sorella – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Sun, 14 Feb 2021 15:40:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Strade principali e vie secondarie https://www.cultmag.it/2021/02/12/strada-principale-e-vie-secondarie/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2021/02/12/strada-principale-e-vie-secondarie/#respond Fri, 12 Feb 2021 08:26:55 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6745 Io ero la piccola, Lei la grande. Ci passavamo diciassette mesi di differenza e credevo che non mi avrebbe mai lasciata. Ho avuto una sorella ma, a soli 26 anni, mi è stata strappata via da un mostro famelico.

Se dovessi scrivere un romanzo sulla nostra storia, questo sarebbe l’inizio.

Scriverne non è mai stato facile, nonostante io l’abbia fatto regolarmente, a partire dal 12 marzo di quell’anno maledetto.

Il motivo? Trovare una via di uscita al dolore che mi stava annientando, prima a causa della malattia, poi per la sua assenza.

Ernest Hemingway ha scritto: “non c’è nulla di difficile nella scrittura. Tutto ciò che fai è sederti alla macchina da scrivere e sanguinare”.

Così è! Chi parla di sé, qualunque sia il mezzo di scrittura, “sanguina”!

In questi giorni nel mio personale “museo della memoria” ha fatto la sua comparsa il fotografo Settimio Benedusi con il progetto ES_SENZA del 2015.

Un lavoro che inizia con un autoritratto realizzato dal fotografo poco prima di andare alla messa commemorativa in suffragio del padre, morto otto anni prima.

Ritrattosi insieme alla madre Renza, i due soggetti, metaforicamente “nudi” di fronte ai nostri occhi, affrontano l’assenza; una dualità, questa tra presenza/assenza, che viene vissuta costantemente da coloro che hanno perso la persona amata.

Evidentemente sentita anche dallo stesso Benedusi, la cui fotografia, nata da un’esigenza di espressione personale, si è tradotta in una solida riflessione concettuale.

Settimio Benedusi, ES_SENZA, 2015 ©Settimio Benedusi

Quando qualcuno ci lascia si è ossessionati dalle sue fotografie e Benedusi non è da meno, ma lui non si limita a osservare le immagini con nostalgia o con photos, direbbero i greci, ma le estrapola dall’album di famiglia e le modifica con photoshop, cancellando la figura del padre, prefigurando il luttuoso evento e la solitudine da esso derivata.

Diversi tipi di “scrittura” ci portano a un unico fine: sondare il proprio passato e le proprie emozioni; guardarle in faccia senza aver paura. Sanguinare e reagire.

Il mio cammino è iniziato sette anni fa e dopo il primo scritto, letto in chiesa dalla voce spezzata di mia madre, sprofondai nel divano di casa attanagliando la mente con mille domande.

A un anno di distanza confesso di aver imparato a pronunciare la parola morte; una piccola bugia detta a me stessa probabilmente per sopravvivere alla perdita.

Rivivevo i nostri ricordi d’infanzia e pian piano riaffioravano quelli felici, dimenticando progressivamente la malattia.

Nel giorno del suo 31° compleanno, capivo di essermi smarrita nuovamente e mi appellavo alla sua sicurezza per ritrovare la via da percorrere.

Cercare Lei insistentemente mi ha portata a smarrirmi. Non si può essere un’altra persona, men che meno cancellare il passato, ma questo lo si può riscrivere; il che non vuol dire falsarlo, ma semplicemente cercare di comprenderne lo svolgimento, stando attenti a non rifugiarsi in esso troppo a lungo, perché si rischia di cadere in un oblio profondo, come è accaduto a me.

Che non fosse ancora tutto lineare nel mio percorso, risulta chiaro dallo scritto quattro anni senza te…, quando riemergeva in me la paura della malattia e cinque anni dopo mi sentivo impaurita come una moleca senza guscio.

Probabilmente Freud avrebbe definito questo ripresentarsi degli eventi traumatici una “coazione a ripetere” che mi ha impedito di prendere coscienza con trasparenza della situazione e che evidentemente mi destabilizzava.

Settimio Benedusi, ES_SENZA, 2015 ©Settimio Benedusi

Così, sei anni dopo, facevo di nuovo i conti con la malattia, motivo che mi ha convinta a pubblicare le uniche fotografie superstiti del nostro ultimo anno insieme.

L’energia liberata in tutti questi anni mi aveva stimolata e desideravo mettere ordine al caos; un lavoro che si è svolto in modo lento e graduale, con tanto dispendio di energia fisica e mentale.

Così l’anno scorso, di fronte al tappeto blue di Yves Klein al MAMAC di Nizza, capivo che era ormai giunto il tempo di iniziare a rileggere ciò che avevo scritto.

In questi anni più scrivevo e più “sanguinavo”, ma al tempo stesso più cercavo di rielaborare verbalmente e grammaticalmente le frasi sconnesse e troppo viscerali, più la comprensione giungeva, trovando quel distacco dall’emotività totalizzante e autodistruttiva. Un distacco tra l’Io narrante e l’Io vivente che altro non è che un modo per sopravvivere ai propri pensieri con lucidità, cercando di far cadere ogni maschera e illusione.

Nell’ultimo anno credo di aver preso coscienza sulla meta da raggiungere, dico “credo” perché ancora mi trovo nelle vie secondarie alla ricerca della via maestra da percorrere con sicurezza. Sento che non è ancora il momento di scrivere la parola fine al racconto del mio passato; ma ci siamo quasi.

Prima o poi, arriverà il momento in cui godere a piene mani dei piccoli momenti di felicità. Forse è una vana speranza, forse mi sentirò per sempre a metà. Queste sono altre domande destinate a restare senza risposta… ma il fatto che ormai io non me le ponga più con tanta insistenza, qualcosa vorrà dire.

Persa tra mille ricordi, parole e fotografie, ecco che anche oggi mi sono ritrovata nel mio Museo, rifugio e salvezza dell’anima.

Mari, sempre nel mio cuore: mia carezza, mia forza, mio coraggio. Come ogni anno, stasera brinderò a te mia dolce sister.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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Il giorno del tuo 34° compleanno https://www.cultmag.it/2020/09/13/il-giorno-del-tuo-34-compleanno/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/09/13/il-giorno-del-tuo-34-compleanno/#comments Sun, 13 Sep 2020 14:18:46 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6709 Esattamente un anno fa iniziavo lo scritto dedicato a Mari con una “congiunzione”; elemento grammaticale di unione tra passato e presente, in vista di un futuro che all’ora mi era sconosciuto.

Questo anno è trascorso e, dopo molti mesi, sappiamo essere stato un anno denso per tutti, colmo di incertezze e insicurezze. Un anno di progetti saltati, di altri creati, di vite da riscrivere, di parentesi da chiudere. Un anno di esigenze sorte, di dubbi instillati e di intense emozioni vissute.

Un anno che – visti gli ultimi avvenimenti – è assolutamente da portare a termine.

Settembre non è il mio mese portafortuna, non credo lo sia mai stato, ma lo amo, per la calma che questo dona allo spirito, per i profumi che accompagnano i pomeriggi di fine estate e le serate passate con il primo fresco autunnale.

Settembre per me è un mese un po’ ballerino, denso di ricordi e di concentrazione; il mio spartiacque emozionale, anche perché di solito significava partire e allontanarmi dalla mia famiglia per andare “su”. Oggi, invece, ho deciso di andare con calma, di fermarmi e riflettere.

Ciò che ho notato in questi giorni, riguardando le fotografie di quando eravamo piccole Mari e io, come, crescendo, fossimo rimaste caratterialmente uguali.

Io sempre pasticciona e mai in posa nelle fotografie, lei sempre impeccabile, sorridente e fotogenica.

Alle feste io mi divertivo arrampicandomi sugli alberi, come ancor oggi mi piace girovagare nella natura, lei invece prendeva il microfono cantava e ballava, come sempre. Ero sempre io a seguirla e lei molte volte si infastidiva essendo la sorella più grande.

