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Tatuaggi e fotografia: ritratti di una passione.
Marzo 6, 2021

Morto il 30 giugno 2010, Herbert Hoffmann è stato uno dei grandi nomi del tatuaggio e non ha certo bisogno di presentazioni; meno conosciuta è invece la sua attività di fotografo, un lavoro svolto con costanza fino alla fine dei suoi giorni.

Al 2002 risale il suo BilderbuchMenschen – Tätowierte Passionen 1878-1952 (Living Picture Books – Portrait of a Tattooing Passion 1878-1952), libro fotografico edito nel 2002, che contiene più di quattrocento immagini in bianco e nero scattate in oltre trent’anni di onorata carriera.

Sfogliando le pagine di questo meraviglioso libro fotografico si percepisce subito lo spirito indagatore di Hoffmann e la sua bravura come tatuatore, che gli hanno permesso nel tempo di essere riconosciuto come grande artista e, soprattutto, di far accettare un’arte che prima di lui si riteneva disonorevole, sopratutto nella Germania nazionalsocialista, contesto culturale e storico in cui il giovane Hoffmann cresce.

Herbert Hoffmann, Emma und Oskar Manischewski, 1958, Vintage Printe, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Negli scatti da lui realizzati si nota come l’attenzione non vada al dettaglio del tatuaggio, come accade in molte riviste specializzate, ma alle persone, ai loro atteggiamenti e ai loro rapporti.

Ritratti attraverso cui Hoffmann, involontariamente, compie un attento studio antropologico della personalità degli uomini e delle donne che da lui si recavano per farsi tatuare; denotando come l’importante non sia il tatuaggio in sé, ma le storie narrate che si celano dietro di esso e che portano il proprio corpo a diventare una tela dipinta su cui sono impressi i segni d’esistenza.

Herbert Hoffmann, Ulla Hansen, 1968, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Herbert Hoffmann nasce a Stettino nel 1919, città della Pomerania anteriore tedesca. La sua passione verso i tatuaggi nasce molto presto, quando da bambino guardava con meraviglia e stupore i corpi tatuati delle persone che incontrava per strada: solitamente proletari e uomini del popolo, che con fierezza mostravano i propri tatuaggi, nonostante nella Germania nazista fosse proibito tatuarsi, perché simbolo di pericolosità e di marginalità sociale.

Fino al 1939 il giovane Hoffmann lavora come fornaio, attività che sarà costretto a cessare perché viene chiamato alle armi e costretto ad arruolarsi. Dopo essere stato fatto prigioniero dall’Armata Rossa nel ’44, una volta liberato, va ad Amburgo dove decide di farsi tatuare una croce, un’ancora e un cuore, simboli delle virtù teologali, al cui interno è anche un cartiglio con le parole fede, speranza e carità.

È il 1949: per il giovane trentenne il tatuaggio sulla mano destra sarà solo il primo di una lunghissima serie.

Herbert Hoffmann, Wilhelm Wedekämper, 1960, 29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Apprende il mestiere da autodidatta e sperimenta le prime opere su uomini anziani che si affidano alle sue mani ancora inesperte, ma piene di talento.

Nel 1955 ottiene la licenza di tatuatore e apre il suo studio ad Amburgo e, sempre in questo stesso periodo, Hoffmann inizia a scattare con la Rolleiflex.

I tatuaggi oggi sono diventati la normalità: molti i testi dedicati alla sua storia e ancor di più le mostre a loro dedicate: da quella dedicata al tatuatore Marco Manzo, che ha portato i corpi delle sue donne al Maxxi di Roma, oppure Tattoo – Storie sulla pelle al museo, al museo M9 di Mestre, fino a giungere alla più recente Sergei Vasiliev – Russian Criminal Tattoo alla ONO arte contemporanea di Bologna.

C’è stato un un tempo in cui questi segni incisi sulla pelle non erano ben visti dalla società, ma con estrema lucidità e grazie alla sua Rolleiflex, Hoffmann è riuscito a cogliere un vivido ritratto di un mondo rimasto ai margini per fin troppo tempo, narrando così un mondo in continua evoluzione.

Frau Wulkow, ca. 1967,29 x 29cm. Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann.

Come Herbert Hoffmann ha detto: «chi è estraneo al tatuaggio spesso vede solo corpi deturpati o raramente abbelliti da tatuaggi incancellabili che evocano sofferenze fisiche e rischi di infezioni […] ma per chi si tatua non è così. Nessuno si tatua per diventare più brutto, nè per masochismo! Chiunque si tatua, lo fa per dare a se stesso qualcosa di più: per essere più bello, per sentirsi e apparire più forte, più sexy, per dare sfogo a un dolore, un lutto, una gioia, un amore, per scongiurare una paura, un pericolo o per gioco […] Ci si tatua per esprimere i sentimenti più seri e profondi e per quelli più superficiali e frivoli e… perchè no?, per rivendicare il proprio diritto al gioco. Non ho mai incontrato qualcuno che si tatuasse per farsi del male! Spesso i tatuaggi che vediamo per strada non sono proprio bellissimi, questo però dipende dalla disinformazione e dal cattivo gusto dilagante, non da un intento autolesionista. Oggi sono brutti i vestiti, la moda, le automobili, le case, la pittura… e sono brutti molti tatuaggi… solo un’informazione corretta e libera da pregiudizi e luoghi comuni può insegnare a distinguere quelli belli da quelli brutti e aiutare a capire che un bel tatuaggio è un tatuaggio che ti rende più bello…».

Negli uomini del popolo, Hoffmann trova la sua personale fonte di ispirazione, decidendo di farsi guidare da loro verso universi sconosciuti e microcosmi unici, ma tutti talmente importanti da dover essere eternizzati in uno scatto… e questo lo farà fino al 2010, giunto all’età di 90 anni.

Testo  ©Claudia Stritof. All rights reserved
Photo Courtesy GalerieGebr. Lehmann ©Herbert Hoffmann
Articolo del 15/06/2015 aggiornato in data 6 marzo 2021.

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Claudia Stritof
Claudia Stritof, calabrese dal cognome un po' strano. Pensa che la frase “ce lo caghi che sei un artista” tratta da "Le straordinarie avventure di Penthotal" di Pazienza sia geniale, eppure studia arte fin da piccola. Ama la fotografia, collabora con una galleria d'arte di Bologna che adora, ama il mondo del circo e i tatuaggi anche se ne ha solo uno e microscopico. Le piace raccontare ciò che c'e di bello nel mondo, ma anche ciò che è triste perché la vita non è “tutta rosa e fiori” come spesso la raccontano. Pensa fermamente che aveva ragione quel gran furbacchione di Henry Miller quando diceva “il cancro del tempo ci divora” e prima che il tempo la divori, ogni giorno lei si alza e si ricorda che vivere non è scontato.

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