha racchiuso le fotografie di quegli anni scattate a New York.

Ciò a cui si assiste è la vita della Goldin, un diario intimo caratterizzato dai sentimenti più diversi: paura del futuro, amore, sofferenza, amicizia, depressione, ma anche voglia di vivere.

L’artista stessa afferma: «non ho mai creduto che un solo ritratto possa determinare un soggetto, ma credo in una pluralità di immagini che testimonino la complessità della vita».

Nan racconta il suo mondo e i legami amicali di una vita, con una tale intensità che naturalmente non passano inosservati alla critica; così nel 1996 realizza la prima personale al Whitney Museum di New York, sede in cui presenta un secondo meraviglioso progetto: I’ll be Your Mirror, sull’omosessualità.

Chi ha sempre ammesso il debito verso Nan Goldin è Terry Richardson che più di ogni altro ha saputo sfruttare i social network e la fotografia diaristica per affermarsi come fotografo di fama internazionale.

©Terry Richardson
©Terry Richardson

Di Terry si conosce tutto, grazie al suo lavoro. Se osserviamo le sue immagini, non vi è nessuna differenza tra gli scatti privati e quelli realizzati per la moda: non utilizza una tecnica ricercata e perfetta, ma è caratterizzata da inquadrature casuali e per di più realizzate con qualsiasi mezzo, da una reflex alla fotocamera del cellulare.

Fece scandalo nel 2004 con la pubblicazione del libro Kibosh, che per citare lo studioso Claudio Marra «è una gioiosa reinvenzione della fotografia pornografica, alleggerita da tutti i suoi codici rappresentativi, grazie allo stile “familiare” e antiformalista”».

Un condensato di immagini private che vengono esibite e vissute con assoluta libertà, le quali venivano caricate sul suo photolog Terry Richardson’s Diary, avviato nel 2010.

Diari privati che diventano pubblici, pagine che nascono per essere condivise e che hanno mutato il nostro modo di osservare.

Ciò che una volta era tabù ora è diventato normalità, andando talune volte, oltre ogni limite; ma la condivisione non sempre è negativa, forse perché l’abbiamo assimilata ed è così che iniziamo a conoscere problemi, gioie e dolori che prima non ci erano noti e che invece ora diventano oggetto di discussione e confronto.

Paul Auster diceva: «pensi che a te non succederà mai, che sei l’unica persona al mondo a cui queste cose non succederanno mai e poi, a una a una, cominciano a succederti tutte, esattamente come succedono a tutti gli altri». In Diario d’inverno, Auster racconta la vita di un uomo che va alla ricerca della verità, non verità universali, ma quelle più semplice, spietate e dolorose, quelle che riguardano se stesso e la propria quotidianità.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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