storia – CultMag https://www.cultmag.it Viaggi culturali Sat, 13 Feb 2021 23:19:46 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.6 104600578 Epistemologia della morte https://www.cultmag.it/2014/04/13/epistemologia-della-morte/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2014/04/13/epistemologia-della-morte/#comments Sun, 13 Apr 2014 16:22:45 +0000 http://claudiastritof.com/?p=841 La parola morte è una parole difficile da pronunciare. Solo pochi giorni fa, dopo tanto tempo, sono riuscita a pensarla realmente. E’ stata la prima volta dal giorno del funerale di mia sorella.

Piuttosto dico «è andata via» come se fosse in viaggio e in parte è vero: forse una nuova vita da intraprendere, forse l’inizio, forse la fine del viaggio. Sta di fatto che ancora non l’ho pronunciata, ma il fatto di averla scritta e pensata mi ha fatto riflettere.

Per curiosità sono andata a spulciare la definizione del sostantivo femminile Morte nella Treccani. Una descrizione semplice e scientifica:

“Cessazione delle funzioni vitali nell’uomo, negli animali e in ogni altro organismo vivente o elemento costituito di esso: è in lutto per la m. di un fratello; l’afta epizootica ha causato la m. molti bovini […]. Da un punto di vista biologico, la morte si può considerare come l’estinzione dell’individualità corporea, non tanto dei singoli elementi che la compongono, quanto delle necessarie correlazione tra organi e funzioni.”

Tutto così preciso e lineare, in pratica l’epistemologia della morte. E’ una cessazione dell’individualità corporea, e fin qui tutto chiaro, il corpo muore perchè le sue funzioni vitali cessano. Ma allora mi sorge una domanda: perchè è così difficile pronunciare questa parola?

Quando si entra in contatto con la morte, dire questa semplice parola diventa uno scoglio insormontabile. Le teorie sul dualismo anima e corpo sono molteplici e risalgono all’alba dei tempi.

Tante teorie, tante perdite e tante riflessioni sono state fatte nel corso dei secoli. Nel mio intimo ho sempre pensato alla morte e come questa fosse presente nella nostra vita. Fin da piccola (all’epoca ero anche una darkettona pensierosa e borchiata) ho riflettuto su di essa ma quando il Tristo Mietitore sopraggiunge con il suo manto nero è sempre inaspettata, a maggior ragione quando essa è prematura.

Allora come si affronta? Come si supera il dolore? Come si trovano le risposte a domande universali? Come si placano i pensieri? Cercando in un blog ho trovato un altro paranoico che come me che si poneva  domande sulla morte; un ragazzo al suo interessante scritto ha risposto: «Prima di tutto, scialla! E viviti la vita». Forse ha ragione l’anonimo ragazzo, viviamola così, con spensieratezza… espresso con un neologismo alquanto odioso ma che esprime bene il concetto che ognuno di noi dovrebbe ricordare sempre.

Secondo me, l’unica risposta che ci può essere è la riflessione e questa è sopraggiunta in me quando sono andata con un mio amico, Giuseppe, in un sito archeologico non distante dal mio paese, agli scavi del tempio dorico di Kaulon a Monasterace. All’inizio eravamo un pò increduli dell’erbacce e da come si debba giungere al sito attraversando la statale lasciando la macchina sul ciglio della strada ma nonostante queste incoerenze della terra in cui sono nata, è stata una bella emozione. Abbiamo scherzato e fatto qualche deduzione da finti-archeologi e ad un certo punto, arrivato il momento sigaretta, mi sono realmente voltata ad osservare il mare. All’improvviso mi ha colta una sensazione che non mi capitava da un pò di tempo: di tranquillità e di immobilità atemporale, non quella vissuta fino ad oggi con la paura di quello che sarebbe successo, ma di immersione nella storia senza tempo, il che potrebbe sembrare una contraddizione, ma è stata proprio quella la sensazione.

Il tempio si trova a 100 m. dal mare su un’altura e mettendosi di spalle a quella che un tempo era l’entrata del luogo sacro, si ha la visione dello Jonio in tutto il suo splendore, nonostante quel giorno la giornata fosse uggiosa. Lì ho iniziato a pensare alla storia e di come nel V sec. a.C questa terra era diversa, non c’era la statale ma solo quel magnifico tempio che si stagliava con il suo candore sul mare, doveva essere una  meravigliosa visione per chi giungeva con la nave a Punta Stilo.

In quel momento per la prima volta ho pensato alla parola morte, mi è sorta così dal nulla. Forse perchè ero tranquilla, forse perchè avevo la mente sgombra da altri pensieri o forse perchè ho pensato alla storia che va avanti e al tempo che mai si ferma.