Ma forse forse… era proprio questo il nostro bello.

Nell’ultimo periodo sto riflettendo molto sul presente e, le infinite elucubrazioni mentali, mi hanno spinta a pormi delle domande su come ho affrontato la sua perdita e come ho cercato di colmare la sua assenza.

Ho scritto tanto di lei, di noi… dei vari momenti affrontati: il dolore indelebile della malattia per molti anni e poi, pian piano, il sorgere di bellissimi ricordi vissuti insieme.

Mi sono accorta anche di averla cercata a un ritmo frenetico nelle altre persone, sperando di trovare all’esterno un legame come il nostro, speranza vanificata perché impossibile sostituire l’amore di una sorella o l’appoggio che lei poteva darmi in determinate situazioni, conoscendo ogni mia piccola titubanza o incertezza; ma probabilmente la cosa più grave è che ho cercato lei in me come un tornado impazzito.

Una continua ricerca che mi ha portata a convivere per molto tempo con una persona diversa da quella bambinetta dispettosa che si agita e scalpita all’interno di me.

Eravamo due parti diverse di un meraviglioso universo e ci compenetravamo per le nostre differenze. La cosa più complicata sta proprio in questo: ritrovare l’equilibrio da soli è difficile, ma è l’unica via per mantenere viva la propria essenza e salvare la propria unica meravigliosa esistenza.

Chi sono? Cosa farò? Qual’è il mio posto e con chi? Domande che mi hanno ossessionata per troppo tempo e che ora mi spingono a sostituire quella congiunzione con cui iniziai lo scritto dell’anno scorso, con una pausa, intensa in senso musicale, come un preciso momento di silenzio.

Ogni mia decisione avrà una conseguenza e di questo ne sono consapevole, ne sono stata sempre consapevole, perché l’unica cosa che non vorrei nella mia vita, sono i rimpianti.

Il passato, il modo in cui siamo cresciuti, le amicizie e le paure che nel corso degli anni si sono insediate in noi, velatamente agiscono e ci presentano il conto, che sia esso positivo o negativo. Più rifletto e più comprendo che ho sempre amato sorprendere e amo essere sorpresa, anche perché – ormai è una certezza – ogni volta in cui ho smesso di sorprendermi tutto è andato storto.

Qualcosa cambia e capisci che l’aria da assaporare è altra, che può esserci molto di più da pretendere da se stessi e anche dagli altri per stare bene.

Probabilmente sta qui il segreto: essere consapevoli, creare le proprie immagini del desiderio e immergersi in esse affinché la famosa legge d’attrazione si attui. Più facile a dirsi, che a farsi, ma da quel poco che ho capito in questa strana vita è che l’accettazione è il punto di partenza per scrivere nuove pagine di vita. 

Alcune volte la vita sembra sfuggire e allora è proprio quello il momento di prendersi una pausa per respirare e poi continuare il proprio tragitto.

Y. Klein, Senza titolo monocromo blu (IKB 3), 1960 © Adagp, Paris

Io l’ho capito poco tempo fa al museo di arte contemporanea di Nizza, quando mi sono trovata di fronte al tappeto blu di Yves Klein, un’opera che mi ha donato grade tranquillità e una strana sensazione di fluidità nel pensiero come antidoto all’insopportabile pesantezza della mente. 

Osservando quel blu oltremare ho sentito l’esigenza di afferrare il mio tempo, entrare in contatto con me stessa, controllare i pensieri assordanti e librarli nel vuoto.

Una potenza che invade l’Universo, sia quello fisico che quello mentale, questo è l’International Blu Klein, «la più perfetta espressione del blu», sintesi tra cielo e terra.

Klein non trovandolo pronto sul mercato dovette fermarsi, sperimentare e creare tale essenza cromatica. Un duro lavoro di ricerca, non facile certo, ma volto a creare la propria personale meraviglia.

Un concetto non così banale, soprattutto dopo il periodo denso che tutti abbiamo affrontato, perché il solo che ci consente di prenderci il tempo necessario per comprendere la vibrazione che ci ha percorso violentemente negli ultimi mesi.

Klein scriveva: «ora voglio andare oltre l’arte – oltre la sensibilità – oltre la vita. Voglio andare nel vuoto: la mia vita dovrebbe essere come la mia sinfonia del 1949, una nota continua, liberata dall’inizio alla fine, legata ed eterna al tempo stesso perché essa non ha inizio né fine… Voglio morire e voglio che si dica di me: Ha vissuto perciò vive».

Mari ha vissuto e io continuo a farlo. Anche quando sapeva che non ce l’avrebbe fatta, lei ha lottato. Io non sono lei, non lo sono mai stata, ma ci siamo sempre compenetrate e questa è stata la nostra forza ed è la mia.

Per molto tempo ho creduto di dover trovare una me che probabilmente non è mai esistita e se non tutte le cose giungono per casualità, in questi miei ultimi mesi una poesia scritta dalla mia bisnonna, Maria Macrì Lucà, mi è venuta in soccorso.

Sorella che taci e sorridi

che giaci

tra fiori odorosi di zagara bianchi,

con piccole mani,

congiunte sul cuore […]

tu senti sorella, il mio pianto,

Tu senti il mio canto!

Sorella, è già sera

per il cuore che non ebbe mattino!

Passò la bufera

sul dolce giardino della mia giovinezza

e tutto travolse, infranse, schiacciò […]

E allora sorella, tu sola sentisti

che tetro terrore mi colse,

che cupo silenzio m’avvolse!

Nel buio, nel fango, prostrata,

inutile cosa restai […]

e buio era il cuore e il pensiero […]

E allora, sorella che giaci,

tra fiori odorosi,

parlasti, con voce lontana, velata

ma chiara al cuore,

dicesti: “Sorella,

asciuga il tuo pianto!

Detergi le piaghe!

Sorridi! Cammina!

Sorella, la vita è un’istante

che passa veloce:

Si ferma, Si tace,

e viene, Sorella, nei Cieli

la Pace!”

Tutto si acquieterà.

La mia bisnonna, così come coloro che hanno amato e poi perso, conoscono quanto sia dura la strada per risorgere; basta fermarsi un attimo, darsi il tempo per riflettere e “impregnarsi con la più perfetta forma del blu”, per poi osservare con chiarezza pensieri e sentimenti.

Si deve andare avanti, questo può essere un percorso più o meno lungo, ma si deve fare, per non dimenticare chi si era ed essere se stessi con consapevolezza.

Buon trentaquattresimo compleanno, mia dolce sister… oggi, come ogni anno, brinderò a te. 

***

Testo ©di Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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La fotografia del ricordo. Sei anni senza te. https://www.cultmag.it/2020/02/12/la-fotografia-del-ricordo-sei-anni-senza-te/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2020/02/12/la-fotografia-del-ricordo-sei-anni-senza-te/#comments Wed, 12 Feb 2020 07:12:12 +0000 https://www.cultmag.it/?p=6501 Eccoci giunti al sesto anno… il sesto della mia vita senza Mari.

Sei anni dal giorno in cui quel maledetto mostro l’ha portata via da noi. Io avevo 26 anni, lei 27… e tra qualche giorno ne compirò 32. Strana questa esistenza!

Quest’anno ho deciso di parlare di lei attraverso una delle mie passioni più grandi: la fotografia, poiché, ancor oggi, sono tante le persone che mi chiedono perché ho smesso di fotografare.

Alla domanda, non è mai seguita una risposta. Un giorno della mia vita ho mollato… No, non è questa la verità.

Il mio aver riposto la reflex nell’armadio è stata una decisione nata in seguito a un progetto, che all’inizio non si configurava come tale ma che mio malgrado lo è diventato.

All’epoca scattavo giornalmente. Mi truccavo, impersonavo altri soggetti, guardavo negli occhi le persone e chiedevo loro di poterle fotografare; l’unico momento in cui non volevo scattare era quando “andava fatto”: feste, cene, compleanni. La responsabilità, in quel caso, passava a mia sorella.

