Rolleiflex – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Fri, 12 Mar 2021 17:57:09 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Tatuaggi e fotografia: ritratti di una passione. https://www.cultmag.it/2021/03/06/tatuaggi-e-fotografia-ritratti-di-una-passione/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/03/06/tatuaggi-e-fotografia-ritratti-di-una-passione/#respond Sat, 06 Mar 2021 16:13:00 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1945 Morto il 30 giugno 2010, Herbert Hoffmann è stato uno dei grandi nomi del tatuaggio e non ha certo bisogno di presentazioni; meno conosciuta è invece la sua attività di fotografo, un lavoro svolto con costanza fino alla fine dei suoi giorni.

Al 2002 risale il suo BilderbuchMenschen – Tätowierte Passionen 1878-1952 (Living Picture Books – Portrait of a Tattooing Passion 1878-1952), libro fotografico edito nel 2002, che contiene più di quattrocento immagini in bianco e nero scattate in oltre trent’anni di onorata carriera.

Sfogliando le pagine di questo meraviglioso libro fotografico si percepisce subito lo spirito indagatore di Hoffmann e la sua bravura come tatuatore, che gli hanno permesso nel tempo di essere riconosciuto come grande artista e, soprattutto, di far accettare un’arte che prima di lui si riteneva disonorevole, sopratutto nella Germania nazionalsocialista, contesto culturale e storico in cui il giovane Hoffmann cresce.

Herbert Hoffmann, Emma und Oskar Manischewski, 1958, Vintage Printe, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Negli scatti da lui realizzati si nota come l’attenzione non vada al dettaglio del tatuaggio, come accade in molte riviste specializzate, ma alle persone, ai loro atteggiamenti e ai loro rapporti.

Ritratti attraverso cui Hoffmann, involontariamente, compie un attento studio antropologico della personalità degli uomini e delle donne che da lui si recavano per farsi tatuare; denotando come l’importante non sia il tatuaggio in sé, ma le storie narrate che si celano dietro di esso e che portano il proprio corpo a diventare una tela dipinta su cui sono impressi i segni d’esistenza.

Herbert Hoffmann, Ulla Hansen, 1968, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Herbert Hoffmann nasce a Stettino nel 1919, città della Pomerania anteriore tedesca. La sua passione verso i tatuaggi nasce molto presto, quando da bambino guardava con meraviglia e stupore i corpi tatuati delle persone che incontrava per strada: solitamente proletari e uomini del popolo, che con fierezza mostravano i propri tatuaggi, nonostante nella Germania nazista fosse proibito tatuarsi, perché simbolo di pericolosità e di marginalità sociale.

Fino al 1939 il giovane Hoffmann lavora come fornaio, attività che sarà costretto a cessare perché viene chiamato alle armi e costretto ad arruolarsi. Dopo essere stato fatto prigioniero dall’Armata Rossa nel ’44, una volta liberato, va ad Amburgo dove decide di farsi tatuare una croce, un’ancora e un cuore, simboli delle virtù teologali, al cui interno è anche un cartiglio con le parole fede, speranza e carità.

È il 1949: per il giovane trentenne il tatuaggio sulla mano destra sarà solo il primo di una lunghissima serie.

Herbert Hoffmann, Wilhelm Wedekämper, 1960, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Apprende il mestiere da autodidatta e sperimenta le prime opere su uomini anziani che si affidano alle sue mani ancora inesperte, ma piene di talento.

Nel 1955 ottiene la licenza di tatuatore e apre il suo studio ad Amburgo e, sempre in questo stesso periodo, Hoffmann inizia a scattare con la Rolleiflex.

I tatuaggi oggi sono diventati la normalità: molti i testi dedicati alla sua storia e ancor di più le mostre a loro dedicate: da quella dedicata al tatuatore Marco Manzo, che ha portato i corpi delle sue donne al Maxxi di Roma, oppure Tattoo – Storie sulla pelle al museo, al museo M9 di Mestre, fino a giungere alla più recente Sergei Vasiliev – Russian Criminal Tattoo alla ONO arte contemporanea di Bologna.