Nell’ultimo periodo sono stata immobile, solo da qualche giorno ho iniziato a capire. Molti i consigli e le chiacchierate con amici in questo strano periodo; una sera Natty, un amico passato dal mio paese perchè in tour con la band, mi ha fatto capire che il tempo scorreva e che io mi ero immobilizzata nei pensieri, trascurando la mia anima e il mio corpo.

Anima e corpo una dualità inscindibile, ma fino ad un certo punto. Sul dove vada l’anima dopo la morte nessuno lo sa. Ognuno ha la sua fede e le sue credenze ma nel presente queste sono legate in modo univoco. Io stavo trascurando “l’anima vivente”, e così come facevo io anche molti altri lo fanno, persone a cui succedono cose inaspettate e all’improvviso ci si dimentica di vivere e si dimenticano le proprie passioni.

Ancora non ho raccolto i miei pensieri ma da qualche giorno sperimento, faccio cose nuove: cose che prima per stanchezza mentale non facevo.

Tiziano Terzani ci spiega la vita attraverso lo yin e lo yang. L’universo e l’armonia degli opposti sono la vita, la regolano e dovremmo sempre ricordarlo, ogni tanto si dimentica, ma leggere e vivere ce lo fa ricordare.

“Non c’e acqua senza fuoco, non c’e maschio senza femmina, non c’e notte senza giorno, non c’e sole senza luna, non c’e bene senza male e questo simbolo dello yin e dello yang è perfetto, perchè il bianco e il nero si abbracciano e all’interno del nero c’e un punto bianco e all’interno del bianco c’e un punto nero. Questa è una faccenda sulla quale non riflettiamo mai, noi che perseguiamo il piacere in ogni modo, non c’e piacere senza sofferenza e non c’e sofferenza senza piacere. Solo quando capisci questo godi del piacere e accetti la sofferenza”.

Queste parole molti le hanno lette, molti le hanno citate, molti non le conoscono ma sono una spiegazione efficace alla definizione di vita. Purtroppo spesso è difficile attuarle perchè il dolore a volte ci fa dimenticare e non vedere il bello e il piacevole. Che sia con una grossa risata o con una sigaretta fumata con un amico di fronte al mare sconfinato o una chiacchierata con un negroni in mano alle due di notte, alcune volte basta poco per lasciarsi andare e rivedere il bello e risentire la propria anima. Non è detto che questo stato duri ma sono piccole sensazioni che accrescono la nostra vita, la sua accettazione e alimentano i nostri sentimenti.

Molti mi chiedono come riesco a confidare i miei pensieri al blog ma la risposta è semplice: perchè credo nella condivisione dei sentimenti e dei pensieri, credo che la vita possa far riflettere e credo che le riflessioni egoisticamente mi facciano bene perchè ho avuto sempre l’esigenza di comunicare ciò che mi passava per la testa. Credo che la scrittura come l’arte ci insegni a capire per quel poco che è possibile la vita e i comportamenti umani. Il peso da portare sulle spalle di ognuno di noi cambia da persona a persona, ognuno ha i propri scheletri, i propri ricordi e i propri pensieri, l’importante è che con il tempo si impari a convivere con essi e il loro peso non ci schiacci e non ci tolga il respiro per vivere.

Le domande iniziali rimangono… e a molte di queste non c’e risposta. Ma alla morte si risponde con la vita, come fosse un calcolo matematico dai risultati impossibili da prevedere. L’arte alcune volte non viene capita ma basta aprire gli occhi e stare in silenzio per poco tempo per lasciarsi trasportare da ciò che essa vuole comunicarci, cogliendone gli infiniti insegnamenti.

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Marina Abramovic, Carrying the Skeleton" (2008).

Marina Abramovic, Carrying the Skeleton” (2008).

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Vite consumate pubblicamente: Nan e Terry https://www.cultmag.it/2014/01/10/vite-consumate-pubblicamente-nan-e-terry/#utm_source=rss&utm_medium=rss https://www.cultmag.it/2014/01/10/vite-consumate-pubblicamente-nan-e-terry/#respond Fri, 10 Jan 2014 19:14:00 +0000 http://claudiastritof.wordpress.com/?p=1131 Tanto tempo fa – quando ho aperto questo blog – l’intenzione era quella di parlare di fotografia e di arte, ma ultimamente, per varie coincidenze e contingenze ho scritto con maggior assiduità della mia vita personale.

Negli ultimi mesi ho scoperto l’importanza del diario pubblico, perché, attraverso questo ho conosciuto persone e condiviso storie e racconti.

A me piace la scrittura e penso che attraverso questa le persone possano avvicinarsi le une alle altre, anche persone sconosciute. E così è stato.