Un giorno ricevetti una telefonata: «devi tornare a casa, Mari sta male. Stiamo andando all’ospedale di Reggio Calabria».

Impaurita e senza altre informazioni, prendo la macchina fotografa e una borsa con due vestiti, mi fiondo sul primo treno e inizio la mia discesa verso Rosarno.

Non avendo la giusta concentrazione per leggere e né la voglia di riposare, passavo il tempo guardando dal finestrino, ascoltando musica e ogni tanto passeggiavo nei vagoni claustrofobici di Trenitalia.

Ferma, davanti a una delle porte di uscita, scattai. Ancora non sapevo che quella sarebbe stata solo la prima fotografia di una lunga serie del nostro ultimo anno passato insieme. 

Finalmente ero giunta in ospedale. Eravamo lì senza nessuna notizia, in attesa  dei medici. Tra uno scherzo e un pisolino di Mari, arriva il pranzo. In quel preciso momento mi accorgo che aveva poca forza e che quel cucchiaio di plastica tra le sue dita sembrava pesare come un macigno. Non capendo il motivo, scattai una seconda fotografia.

Dopo i primi giorni passati a Reggio, siamo arrivate a Verona e nella città scaligera, io ho continuato a scattare. Prima dell’operazione, dopo l’operazione, la notte accanto a lei, quando ci annoiavamo, il giorno appena mi svegliavo, il pomeriggio in attesa di entrare in ospedale. Ancora durante la chemio, la radio e durante gli infiniti pomeriggi passati nel convitto delle suore.

Io e Mari non avevamo mai smesso di scattare. Lei fotografava me, io lei. Inconsapevolmente era nato un progetto. Volevamo documentare la malattia, volevamo spiegare cosa significasse avere un gliobliostama IV grado e cosa volessero dire chemio e radio. Lo facevamo per noi ed era una continua e dolorosa scoperta che lei viveva in prima persona, io osservandola, parlandoci e vedendo ogni suo cedimento.

Mia sorella era una cazzuta e nonostante la malattia ha continuato a svolgere la sua vita: studiava per diventare notaio, si è laureata, andava in palestra, gioiva, rideva e – a parte l’esser passate alla birra analcolica – cercava di svolgere una vita il più normale possibile.

Non sapevamo quale sarebbe stata l’ultima fotografia, né quando questo sarebbe avvenuto, anche se a un certo punto dovetti fare i conti con la realtà e scattare l’immagine che nessuno vorrebbe conservare nella propria memoria. Io lo feci perché ne avevo bisogno.

Inconsapevolmente, dopo la morte di Mari, ho continuato a scattare ossessivamente, non la vita nel suo scorrere – essendo diventata sostanzialmente un ghiro – ma la mia attenzione era andata verso un oggetto, che ogni giorno stava lì a ricordarmi che lei non c’era più: il manifesto mortuario.

Era affisso sulla cassettina dell’elettricità nella strada parallela al mio portone di casa. Nel tempo quel manifesto ha iniziato a svanire, a logorarsi, fino a quando qualcuno non lo ha strappato. Evidente non ero l’unica persona a cui quel manifesto faceva male, solo dopo scoprì essere stata mia nonna.

Innumerevoli giorni (mesi) di divano dopo, torno all’università e durante quel maledetto viaggio in treno succede l’irreparabile: rubano la mia valigia con la memoria esterna e il computer. Non avevo più nulla se non rari file che avevo spostato su dropbox.

Il viaggio a Lourdes. ©Claudia Stritof.

Eccoci giunti al momento in cui ho ufficialmente posato la mia reflex nella sua custodia e nascosta nell’angolo più buio del mio armadio.

Qualche tempo dopo, accade di nuovo qualcosa e senza che io me ne rendessi conto incomincio un nuovo progetto con l’’instantanea appena regalatami da Cristiano.

Da quel giorno ho iniziato a documentare la mia vita con l’intenzione di ricordare giorno per giorno gli avvenimenti, associandoli a un testo, affinché mi ricordassero chi ero e cosa stavo diventando. Era nato il progetto 365, che poi è durato tre anni della mia vita e a cui ho posto fine quest’anno: il 31 dicembre 2019.

La perdita della persona amata – una sorella, una figlia, un marito o una moglie – è qualcosa che non si riesce a comprendere e che mai dovrebbe essere esperito.

Ci si sente a metà, come se qualcuno ti avesse portato via una parte di cuore; ma ci si deve rialzare. Io grazie a mia madre – donna coraggiosa, mia fonte d’ispirazione e mio modello d’amore -, alla mia famiglia e alle molte persone che mi sono state vicine, ci sono riuscita. Non è stato semplice e qualche volte ricasco nel mio pessimismo universale, ma non oggi, perché la mia voglia di prendere a morsi questa vita è tanta perché, dopo sei anni e innumerevoli peripezie, ho imparato qualcosina in più dalla vita.

Ora tutto sta mutando e se ho una paura matta dei prossimi mesi, non vedo l’ora di iniziare a viverli. Non so se sto prendendo le decisioni giuste, non so quale sia la decisione giusta, ma è giusto seguire ciò che al momento ci rende felici. A rendermi felice è poter scrivere di fotografia al momento, così come alcune persone e sento che il mio volermi bene, fa bene anche a chi mi sta intorno perché provano le mie emozioni, così come vivono le mie gastriti.

Wadsworth Longfellow scrisse: «le feste più sacre sono quelle che celebriamo in silenzio e solitudine. Sono gli anniversari segreti del cuore, quando il fiume dei sentimenti rompe gli argini».

Oggi certamente non è una festa, ma una ricorrenza, quella dell’ultimo bacio con mia sorella, e ho voluto tramutare questo “anniversario del cuore”, in una riflessione, cercando di rompere quelle barriere mentali che mi costringono all’immobilità, alla paura e al dolore asfissiante che provo dentro. Perché si prova purtroppo e oggi, come ogni anno, sento di volerlo condividere con chi amo.

Condividiamo questo dolore con mia madre e, con il tempo, ho scoperto con molte altre persone, che la loro esperienza mi hanno raccontato e da cui sono uscita fortificata. Quello che ho capito è che guardare il dolore in faccia fa male, ma dobbiamo sempre ricordare di aver ereditato un miracoloso destino che, aperte parentesi avrebbe potuto non essere così bastardo, ma essendolo stato, non ci deve far dimenticare la grinta, la passione, la forza che abbiamo compreso di avere, seppur celata in qualche meandro del nostro cuore.

I miei cuori. ©Claudia Stritof.

Mari ha amato la vita più di ogni altra cosa, celebrandola con la massima intensità in ogni suo giorno di vita, io sono sempre stata un pò “bradipo”, ma ciò non toglie che devo dire grazie, perché ho amato e amo, ho anche perso tanto e ho sofferto, ma poi mi sono sempre rialzata.

È difficile venire a patti con se stessi e, alcune volte, si pensa di non aver meritato questa vita, ma non è vero. Ultimamente mi hanno detto «devi vivere nelle infinite possibilità», non pensare ai “non” e ai “ma”. Pensa che ci riuscirai, provaci e ti sorprenderai. Solo così si riuscirà a mutare il proprio punto di vista sul mondo.

In un articolo letto pochi giorni fa, la psicologa Marie Laure Colonna, definiva i fratelli come un solo essere umano diviso a metà. Un’identità molteplice che si manifesta attraverso il più nobile dei sentimenti: l’amore che non svanirà mai.

Dopo sei anni, posso dire di aver imparato a gestire alcuni pensieri, ma la voglia di poter parlare con lei, di raccontarle le mie giornate e condividere la mia vita con lei non è mutata. Ho piuttosto imparato a convivere con il ricordo e vivere del suo amore, come di quello che mi circonda. Come disse, Susan Sontag, nel libro Davanti al dolore degli altri, «è la passività che ottunde i sentimenti», sta a noi rinnovarli con il dono dell’emozione, della condivisione e con la voglia di star bene “qui e ora”.