C’è stato un un tempo in cui questi segni incisi sulla pelle non erano ben visti dalla società, ma con estrema lucidità e grazie alla sua Rolleiflex, Hoffmann è riuscito a cogliere un vivido ritratto di un mondo rimasto ai margini per fin troppo tempo, narrando così un mondo in continua evoluzione.

Frau Wulkow, ca. 1967,29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Come Herbert Hoffmann ha detto: «chi è estraneo al tatuaggio spesso vede solo corpi deturpati o raramente abbelliti da tatuaggi incancellabili che evocano sofferenze fisiche e rischi di infezioni […] ma per chi si tatua non è così. Nessuno si tatua per diventare più brutto, nè per masochismo! Chiunque si tatua, lo fa per dare a se stesso qualcosa di più: per essere più bello, per sentirsi e apparire più forte, più sexy, per dare sfogo a un dolore, un lutto, una gioia, un amore, per scongiurare una paura, un pericolo o per gioco […] Ci si tatua per esprimere i sentimenti più seri e profondi e per quelli più superficiali e frivoli e… perchè no?, per rivendicare il proprio diritto al gioco. Non ho mai incontrato qualcuno che si tatuasse per farsi del male! Spesso i tatuaggi che vediamo per strada non sono proprio bellissimi, questo però dipende dalla disinformazione e dal cattivo gusto dilagante, non da un intento autolesionista. Oggi sono brutti i vestiti, la moda, le automobili, le case, la pittura… e sono brutti molti tatuaggi… solo un’informazione corretta e libera da pregiudizi e luoghi comuni può insegnare a distinguere quelli belli da quelli brutti e aiutare a capire che un bel tatuaggio è un tatuaggio che ti rende più bello…».

Negli uomini del popolo, Hoffmann trova la sua personale fonte di ispirazione, decidendo di farsi guidare da loro verso universi sconosciuti e microcosmi unici, ma tutti talmente importanti da dover essere eternizzati in uno scatto… e questo lo farà fino al 2010, giunto all’età di 90 anni.

Testo  ©Claudia Stritof. All rights reserved
Photo Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann
Articolo del 15/06/2015 aggiornato in data 6 marzo 2021.
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Diane Arbus: vita e morte di un genio della fotografia https://www.cultmag.it/2019/12/22/diane-arbus-vita-e-morte-di-un-genio-della-fotografia/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2019/12/22/diane-arbus-vita-e-morte-di-un-genio-della-fotografia/#respond Sun, 22 Dec 2019 17:08:00 +0000 http://claudiastritof.wordpress.com/?p=155 «Penso che ci sia molta gente orribile nel mondo, e diventerà terribilmente difficile fotografare tutti, così se fotografo alcuni tipi generali di esseri umani ognuno li riconoscerà. Fu la mia insegnante, Lisette Model, che mi rese chiaro definitivamente che più specifici si è, più generali si sarà».

—  Diane Arbus

Da un po’ di tempo ormai mi sto dedicando alla lettura delle biografie di coloro che ritengo essere personaggi affascinanti, vuoi per la loro arte, vuoi per la loro vita, ma credo che si possano trarre molti insegnamenti utili comprendendo la forza e il coraggio di chi ha vissuto prima di noi.

Una biografia che consiglio di leggere è quella di  Diane Arbus, un’eccelsa fotografa, che fu d’ispirazione a numerosissimi artisti, uno tra tutti, Stanley Kubrick; infatti il regista si ispirò proprio a una sua fotografia per dar vita alle due famose gemelle di Shining.

La biografia scritta da Patricia Bosworth è veramente una lettura molto interessante se si vuole conoscere la vita della fotografa, anche perché lavoro completo di interviste e documenti originali consultati in prima persona dalla biografa, che ha deciso di arricchirla con dialoghi di amici, mentori e conoscenti di Diane.

© The Estate of Diane Arbus

Richard Avedon scrisse: «tutto quello che le accadeva sembrava misterioso, decisivo e inimmaginabile, naturalmente non per lei. E questo capita solo ai geni».