Ci sono opinioni contrastanti sul raccontare i propri sentimenti pubblicamente, ma io personalmente ho sempre pensato che fosse positivo, perché fa riflettere sui sentimenti.

Una volta i diari non erano online, ma cartacei ed esclusivamente personali (si pensi ad Anaïs Nin o a quelli di quando si è piccoli, il nostro scrigno dei ricordi), ma con l’avvento delle nuove tecnologie sono diventati pubblici e “digitali”.

Detto questo, vorrei omaggiare oggi due grandi fotografi che hanno fatto diventare la loro stessa vita oggetto d’arte e del loro corpus un diario pubblico.

La prima è Nan Goldin, pioniera in questo senso, intenta a fotografare tutto ciò che le accadeva con la più assoluta naturalezza.

Se osserviamo i suoi scatti notiamo l’immediatezza con la quale essa si rapporta alla vita, facendo crollare ogni barriere tra la macchina fotografica e i suoi soggetti. Ciò che voleva cogliere era la vita, il suo flusso, così come essa si presentava.

©Nan Goldin

Goldin scatta fin da giovane, ritraendo amici e parenti, ma lo fa in un’epoca in cui ritrarre la propria vita, soprattutto se questa è vissuta al massimo della sua intensità non era poi così banale, né semplice. Sopratutto se si decide che quelle fotografie diventeranno oggetto di mostre e di critica artistica.

Sono gli anni ’70-’80, la piaga dell’AIDS e dell’eroina affliggono la società e ancora non si sa come arginarle; la malattia spezza la vita di giovani anti-eroi poco più che ventenni e Nan si trova immersa completamente in questo mondo.

Un mondo che vive intensamente e che emerge esplicitamente nei suoi scatti.

The Ballad of Sexual Dependency (Aperture Foundation, 1986), oltre a essere un libro meraviglioso, è anche uno slideshow, in cui la Goldin ha racchiuso le fotografie di quegli anni scattate a New York.

Ciò a cui si assiste è la vita della Goldin, un diario intimo caratterizzato dai sentimenti più diversi: paura del futuro, amore, sofferenza, amicizia, depressione, ma anche voglia di vivere.

L’artista stessa afferma: «non ho mai creduto che un solo ritratto possa determinare un soggetto, ma credo in una pluralità di immagini che testimonino la complessità della vita».

Nan racconta il suo mondo e i legami amicali di una vita, con una tale intensità che naturalmente non passano inosservati alla critica; così nel 1996 realizza la prima personale al Whitney Museum di New York, sede in cui presenta un secondo meraviglioso progetto: I’ll be Your Mirror, sull’omosessualità.

Chi ha sempre ammesso il debito verso Nan Goldin è Terry Richardson che più di ogni altro ha saputo sfruttare i social network e la fotografia diaristica per affermarsi come fotografo di fama internazionale.

©Terry Richardson
©Terry Richardson

Di Terry si conosce tutto, grazie al suo lavoro. Se osserviamo le sue immagini, non vi è nessuna differenza tra gli scatti privati e quelli realizzati per la moda: non utilizza una tecnica ricercata e perfetta, ma è caratterizzata da inquadrature casuali e per di più realizzate con qualsiasi mezzo, da una reflex alla fotocamera del cellulare.

Fece scandalo nel 2004 con la pubblicazione del libro Kibosh, che per citare lo studioso Claudio Marra «è una gioiosa reinvenzione della fotografia pornografica, alleggerita da tutti i suoi codici rappresentativi, grazie allo stile “familiare” e antiformalista”».

Un condensato di immagini private che vengono esibite e vissute con assoluta libertà, le quali venivano caricate sul suo photolog Terry Richardson’s Diary, avviato nel 2010.

Diari privati che diventano pubblici, pagine che nascono per essere condivise e che hanno mutato il nostro modo di osservare.

Ciò che una volta era tabù ora è diventato normalità, andando talune volte, oltre ogni limite; ma la condivisione non sempre è negativa, forse perché l’abbiamo assimilata ed è così che iniziamo a conoscere problemi, gioie e dolori che prima non ci erano noti e che invece ora diventano oggetto di discussione e confronto.

Paul Auster diceva: «pensi che a te non succederà mai, che sei l’unica persona al mondo a cui queste cose non succederanno mai e poi, a una a una, cominciano a succederti tutte, esattamente come succedono a tutti gli altri». In Diario d’inverno, Auster racconta la vita di un uomo che va alla ricerca della verità, non verità universali, ma quelle più semplice, spietate e dolorose, quelle che riguardano se stesso e la propria quotidianità.

Testo di ©Claudia Stritof. Tutti i diritti riservati.
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