Come ogni anno, stasera con un negroni brinderò a te mia dolce sister. Sempre nei mie pensieri e nella mia vita.

Testo e fotografie di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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https://www.cultmag.it/2020/02/12/la-fotografia-del-ricordo-sei-anni-senza-te/feed/ 1 6501
Tre anni senza te… https://www.cultmag.it/2017/02/12/tre-anni-senza-te/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2017/02/12/tre-anni-senza-te/#comments Sun, 12 Feb 2017 09:43:28 +0000 https://www.cultmag.it/?p=4512 3 anni… in alcuni momenti mi sembra un’infinità di tempo come se fossero passati secoli da quel 12 febbraio 2014.

Non scorderò mai il momento in cui è andata via: ero sul terrazzo che parlavo al telefono con il mio migliore amico e ho chiuso la chiamata improvvisamente. Non scorderò la disperazione sul volto di mia madre, né le mani di mio zio che angosciosamente toccavano i miei capelli mentre io accarezzavo la guancia di Mari per l’ultima volta. Non scorderò mai quello che ho provato e che mi è impossibile raccontare perché troppo forte e ancora troppo doloroso per me.

Dopo tre anni concretizzare le parole è difficile perché non so dire cosa sia cambiato, ma io sono diversa e i miei occhi anche. Ne ho avuto la certezza qualche giorno fa quando un’amica ha commentato una mia foto che risale a circa quattro anni fa e che aveva scattato proprio Marinella: «Bonita!! E di più l’occhio ridente». La cosa mi ha fatto riflettere perché questa semplice frase denota una realtà a cui non posso sfuggire: i miei occhi sono diversi e lo saranno per sempre. Come ha detto mia cugina: “non possono essere  gli stessi, e Cla, i tuoi non lo sono già da tanto tempo”.

Da 3 anni vivo a fasi alterne come se ogni tanto dentro di me venisse a mancare la corrente o al contrario fossi in sovraccarico di emozioni.

Fino a qualche tempo fa ero ossessionata dal ricordo della malattia, che purtroppo quando emerge mi allontana dai momenti felici passati insieme a lei. Per fortuna però questi ultimi stanno iniziando a riemergere, anche se al momento sono pochi.

I miei “ricordi felici” sono giunti in un momento banale ed erano anch’essi pensieri che qualcuno giudicherebbe futili e che invece mi hanno fatto sorridere. Piccoli e timidi flashback felici che speri non finiscano mai per poter indugiare nei ricordi di te e lei insieme.

Il ritorno dei miei fragili flashback ha coinciso con il rinascere del mio sorriso. E’ molto strano spiegarlo ma era come se mi fossi persa: ricordavo la malattia e il suo dolore ma non ricordavo Noi felici. Come se la malattia avesse obliato i miei ricordi: le orecchie da renna che indossavamo a Natale, le nostre cene a base di Traminer o Muller, le mille ore che perdeva a farmi i capelli con la piastra, quando mi costringeva a indossare i tacchi e invece quando terrorizzata dalla sua guida pazza mi attaccavo alla maniglia della macchina.

Nella perdita di una persona cara ciò che viene a mancare è la quotidianità, i piccoli momenti di normalità e routine, che in realtà capiamo essere preziosi solo nel momento in cui non li abbiamo più. Ciò che cambia sono le emozioni e i sentimenti. Diventano contrastanti: vorresti essere felice ma non lo sei mai pienamente, hai quel sentimento dentro che fa male e non ci puoi fare nulla.

Banalmente, quando penso alle nostre giornate di shopping, il pensiero mi rende immensamente felice, ma allo stesso tempo, quando poi sono costretta a fare shopping da sola divento triste, perché lei era l’unica che riusciva a farmi comprare dei vestiti che non fossero neri.

Ogni tanto, guardando il nostro divano rosso, ripenso a quando dopo pranzo ci sdraiavamo lì e guardavamo un’infinità di programmi scemi, cosa che ormai mi capita raramente, ed è lì che ti accorgi che quei continui litigi per decidere cosa guardare facevano parte di te e che hai perso la tua parte “diversa” quella che ti faceva essere un pò più lei e che ti influenza positivamente nel tuo modo di essere.

Paulo Coelho in Adulterio scrive: «Che cosa c’è di sbagliato nella routine della quotidianità? A essere sincera, proprio niente. Solo… Solo il terrore segreto che tutto cambi all’improvviso, cogliendomi alla sprovvista» ed è quello che è successo a Noi. Tutto è cambiato improvvisamente e allora pensi che quella quotidianità non era poi così male.

Un pò di tempo fa a Padova mi è capitato di assistere a due scene meravigliose per quanto banali ma che hanno generato in me il ricordo che mi ha fatto sorridere.

Due ragazze – figlie di amici di famiglia – la mattina prima di andare a scuola avevano litigato per dei jeans non prestati. Scese dalla macchina: una camminava avanti e l’altra dietro senza mai parlarsi. La cosa ha suscitato in me tanta tenerezza perché lo stesso succedeva a noi: non si sa per quale ragione i vestiti un giorno venivano prestati con felicità, il giorno dopo invece diventavano motivo di litigio. Le ragazze non sanno che quel momento, benché caratterizzato dal risentimento, è in realtà un momento prezioso del loro vissuto, ed è giusto che non lo sappiano perché rappresenta la loro quotidianità.

Ma la storia delle due sorelle non finisce qui, infatti, il giorno dopo scherzavano e ridevano come se nulla fosse successo, come solo due sorelle possono fare perché si sa «le sorelle non hanno bisogno di parole. Hanno perfezionato un linguaggio di smorfie e sorrisi» che solo loro possono capire. Un legame indissolubile e profondo che cela in se quel pizzico di fanciullezza che solo una sorella può conoscere di te.

In questi tre anni mi sono persa nei miei pensieri, mi sono ritrovata, mi sono ripersa e ritrovata nuovamente. Cerco una strada, cerco di tramutare ciò che ho perso in qualcosa da raccontare agli altri perché è difficile raccontare se stessi quando si è persa una parte del proprio essere.

Credo che a 3 anni di distanza la mia mente sia confusa… che la mia ricerca nel capire perché ci sia successo questo non è mai giunta al termine e ti accorgi anche che la continua ricerca in alcuni momenti ti porta fuori strada. Sei qui ma non sei in nessun luogo e molti dei tuoi momenti ti ritrovi a viverli in solitudine.

Mi è capitato di raccontare la mia storia a persone appena conosciute in un ospedale, in un supermercato, su un treno e a mia volta ascoltare le loro. E’ più facile parlare con chi non si conosce perché non ci sono pregiudizi e paura, semplice partecipazione e onesta apertura dell’anima, probabilmente perché sai che quella persona non la rivedrai mai più.

Riflettendo sulla vita e sul percorso che ognuno di noi compie per giungere al proprio traguardo personale mi è tornato in mente un video dell’artista Giovanna Ricotta dal titolo Fai la cosa giusta.

Fai la cosa giusta… è una metafora che si svolge in tre fasi dell’esistenza in cui l’artista incarna la “moto-geisha-samurai”: la prima fase è la consapevolezza «del dover fare qualcosa», la fase intermedia è caratterizzata dalla “follia” creativa e per ultima la disciplina «che permette di arrivare alla meta compiendo la giusta azione».

In fin dei conti ciò che si deve ricercare nella vita, come nell’arte, è la concentrazione, credere che pensieri e azioni positive possano farci stare bene un domani e che la nostra genuina follia possa realmente farci scoprire la nostra strada. E’ dura, lo so, ma vale la pena provarci, cercare giorno per giorno di ricordare chi siamo stati, con chi lo siamo stati e come eravamo per capire chi stiamo diventando.

