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“Africo” nelle fotografie di Tino Petrelli
Maggio 4, 2019

“C’era una volta, sopra uno sperduto altipiano […] un povero paese di gente povera. Più che un paese era una borgatella, un piccolo agglomerato di casette nere disseminate senza simmetria su certi viottoli tortuosi ed erbosi sui quali s’aprivano piccole porte e buchi di finestre”. 

Maria Macrì Lucà, Ai margini del bosco, in “Vecchio mondo e vecchia gente”.

Nel paese di Africo il tempo scorre lentamente, gli unici suoni sono quelli della natura rigogliosa dell’Aspromonte: cicale, tintinnii di campanacci  e delle fronde degli alberi mosse dal vento. Il contado è collegato al paese da una mulattiera e la sensazione è di placida a-temporalità, perché, apparentemente tutto è immobile, se non fosse che l’edera inerpicata alla pietra grezza delle case, insinuandosi all’interno delle fessure, sgretola, di giorno in giorno, le tracce degli ultimi sopravvissuti edifici.

Era il 1951 quando un alluvione costrinse la popolazione di Africo a fuggire dal paese: la fine di un racconto, che inizia già molto tempo prima, all’inizio del Novecento, come testimoniano le parole di studiosi di incommensurabile grandezza come Corrado Alvaro prima, Corrado Stajano poi, fino a Gioacchino Criaco, con il suo recente Anime Nere.

Tino Petrelli, Africo,1948. ©Archivio Publifoto/Intesa San Paolo

Il paese di Africo è diventato l’emblema della disperazione, così come scriveva il giornalista Tommaso Besozzi nell’articolo Troppo strette le strade per aprire l’ombrello, pubblicato sulla rivista “L’Europeo” nel 1948. Articolo interessante, non solo perché documenta lo stato del paese in anni drammatici, ma soprattutto perché corredato dalle fotografie di Valentino Petrelli, meglio conosciuto come Tino.

Tino è un fotogiornalista, nato in provincia di Pordenone nel 1922 e trasferitosi a Milano nel 1937, dove inizia a lavorare per la famosa agenzia Publifoto di Vincenzo Carrese. Quello che fa Tino – a queste date – non deve essere dato per scontato, perché ritrarre la situazione reale del paese era impossibile durante gli anni del regime. L’unica immagine accettata era quella di propaganda, dove la tragedia non esisteva, men che meno la povertà, ma Tino animato da grande etica ha raccontato le ingiustizie che flagellavano un’Italia apparentemente sicura. Così Petrelli arriva ad Africo con la sua pesante attrezzatura da fotografo a dorso di un asino e lì trova una situazione che mai si sarebbe aspettato. I suoi occhi sono increduli, la sua anima devastata, ma nonostante questo scatta.

Africo è un paese isolato, la popolazione è povera, i soldi per il grano non ci sono, la farina è di lenticchie o di cicerchia, i medici sono un miraggio, la mortalità infantile molto alta e l’analfabetismo dilaga incontrastato. Le case sono fatiscenti, il terreno è fangoso, le donne tessono al telaio mentre i mariti sono intenti a lavorare nei campi o a guidare il gregge.

Tino Petrelli, Africo,1948. ©Archivio Publifoto/Intesa San Paolo

Nelle immagini di Tino vediamo la scuola elementare, con i «muri scrostati, vecchi banchi di legno, una carta geografica consunta e bracieri per scaldare i piedi nudi» degli scolari, che diligentemente scrivono sui loro quaderni. È proprio quel braciere ad attirare la mia attenzione: oggetto a me familiare, perché sopravvissuto nella mia memoria tramite i racconti di mia nonna e di mia zia, insegnanti elementari proprio in quegli anni. L’immagine è spietata, rappresenta la povertà in tutta la sua crudezza, ma qualcosa stupisce: il sorriso speranzoso sul volto della bambina che con il dito indice è immersa nella lettura del testo, mentre avvicina il piedino sul braciere.

Tino Petrelli, Africo,1948. ©Archivio Publifoto/Intesa San Paolo

Se ci addentriamo nelle case la situazione non migliora… anzi. Gli interni sono malsani, i muri cadenti, gli intonaci un miraggio, gli animali vagano liberamente nella stanza in cui la vita si svolge, gli abiti sono sporchi e consunti, i volti anneriti dalla terra e dalla fuliggine dei bracieri. Nelle immagini di Petrelli le condizioni miserevoli emergono con forza, il suo stile documentativo è diretto e attesta il modo di vivere di una popolazione dimenticata.

Come dice lo studioso Giovanni De Luna, le fotografie talvolta si trasformano in “agente di storia”, immagini che colpiscono in modo così profondo che talvolta riescono a modificare il corso della storia. Così fu per le foto di Petrelli, che fecero diventare Africo un caso nazionale, accelerando lo stanziamento di denaro pubblico per la costruzione di un nuovo paese sulla costa, all’indomani del grave diluvio del 1951.

Tino Petrelli, Africo,1948. ©Archivio Publifoto/Intesa San Paolo

La storia della Calabria alcune volte sembra essere stata dimentica, ma per fortuna, frammenti di storia riemergono dagli archivi dei grandi fotografi, narrandoci storie inaspettate.

Africo, un paradossale pezzo di archeologia contemporanea, è il ricordo di una storia tragica, che Tino Petrelli ha raccontato con dignità e rispetto, lasciando testimonianza di una storia che non deve essere dimenticata.


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Fotografia

Claudia Stritof
Claudia Stritof, calabrese dal cognome un po' strano. Pensa che la frase “ce lo caghi che sei un artista” tratta da "Le straordinarie avventure di Penthotal" di Pazienza sia geniale, eppure studia arte fin da piccola. Ama la fotografia, collabora con una galleria d'arte di Bologna che adora, ama il mondo del circo e i tatuaggi anche se ne ha solo uno e microscopico. Le piace raccontare ciò che c'e di bello nel mondo, ma anche ciò che è triste perché la vita non è “tutta rosa e fiori” come spesso la raccontano. Pensa fermamente che aveva ragione quel gran furbacchione di Henry Miller quando diceva “il cancro del tempo ci divora” e prima che il tempo la divori, ogni giorno lei si alza e si ricorda che vivere non è scontato.

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