Diane Arbus amica dei più grandi artisti ma donna solitaria dallo sguardo vorace di verità, ha fatto del difetto una virtù, non camuffandolo ma facendolo emergere in tutta la sua imperfezione, perché «quello che cerco di descrivere è che è impossibile uscire dalla propria pelle ed entrare in quella altrui. La tragedia di qualcun altro non è mai la tua stessa» e ognuno di noi ha le proprie piccole ferite e le proprie piccole gioie che con il passare del tempo ci formano e vengono trasposte sulla propria epidermide o riflesse nei propri comportamenti.

Diane Nemerov, nasce a New York il 14 marzo 1923, da una ricca famiglia ebrea di New York, proprietaria dei grandi magazzini Russek’s. L’incontro con quello che diventerà il futuro marito, Allan Arbus, avviene molto giovane, alla sola età di 14 anni.

Durante la seconda guerra mondiale Allan lavora come fotografo per l’esercito, carriera che Diane e il marito decideranno di intraprendere una volta finito il conflitto bellico. All’inizio Diane fa da assistente ad Allan, ma ben presto grazie agli insegnamenti di Berenice Abbott, di Aleksej Česlavovič Brodovič e infine di Lisette Model, affina la tecnica e apprende l’arte della fotografia.

È soprattuto con Lisette che Diane trova la sua personale cifra stilistica e si avvicina ai primi soggetti da cui era particolarmente attratta, superando la sua grande timidezza.

© The Estate of Diane Arbus

Diane è ormai dedita alla fotografia e scatta incessantemente con una Nikon 35mm. In questo periodo conosce Kubrick, all’epoca un fotografo alle prime armi, poi Robert Frank e la moglie Mary, fino a quando nel 1960, entra in contatto con l’Hubert’s Museum, dove si esibivano molti personaggi particolari, di cui la fotografa diventa amica e confidente.

Il rapporto con Allan si incrina e Diane inizia la sua vita da sola, facendo sempre nuove scoperte, conosce anche Emile De Antonio, che le mostra il film Freaks di Tod Browning, uscito nel 1932, che per lei è una rivelazione.

Le sue immagini fanno fatica a essere pubblicate, se non grazie all’appoggio dell’amico Marvin Israel, all’epoca appena nominato art director di Harper’s Bazaar.

Chi conosce la biografia di Diane Arbus sa bene, che lei è anche conosciuta per l’uso che ha fatto della Rolleiflex, che utilizza dal 1962, vincendo l’anno successivo la sua prima borsa di studio data dal Guggenheim, fino al 1965 quando tre sue immagini vengono esposte in una mostra collettiva al MoMA, e ancora, nel ’67 trenta immagini esposte nella mostra New Documents.

La Arbus inizia a fare scuola e molti giovani fotografi apprezzano il suo stile e amano i suoi soggetti: prostitute, emarginati, giocolieri, gemelli, bambini, nudisti e disabili, tutti ritratti che le hanno fatto attribuire il soprannome di “fotografa dei mostri”, un appellativo che lei odiava, ma che sui malgrado non è mai riuscita a cancellare.

Si racconta che le modelle avevano paura a farsi ritrarre da lei perché riusciva a cogliere un’immagine senza veli, diretta, reale e talvolta anche crudele di chi si poneva davanti al suo obiettivo. Un ritratto vacillante tra repulsione e familiarità, così come ha confermato Viva, famosa modella degli anni ’60, quando la Arbus la colse nuda sul divano con gli occhi capovolti quasi come fosse svenuta.