Vi lascio con un piccolo frammento di Noi, di Lei. Una conversazione avvenuta tra me e Mari quando già il male che ce l’ha portata via l’aveva aggredita, ma lei forte, bella e tenace non ha mai smesso di sognare. Di poter ricominciare a vivere e di lottare per ciò in cui credeva fermamente.

M: Comunque ieri ultimo esame!!! E da oggi vita nuova… Preparazione intensiva.
C: Bellezza. E io che non riesco a studiare.
M: E mi sento fiduciosa, vincerò presto il concorso. Il cervello mi funziona e sto imparando e studiando un casino di cose!!! Oggi vado anche a tagliare i capelli.
C: Iuuuu. E certo che vinci il concorso. Dobbiamo aprire anche una galleria d’arte.
M: Niente galleria…non ti finanzierò!!!! 😋😋
C: Seeeeee. Come no…

La nostra quotidianità. La sua forza, la nostra vita. Ciao Sister.

***

Testo, pensieri e vita di Claudia Stritof.

MAMbo, Fai la cosa giusta (performance), Giovanna Ricotta – Foto di Marcello-Medici.

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Riposo assordante. https://www.cultmag.it/2016/01/14/riposo-assordante/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2016/01/14/riposo-assordante/#respond Thu, 14 Jan 2016 18:42:28 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1613 Notti insonni passate al tuo capezzale.

Ferma, immobile,

con la testa fasciata da un’aureola bianca macchiata di sangue.

Tubi estranei fuoriescono dalla  tua tempia e dal tuo naso.

Ore incessanti.

Un campanello suona, una luce lampeggia a intervalli regolari,

tutto succede vorticosamente.

Mal di testa! Grando 7.

Ti volti, mi guardi, mi chiedi aiuto.

Ti sorreggo la testa.

Liberati, dolce amore,

liberati dai verdi umori maligni.

Umori e malori.

Urla e fremiti.

Carezze silenziose, campanelli assordanti.

Su e giù per il corridoio.

Liquidi iniettati.

Un riposo breve.

Un riposo stanco.

Una veglia di amore,

 mio tenero angelo.

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Testo e immagini ©Claudia Stritof. All rights reserved.

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Mare cristallino e riflessi nucleari https://www.cultmag.it/2014/06/21/mare-cristallino-e-riflessi-nucleari/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2014/06/21/mare-cristallino-e-riflessi-nucleari/#comments Sat, 21 Jun 2014 17:18:42 +0000 http://claudiastritof.com/?p=995

“Un mondo vivido di luci e di colori, fresco, fragrante, come fu voluto da Dio, nei primordi della creazione. Ed i personaggi che lo popolano sono ancora nudi, inesperti, senza parola. Passano i secoli, le generazioni si susseguono veloci, ma Adamo ed Eva vivono ancora nell’Eden. Nascono, muoiono. Un arco di tempo che racchiude la vita: fanciullezza, vecchiaia. Bonacce e tempeste. Eterne vicende umane; ma le vicende, anche se tragiche, anche se grottesche, si ammantano di luci misteriose, si vestono di stupito candore, diventano poesia per chi sa guardare con occhi attenti”.

Maria Macrì LucàVecchio mondo e vecchia gente, 1969

Le coste calabresi sono state d’ispirazione per poeti, artisti e girovaghi che le hanno amate e lodate per il verde lussureggiante della sua flora, per la fresca brezza marina e il mare blu cobalto. E’ un profondo legame quello che unisce il mare e l’uomo “pisciaro” rispetto a chi nasce altrove. Il mio mare corre sinuoso cristallino e trasparente lungo la costa come se non avesse una fine.

Eterne vicende umane e paesane si svolgono in questa terra, racconti che diventano poesia e racconto negli occhi di chi sà guardare. Quella che vi racconto io è una storia “generazionale”, che va dalla fanciullezza alla vecchiaia, in cui tutti sono coinvolti, una storia reale scritta dall’avidità dei “potenti”.

E allora perchè iniziare con il nostro mare cristallino e trasparente? Semplicemente perchè il nostro mare può arrabbiarsi e allora si increspa con le sue creste schiumose e le onde si infrangono con tutta la loro potenza sulla spiaggia, creando il boato tipico del mare in tempesta.

 © Claudia Stritof.

© Claudia Stritof.

E’ una mare speciale, che molti posti balneari “d’eccellenza” non hanno la fortuna di avere, ma noi con il nostro mare e le nostre coste non sappiamo viverci, forse qualche anno fa si, quando nelle estati afose le strade brulicavano di turisti, ma tutto questo ormai non c’e più. E’ solo un vano ricordo e un eterno rimpianto.

Il mare trasmette sensazioni contrastanti e ad oggi non riesco a guardarlo con gli stessi occhi, come non riesco più a guardare i monti e l’Aspromonte, oppure passare sotto la galleria della Limina e pensare al male che si cela in essi.  Mare e montagna convivono a pochi passi l’uno dall’altro con semplicità e perfezione, ma le nostre bellezze e le nostre peculiarità sono state minate e contaminate, da chi per soldi non ha pensato a cosa sarebbe accaduto venti anni dopo.

Vite spezzate di giovani, ragazzi, ragazze, mamme, papà, nonne, nonni, fratelli e sorelle, nessuno si salva dagli innumerevoli casi tumorali, che giornalmente colpiscono amici e conoscenti. Come un tempo ha scritto Corrado Alvaro: “la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che essere onesti sia inutile”, forse in molti hanno frainteso questa frase e la disonestà si è impadronita generazione dopo generazione delle menti, intaccando chi volente o nolente vive in queste terre “sterminate”.

I viaggi nel nostro mare risalgano a tempi antichi, ma negli ultimi venti anni questi viaggi sono stati segnati da una partenza ma non da una destinazione. Navi perse o meglio “navi a perdere” che hanno solcato i nostri mari e lì hanno “deciso” di affondare.

Le “navi dei veleni” sono uno degli argomenti di cui molto spesso si sente parlare, ma che molto spesso si dimentica. Più guardo il mare e la terra e più mi chiedo: “e se fosse proprio la nostra terra a farci morire?

L’incidenza tumorale in Calabria, e in particolar modo sulla costa jonica è molto alta. Spesso si leggono notizie sui quotidiani locali e nazionali, in cui vengono riportate dichiarazioni di nuovi pentiti che indicano presunti luoghi dove i barili sono stati interrati e/o navi affondate ma indagini serie non vengono fatte. Perchè non si studiano le cause? Perché si ha paura della risposta? Dobbiamo soccombere tutti prima che i mali che qualcuno ha deciso di portare nella nostra terra per il vil denaro vengano scoperti?

Leggere i dati e le previsioni sull’incidenza spaventa. Il mare può nascondere anche questo male? E se questo nostro mare non fosse più puro? Se fosse proprio lui una delle cause che ci porta ad ammalarci? E perchè inquinare il mare? Per cosa? Per soldi? Chi ci pensa alla popolazione? Molte le indagini, molte le inchieste e molti i miei pensieri e la voglia di capire.

Credo che nessuno dovrebbe provare il dolore della perdita e parlando con molte persone ad un certo punto ti rendi conto che sono molte le persone che giornalmente sono colpite nella mia zona da questo male e si rafforza in me l’idea che sia un sintomo di un male collettivo. Un caso dopo l’altro che ad un certo ti porta a chiederti: e a me quando toccherà?

Molte le navi affondate  i motivi che sposso si leggono sono diversi come quello di  incassare i soldi delle assicurazioni, oppure aiutare i “potenti” a smaltire rifiuti che nessuno vorrebbe, di solito radioattivi. Ecco che allora il Sud del mondo viene riscoperto nel suo splendore e il mediterraneo diventa la meta privilegiata per questi viaggi senza meta.

