Alcuni giorni il ricordo diventa un fardello pesante, come fosse il ticchettio incessante di un orologio che inesorabilmente ti ricorda lo scorrere del tempo, l’immanenza del futuro e l’impossibilità di cambiare il passato. Tutto ciò che accade nel presente diventa subito memoria. Una memoria personale che costruisce il tuo essere e forma il tuo carattere. Ma i ricordi sbiadiscono nel tempo — forse riaffioreranno come una sopravvivenza del passato in un momento inatteso — e forse le giornate uggiose servono proprio a questo: a far riemergere il ricordo.
Una volta, in un libro, ho letto una frase che diceva che non si deve pensare al ricordo come “qualcosa che non c’è più, che non si può avere”, ma occorre trasformare la nostalgia in positività.
I ricordi dolorosi temprano, ti fanno riflettere sul tuo vissuto, su ciò che non potrai più avere ma che può trasformarsi in ciò che sarà. Riflettere sulla propria strada, quella che si sta per intraprendere. Un vortice di emozioni tra passato e presente, che crea un paradosso temporale: potresti restare bloccato o scegliere invece di camminare verso il futuro, incontrando persone nuove con cui stare bene, oppure ritrovare legami del passato e riscoprirli sotto una luce nuova.

Il modo più intimo per poter vivere il ricordo, per me, è attraverso la fotografia.
Non ho mai apprezzato le foto sui mobili, quelle che raffigurano persone care che non ci sono più, ma si cambia — e questo l’ho fatto: la mia foto incorniciata l’ho riposta su quella mensola. Non so perché, ma è come se la persona fosse presente. È un modo per avere un contatto visivo, pur sapendo che si tratta solo di un’immagine del passato.
Nell’antica Grecia, si credeva che le statue dotate di occhi potessero vivere. Per questo Dedalo, architetto e scultore, per la prima volta nella storia delle effigi decise di aprire gli occhi delle statue e allargare gambe e mani, affinché potessero anche camminare e muoversi.
Si credeva che le statue fossero esseri animati, dotati di un’anima, capaci di amare, vendicarsi o esigere rispetto. È probabile che trasciniamo con noi queste credenze popolari legate alle immagini. Ci rassicurano, ci consolano. Immagini mute, a cui si parla, a cui si chiede aiuto. Immagini che ravvivano il ricordo, anche se quello autentico — lo sappiamo — è riposto nel nostro cuore.


Moira Ricci, artista italiana nata a Orbetello, questo lo sa bene. Nella serie “20.12.53 – 10.08.04” rivive il passato attraverso le immagini della madre scomparsa. Con il fotoritocco digitale, l’artista si inserisce in fotografie della madre, cercando di afferrare ciò che non ha potuto vivere direttamente. Perché la vita, a volte, è ingiusta e ti strappa ciò che hai di più caro. Così condivide attimi del passato, che tornano presenti solo grazie alla fotografia come strumento di memoria. Ma l’artista si presenta come ospite silenziosa: non può parlare con la madre, né toccarla. È un momento onirico, come nei sogni — un attimo sei lì, che parli, ascolti o dai la mano alla persona amata, e un attimo dopo non c’è più. Allora giù la testa sotto il piumone, sperando che il sogno riprenda da dove si era interrotto… ma raramente accade.
“Con la manipolazione digitale l’artista sopprime la distanza temporale e si volge al passato della madre e contemporaneamente al proprio presente e alle proprie origini”, un fluire di sensazioni che dal passato riemergono velando il presente di dolce tristezza. Un ricordo, un nome, un sogno, un amore che ti rende forte e ti fa assaporare il momento con tutta l’intensità dovuta, sapendo che forse quell’attimo non esisterà mai più.
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