New Documents allestimento della mostra tenutasi al MoMa di New York dal 28 febbraio al 7 maggio 1967. ©MoMa

Donna coraggiosa e grandissima fotografa, Diane si suicida il 26 luglio 1971, ingerendo un’ingente dose di barbiturici e tagliandosi le vene nella sua vasca da bagno, è stata la prima donna americana a esporre alla Biennale di Venezia, esattamente un anno dopo la sua morte. A celebrarla come grande maestra della fotografia altre mostre importanti da citare, come la mostra monografica ad Aperture e “Diane Arbus Revelations” del 2004.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati

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APPROFONDIMENTI CONSIGLIATI:

Il bellissimo archivio di Diane Arbus è conservato al Metropolitan Museum di New York.
Patricia Bosworth, Diane Arbus, A Biography, New York, Newton & Co.
Diane Arbus, An Aperture Monograph, New York, Aperture 1972.
Diane Arbus, Magazine Work, New York, Aperture 1984.
Diane Arbus, Family Albums, Yale University Press 2003.
Il film Fur: un ritratto immaginario di Diane Arbus di Steven Shainberg (2006).
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LEI: LA BIOGRAFIA ILLUSTRATA DI VIVIAN MAIER https://www.cultmag.it/2016/03/14/lei-la-biografia-illustrata-di-vivian-maier/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/03/14/lei-la-biografia-illustrata-di-vivian-maier/#respond Mon, 14 Mar 2016 17:53:44 +0000 https://www.cultmag.it/?p=3841 Lei… semplicemente Lei s’intitola il graphic novel dedicato alla fotografa Vivian Maier, firmato dalla matita di Cinzia Ghigliano, ed edito da Orecchio Acerbo.
Una biografia visiva che racconta in modo intimo e privato la vita e lo sguardo della tata che negli ultimi anni ha affascinato il mondo per la sua storia misteriosa e per essere stata, a sua insaputa, la pioniera della street photography.

Cinzia Ghigliano ci regala un racconto profondo, narrato da un punto di vista molto particolare, quello dell’oggetto che più di ogni altro ha condiviso gioie e dolori con la fotografa, la sua Rolleiflex, compagna inseparabile di vita e di viaggio.

copertina LEI

Copertina LEI

Si racconta che Vivian fosse «di poche parole, lunatica, scostante. Ma le persone per lei erano tutto. Ogni persona una storia» e ogni storia un’immagine intrisa di sentimento e nuovi racconti da condividere. Era una donna enigmatica, «portava camicie da uomo, imprecava in francese, conosceva a memoria tutti i racconti di O. Henry, camminava come un uccello. E così, come un trampoliere dalle lunghe gambe, ha attraversato il suo tempo fotografandolo»: i bambini intenti a salire sull’autobus che li avrebbe portati a scuola, i musicisti per le strade di Chicago, gli operai stanchi a lavoro, la sua ombra proiettata sull’asfalto cocente delle strade di New York, e ancora i negozi e le vetrine dove molte volte si era fotografata, lasciandoci un’infinità di autoritratti.

Molte le immagini da lei scattate, circa 150 mila negativi e tremila stampe, che per lungo tempo sono rimaste nascoste in un box di Chicago, sepolte sotto indumenti, oggetti e ricordi di una vita ormai passata.
Ma ad un certo punto, in un giorno qualunque, proprio mentre Vivian era arrivata al termine della sua vita, un signore curioso di nome John Maloof, si mette alla ricerca di materiale iconografico per un libro su Chicago e, casualmente, si imbatte in quei negativi. Li compra e, come fosse stato un archeologo alla ricerca di un tesoro scomparso, porta alla luce l’immenso archivio fotografico della tata girovaga.

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Cinzia Ghigliano, Lei

Era il 2007 e Maloof vuole scoprire chi è questa donna con la passione sincera verso la fotografia: scopre che era stata una commessa prima e bambinaia amorevole poi, ma anche e soprattutto una viaggiatrice e narratrice del mondo, scrutatrice di storie e di istanti che ha “eternizzato” grazie alla sua Rolleiflex.

Una storia, quella di Vivian Maier, fatta di amore, di passione e di voglia di libertà. Ogni fotografia era per lei un istante di vita e un ricordo indimenticabile, per questo, come egli stessa scrisse in un appunto: «ho fotografato i momenti della vostra eternità perché non andassero perduti».

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Testo a cura di Claudia Stritof pubblicato su Frizzifrizzi (8 marzo 2016)

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Cinzia Ghigliano, Lei

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Cinzia Ghigliano, Lei

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Cinzia Ghigliano, Lei

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