La nave Jolly Rosso arenata sulla spiaggia di Amantea in provincia di Cosenza nel 1994 . ANSA/ FRANCESCO ARENA

La nave Jolly Rosso arenata sulla spiaggia di Amantea in provincia di Cosenza nel 1994 . ANSA/ FRANCESCO ARENA

Alcuni nomi: la nave Aso, affondata il 17 maggio 1979 al largo di Locri. Trasportava solfato ammonico, prodotto di scarto dell’industria chimica. I documenti ufficiali riportano che la nave sarebbe affondata dopo aver colpito un oggetto sommerso. Il 31 ottobre 1986 affonda la nave Mikigan, al suo interno granulato di marmo, che come il cemento, scherma la presenza di sostanze tossiche e radioattive, affondato nel mar Tirreno. Il 21 settembre 1987 affonda la nave Rigel. Il processo si è chiuso nel maggio del 1992 inchiodando i responsabili. E’ stato un naufragio doloso e truffa alle assicurazioni. La Rigel partita da Marina di Carrara ha poi fatto meta su altre coste fino al giorno in cui venne affondata a Capo Spartivento. Nessun S.O.S lanciato dalla nave, i resoconti sono confusi, ciò che destò l’interesse gli inquirenti fu un’intercettazione telefonica in cui veniva menzionato un carico contenente “merda”. Il 9 dicembre 1988  affonda la Four Star I in un luogo non precisato nello jonio meridionale. Il 14 dicembre 1990 la Jolly Rosso, della società di Ignazio Messina, si arenò ad Amantea (CS), l’inabissamento non riuscì. La nave è stata coinvolta in una lunga inchiesta e che nonostante sia stata archiviata nel 2009, la vicenda è stata collegata all’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, sullo smaltimento di rifiuti radioattivi.

Il giornalista Claudio Cordova afferma: Tante le note “riservate”. La prima è del 17 novembre 1992, allorquando gli 007 del Centro di Reggio Calabria segnalano come i fratelli Cesare e Marcello Cordì, all’epoca latitanti, avrebbero gestito lo smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi provenienti da depositi del Nord e Centro Italia, sotterrandoli lungo i canali scavati per la posa in opera di tubi per metanodotti nel Comune di Serrata, in provincia di Reggio Calabria |…| Agli atti d’archivio, però, vi sono anche le indagini per la cattura del super latitante Giuseppe Morabito, il “Tiradritto” di Africo, paese della Locride. E’ il 1994, Morabito verrà arrestato solo dieci anni dopo, ma già in quell’occasione i Servizi segnalano che il latitante, in cambio di una partita di armi, avrebbe concesso l’autorizzazione a far scaricare, nella zona di Africo, un non meglio precisato quantitativo di scorie tossiche e, presumibilmente, anche radioattive, trasportate tramite autotreni dalla Germania. Ma tutto questo non basta, Africo dopo tutto è lontana all’incirca mezz’ora dal mio paese, e quindi non stupiamoci se anche noi siamo rimasti indenni a discariche abusive di materiale tossico, serve solo il tempo che il male emerga dalla terra e nella provincia di Reggio Calabria, i luoghi dove si trovano le discariche, per la maggior parte grotte, sono: Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno (Cz), Stilo, Gioiosa Jonica, Fabrizia (Cz).

Natale de Grazia

Natale de Grazia

Per chi non è di qui non conoscerà questi paesi, ma sono tutti molto vicini e invece chi vi abita li conoscerà uno per uno, perché vi è nato, perché ci sono gli amici o parenti, perché ha festeggiato una pasquetta, o semplicemente ci lavora o lo visita.

Forse troppo nozionismo il mio, forse è solamente un elenco di “carrette” e di carte, ma chi studia ciò che sta avvenendo nel nostro paese, c’e, esiste, sono persone che si pongono domande e visto che le risposte non vengono date da chi di dovere, le cercano da soli. Io le domande me le pongo e credo che sia giusto condividerle, per la nostra salute, anche se ormai forse è stata intaccata, e quindi credo sia giusto farlo per chi verrà. Ogni anno, vedo “la mia terra” peggiorare, e tutto questo a causa dei suoi stessi abitanti, a causa di chi dall’alto ha deciso di non prendersi cura di Lei come di una mamma e che non la culla come una figlia da far crescere nel modo più genuino possibile.

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FURTO SU FRECCIAROSSA 9540 https://www.cultmag.it/2014/04/26/furto-su-frecciarossa-9540/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2014/04/26/furto-su-frecciarossa-9540/#comments Sat, 26 Apr 2014 13:53:26 +0000 http://claudiastritof.com/?p=1076

Vi racconto una storia, la storia infinita segnata da quella che qualcuno definirebbe “sfiga”…

Ieri sul treno 9540 mi è stato rubato lo zaino. Il presunto ladro, da quello che hanno visto i testimoni, (e c’è da chiedersi: perché non l’hanno fermato? Non si è capito) indossava un bomber arancione, un cappellino blu con una scritta e presumibilmente era un alcolista. Alcolista o meno sta di fatto che sto tizio salito a Roma Termini ha preso il mio zaino con dentro un pc Sony Vaio, gioielli e vestiti ed è scappato via, scendendo a Roma Tiburtina.

Purtroppo come hanno detto i carabinieri sia di Roma che di Bologna: non perdere la speranza.

La speranza mi è stata strappata. Forse troppa distrazione. Ho pensato anche di essere stupida ma io nei viaggi sto sempre attenta, di solito controllo. Ma evidentemente questo viaggio che non avrei voluto neanche intraprendere, era destinato a diventare un incubo.

Perché le persone non lo hanno fermato? Non si sa.

Potevo stare attenta, non dormire, non leggere e non avere la mente tra le nuvole? Sicuramente, ma ciò che mi sta insegnando la vita è di non fidarsi di nessuno.

Gli uomini fanno del male agli altri uomini e gli uomini. Mi hanno detto di sperare che il tizio si penta e me lo restituisca. Oppure che spargendo la voce si trovi.

Ma io purtroppo la speranza l’ho persa molto tempo fa. All’incirca due mesi fa.

Ho sperato che mia sorella si salvasse dal quel maledetto tumore. E perché vi parlo di questo nel post di un furto? Perché dentro quel maledetto pc, c’era la mia memoria con lei, le nostre foto, i miei scritti e i miei pensieri. Non so se qualcuno o se il tizio che comprerà il mio pc leggerà mai queste parole. Mi ha strappato la memoria e i ricordi. Il mio hard disk si era rotto e l’avrei comprato arrivata a Bologna, ma il tempo non c’e stato. Non c’e mai tempo.

Sembra un film della sfiga, ma in realtà è la mia vita che ultimamente non va bene. Tanti amici si sono mobilitati subito andando alla stazione a cercare lo zaino e tanti si sono mobilitati con amicizie. Questo si fa sentire amati e fa pensare che qualche bella persona esiste. Purtroppo ora come ora non ho un giudizio positivo sulla vita e sul mondo. Non mi sono arrabbiata, ma ho ceduto, i nervi che avevo tenuto ben saldi fino a questo momento sono collassati e come una bambina piango, perché non è giusto.

Coincidenza: mia sorella mi chiamava ogni giorno quando uscivo di casa per andare a tirocinio, all’università o altro e avevo portato il suo zaino per uscire con quello e  sentirla vicina. Lo zaino era quello e dentro c’erano i nostri ricordi.

Se alcune volte la vita non ti vuole bene, allora ti devasta. Come un mio amico ha detto la “fottuta ciliegina sulla fottuta torta della vita”.

Spero nel buon cuore di questa persona, se volete voi romani amici e non appendete o lasciate dei manifestini alle stazione, sperando che quel tizio legga il mio scritto e trovi il coraggio di restituirmi i ricordi. Su Facebook mi trovate: Claudia Stritof . Anche se volete fare dei volantini che lascerete passando da lì.

ZAINO MARRONE, con due o tre stemmi di località di montagna, uno con su scritto LivignO (mia sorella amava la montagna), tre spillette di gruppi musicali, una con su scritto THE BANDITI.

Conteneva il mio pc SONY VAIO n. 542730490001735, GIOIELLI e VESTITI.

A nessuno è permesso distrarsi in questo mondo, né dormire, né pensare. Grazie a tutti per l’amore che costantemente mi dimostrate.

Claudia Stritof.

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Epistemologia della morte https://www.cultmag.it/2014/04/13/epistemologia-della-morte/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2014/04/13/epistemologia-della-morte/#comments Sun, 13 Apr 2014 16:22:45 +0000 http://claudiastritof.com/?p=841 La parola morte è una parole difficile da pronunciare. Solo pochi giorni fa, dopo tanto tempo, sono riuscita a pensarla realmente. E’ stata la prima volta dal giorno del funerale di mia sorella.

Piuttosto dico «è andata via» come se fosse in viaggio e in parte è vero: forse una nuova vita da intraprendere, forse l’inizio, forse la fine del viaggio. Sta di fatto che ancora non l’ho pronunciata, ma il fatto di averla scritta e pensata mi ha fatto riflettere.

Per curiosità sono andata a spulciare la definizione del sostantivo femminile Morte nella Treccani. Una descrizione semplice e scientifica:

“Cessazione delle funzioni vitali nell’uomo, negli animali e in ogni altro organismo vivente o elemento costituito di esso: è in lutto per la m. di un fratello; l’afta epizootica ha causato la m. molti bovini […]. Da un punto di vista biologico, la morte si può considerare come l’estinzione dell’individualità corporea, non tanto dei singoli elementi che la compongono, quanto delle necessarie correlazione tra organi e funzioni.”

Tutto così preciso e lineare, in pratica l’epistemologia della morte. E’ una cessazione dell’individualità corporea, e fin qui tutto chiaro, il corpo muore perchè le sue funzioni vitali cessano. Ma allora mi sorge una domanda: perchè è così difficile pronunciare questa parola?

Quando si entra in contatto con la morte, dire questa semplice parola diventa uno scoglio insormontabile. Le teorie sul dualismo anima e corpo sono molteplici e risalgono all’alba dei tempi.

Tante teorie, tante perdite e tante riflessioni sono state fatte nel corso dei secoli. Nel mio intimo ho sempre pensato alla morte e come questa fosse presente nella nostra vita. Fin da piccola (all’epoca ero anche una darkettona pensierosa e borchiata) ho riflettuto su di essa ma quando il Tristo Mietitore sopraggiunge con il suo manto nero è sempre inaspettata, a maggior ragione quando essa è prematura.

Allora come si affronta? Come si supera il dolore? Come si trovano le risposte a domande universali? Come si placano i pensieri? Cercando in un blog ho trovato un altro paranoico che come me che si poneva  domande sulla morte; un ragazzo al suo interessante scritto ha risposto: «Prima di tutto, scialla! E viviti la vita». Forse ha ragione l’anonimo ragazzo, viviamola così, con spensieratezza… espresso con un neologismo alquanto odioso ma che esprime bene il concetto che ognuno di noi dovrebbe ricordare sempre.

Secondo me, l’unica risposta che ci può essere è la riflessione e questa è sopraggiunta in me quando sono andata con un mio amico, Giuseppe, in un sito archeologico non distante dal mio paese, agli scavi del tempio dorico di Kaulon a Monasterace. All’inizio eravamo un pò increduli dell’erbacce e da come si debba giungere al sito attraversando la statale lasciando la macchina sul ciglio della strada ma nonostante queste incoerenze della terra in cui sono nata, è stata una bella emozione. Abbiamo scherzato e fatto qualche deduzione da finti-archeologi e ad un certo punto, arrivato il momento sigaretta, mi sono realmente voltata ad osservare il mare. All’improvviso mi ha colta una sensazione che non mi capitava da un pò di tempo: di tranquillità e di immobilità atemporale, non quella vissuta fino ad oggi con la paura di quello che sarebbe successo, ma di immersione nella storia senza tempo, il che potrebbe sembrare una contraddizione, ma è stata proprio quella la sensazione.

Il tempio si trova a 100 m. dal mare su un’altura e mettendosi di spalle a quella che un tempo era l’entrata del luogo sacro, si ha la visione dello Jonio in tutto il suo splendore, nonostante quel giorno la giornata fosse uggiosa. Lì ho iniziato a pensare alla storia e di come nel V sec. a.C questa terra era diversa, non c’era la statale ma solo quel magnifico tempio che si stagliava con il suo candore sul mare, doveva essere una  meravigliosa visione per chi giungeva con la nave a Punta Stilo.

In quel momento per la prima volta ho pensato alla parola morte, mi è sorta così dal nulla. Forse perchè ero tranquilla, forse perchè avevo la mente sgombra da altri pensieri o forse perchè ho pensato alla storia che va avanti e al tempo che mai si ferma.

Nell’ultimo periodo sono stata immobile, solo da qualche giorno ho iniziato a capire. Molti i consigli e le chiacchierate con amici in questo strano periodo; una sera Natty, un amico passato dal mio paese perchè in tour con la band, mi ha fatto capire che il tempo scorreva e che io mi ero immobilizzata nei pensieri, trascurando la mia anima e il mio corpo.

Anima e corpo una dualità inscindibile, ma fino ad un certo punto. Sul dove vada l’anima dopo la morte nessuno lo sa. Ognuno ha la sua fede e le sue credenze ma nel presente queste sono legate in modo univoco. Io stavo trascurando “l’anima vivente”, e così come facevo io anche molti altri lo fanno, persone a cui succedono cose inaspettate e all’improvviso ci si dimentica di vivere e si dimenticano le proprie passioni.

Ancora non ho raccolto i miei pensieri ma da qualche giorno sperimento, faccio cose nuove: cose che prima per stanchezza mentale non facevo.

Tiziano Terzani ci spiega la vita attraverso lo yin e lo yang. L’universo e l’armonia degli opposti sono la vita, la regolano e dovremmo sempre ricordarlo, ogni tanto si dimentica, ma leggere e vivere ce lo fa ricordare.

“Non c’e acqua senza fuoco, non c’e maschio senza femmina, non c’e notte senza giorno, non c’e sole senza luna, non c’e bene senza male e questo simbolo dello yin e dello yang è perfetto, perchè il bianco e il nero si abbracciano e all’interno del nero c’e un punto bianco e all’interno del bianco c’e un punto nero. Questa è una faccenda sulla quale non riflettiamo mai, noi che perseguiamo il piacere in ogni modo, non c’e piacere senza sofferenza e non c’e sofferenza senza piacere. Solo quando capisci questo godi del piacere e accetti la sofferenza”.

Queste parole molti le hanno lette, molti le hanno citate, molti non le conoscono ma sono una spiegazione efficace alla definizione di vita. Purtroppo spesso è difficile attuarle perchè il dolore a volte ci fa dimenticare e non vedere il bello e il piacevole. Che sia con una grossa risata o con una sigaretta fumata con un amico di fronte al mare sconfinato o una chiacchierata con un negroni in mano alle due di notte, alcune volte basta poco per lasciarsi andare e rivedere il bello e risentire la propria anima. Non è detto che questo stato duri ma sono piccole sensazioni che accrescono la nostra vita, la sua accettazione e alimentano i nostri sentimenti.

Molti mi chiedono come riesco a confidare i miei pensieri al blog ma la risposta è semplice: perchè credo nella condivisione dei sentimenti e dei pensieri, credo che la vita possa far riflettere e credo che le riflessioni egoisticamente mi facciano bene perchè ho avuto sempre l’esigenza di comunicare ciò che mi passava per la testa. Credo che la scrittura come l’arte ci insegni a capire per quel poco che è possibile la vita e i comportamenti umani. Il peso da portare sulle spalle di ognuno di noi cambia da persona a persona, ognuno ha i propri scheletri, i propri ricordi e i propri pensieri, l’importante è che con il tempo si impari a convivere con essi e il loro peso non ci schiacci e non ci tolga il respiro per vivere.

Le domande iniziali rimangono… e a molte di queste non c’e risposta. Ma alla morte si risponde con la vita, come fosse un calcolo matematico dai risultati impossibili da prevedere. L’arte alcune volte non viene capita ma basta aprire gli occhi e stare in silenzio per poco tempo per lasciarsi trasportare da ciò che essa vuole comunicarci, cogliendone gli infiniti insegnamenti.

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Marina Abramovic, Carrying the Skeleton" (2008).

Marina Abramovic, Carrying the Skeleton” (2008).

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Based on a true story https://www.cultmag.it/2014/03/14/based-on-a-true-story/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2014/03/14/based-on-a-true-story/#respond Fri, 14 Mar 2014 07:16:32 +0000 http://claudiastritof.com/?p=764 Un anno di lotta. Un anno in cui il giardino delle suore dove alloggiavamo a Verona era ricoperto da una coltre bianca di neve. Come tanti fermo immagine, il tempo passava: la neve iniziò a sciogliersi e i primi fiori a germogliare timidamente dal terreno. Piccoli fiori che abbiamo visto crescere, giorno dopo giorno. Il tempo scorreva: era giunta l’estate e poi di nuovo l’invernale vento freddo.

I fiori erano ormai appassiti in quel giardino segreto così come il tempo di Mari era ormai giunto al termine.

Il dolore è una ubriacatura colossale. Le sensazioni di un dolore forte sono quelle. Ma nessuno me l’aveva mai detto. Il dolore che si prova quando si è piccoli è diverso. Pian piano si assimila, si abbraccia e si cresce con esso. Ma quando si è grandi si pensa continuamente e alcune volte questi pensieri possono far male come mille stilettate al ventre.

Il dolore è un sentimento che si prova spesso nel corso della vita, dovrebbe rafforzarci e le sofferenze dovrebbero renderci coraggiosi.

Sto cercando di riconquistare questa “forza”, anche se non è semplice. A 26 anni, appena compiuti, un male abominevole ha portato via la mia metà razionale, mia sorella, e tutta la forza che si è avuta fin a quel momento all’improvviso svanisce.

Spesso vengo risucchiata dal divano cercando di pensare ai momenti felici ma ciò che sopraggiunge come un mostro dalle tenebre è il ricordo di un anno di malattia.

Mi dicono che i ricordi felici arriveranno… un pò come avveniva in Peter Pan. Prima o poi quei pensieri ci faranno volare, e forse sarà così, forse le favole non mentono, sono pillole che addolciscono i momenti di tristezza.

Ma ora è difficile. E’ difficile scrivere ciò che si prova in questi momenti. Alterno momenti in cui colta da una fiacca adrenalina faccio ordine, momenti in cui mi butto sul divano, momenti in cui leggo o scrivo. Guardo qualche foto, ma anche quello fa male. Avvicinarsi ai suoi libri, ai suoi vestiti e alla sua camera non se ne parla. Era così bella, ora io invecchierò e lei porterà per sempre il vestito color rubino che le stava d’incanto.

E’ come se vivessi sospesa a mezz’aria, cercando di non farmi troppe domande per paura di darmi delle risposte. Tutte le certezze che avevo prima vacillano. Dicevo: “dopo la morte? Nulla!!”, ora spero che lei non soffra, che non sia sola, che sia con mio padre e che non senta freddo.

“Dove sarà? Ci vedrà? La rivedrò?” Domande a cui nessuno può rispondere. Continui pensieri che assillano la mente. Forse anche lei fluttua come i miei pensieri, cerca una via e un modo per ricominciare.

Avrei tanta voglia di sapere se sta bene. Vorrei sapere se la malattia che l’aveva così tanto trasformata alla fine sia stata finalmente sconfitta e se mia sorella sia tornata la solita sister sorridente e qualche volta un po’ arrabbiata verso il mondo.

Con Mari ho foto da quando sono nata, con lei condividevo gioie, pensieri, litigi da sorella, regali, telefonate lunghissime e messaggi da appena sveglie al mattino presto prima di incominciare a studiare.

E ora? Chi farà tutto questo con me? Chi mi correggerà la tesi prima di inviarla al prof? Chi mi spronerà a non aver paura?

Che strana cosa il dolore… e che strana cosa la perdita.

Quando guardavo il film A time for dancing piangevo sempre quando alla fine leggevo: “basato su una storia vera”. Non sapevo che quella storia sarebbe diventata la nostra. In un anno è successo di tutto. Un anno. Gli anni passano così inutilmente, noi non ci accorgiamo del tempo che scorre, ma lui ci divora. All’improvviso tutto cambia.

Mi ponevo un unica domanda: “Perchè?”. Mi dicevo c’e ancora Speranza. E allora partiamo per Lourdes.

Da quella vasca io non sono uscita asciutta. Ma ho pregato. Mari ci credeva veramente e quegli occhi pieni di tranquillità e speranza, davanti al prete, non potrò mai scordarli. Erano così dolci e pieni di luce. Forse il miracolo era destinato a qualche altro fedele. Noi ci abbiamo creduto. Lei ci ha creduto.

Ora invece continuo a ripetere: “evabbè”. Tutto unito, sospirando. Come se questo fosse il destino che ci attendeva. Così era scritto ma non lo sapevamo. Quello che rimane è una fotografia annerita. Una pellicola esposta alla luce prematuramente e ormai bruciata. Ma non è persa, questo sbaglio del destino può insegnarci a rendere unica quella foto. Forse si deve solo aspettare e scrivere sulla pellicola, graffiarla con segni sinuosi in modo che diventino ricordi cicatrizzati sulla pelle. Un dolore che non si cancella e io voglio fidarmi di chi mi dice che presto queste sensazioni si trasformeranno in altro. Ma fa male. Non devo dimenticare che “è come se fosse qua con me”, ma al momento è una magra consolazione. Lei non c’è e non ci sarà.

In questo periodo ho ricevuto molte parole, lettere e frasi di una dolcezza infinita. Non mi sarei mai aspettata tutto questo amore, ma ogni singola parola, anche la più timida e impaurita, mi ha, e ci ha, dato forza. Storie e ricordi che fanno bene, piccoli graffi che iniziano a scalfire quella superficie così spessa come pietra lavica. Piccole fiammelle d’amore così luminose che a momenti risplendono e ti accarezzano il volto con gentilezza, sperando che prima o poi l’equilibrio si ristabilisca e al dolore subentri la gioia dei ricordi.

Come ho sempre sostenuto l’arte aiuta a farci capire il mondo e i piccoli cambiamenti che avvengono in noi e che spesso sottovalutiamo. Allora la prima opera che mi è venuta è in mente è quella  dell’artista Sam Taylor Wood: A little Death. Descrive perfettamente quello che ho visto in un anno di vita: la trasformazione del corpo, la perdita, la morte. Caravaggio rappresentò diverse vanitas e la mela bacata era il simbolo di morte e caducità ma la Wood attraverso il video fa vedere la decomposizione del corpo, giorno per giorno. Il lento appassire della vita. Immagini forti, colte in un tempo lungo ma concentrate in un breve video, che altro non è che la vita.

Questo scritto nato per me stessa e come sfogo personale, è stato letto da mamma in chiesa per il trigesimo di Mari, abbiamo deciso di condividerlo con tutti coloro che ci hanno mostrato il loro amore, parole sicuramente non felici, ma piene di forza d’amore. Un modo per ringraziare chi prova a donarci il loro amore e ci abbraccia con il pensiero.

Io non sarei mai riuscita a leggerlo. Posso scrivere e scrivere… ma non leggere i miei pensieri. Mamma ha avuto questa grande forza con la mano tremolante e la voce distrutta dal dolore, ma forte e ferma. Un amore infinito.

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