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Gli anni ’90 e il movimento squatter nelle fotografie di Ash Thayer
25.06.2015

Nel 1999, Iggy Pop pubblica Avenue B, un album introspettivo, dalle sonorità più morbide e fluide rispetto alla sua turbolenta produzione precedente.
Prodotto da Don Was, il disco è un omaggio alla Manhattan dell’Alphabet City, una delle zone più vive e complesse della New York anni ’90, situata tra il Lower East Side e l’East Village.
Un quartiere che, in quel decennio, stava vivendo un’esplosione di fermento culturale, artistico e sociale. E Iggy Pop, in piena maturità artistica, non poteva scegliere titolo migliore.

Alphabet City: ribellione, convivenza e poesia urbana

Alla fine degli anni Novanta, passeggiare per Alphabet City non significava incontrare “randagi e perditempo” – come qualche stereotipo voleva – ma piuttosto immergersi in una comunità alternativa fatta di punk, grunge, studenti, anarchici e famiglie intere.
Tutti coesistevano nello stesso spazio urbano, senza etichette, senza giudizi, uniti spesso da un’unica necessità: trovare un tetto, e condividerlo.

Molte delle abitazioni occupate erano palazzi abbandonati, proprietà del Comune. Ed è proprio lì che nasce e si sviluppa il movimento degli squatter, una forma di resistenza urbana basata su occupazione, mutuo aiuto e riqualificazione dal basso.
In quegli edifici si viveva, si suonava, si dipingeva, si discuteva. Era un modo di restituire vita a luoghi dimenticati.

Kill City: Lower East Side Squatters 1992-2000. ©Ash Thayer

Oggi quell’anima si affievolisce… ma resiste

Oggi di quell’epoca resta solo un’eco.
Le storiche bettole dove è nata musica immortale sono sempre più rare, sostituite da cafè di design, ristoranti di tendenza, boutique alla moda.
Persino il punk, un tempo sinonimo di ribellione, è entrato nei musei: emblematica in questo senso è la mostra “PUNK: Chaos to Couture” ospitata nel 2013 dal Metropolitan Museum of Art.

Ma sotto la patina del rinnovamento, qualcosa continua a pulsare.
Le pareti del quartiere sono ancora coperte da murales colorati, gli orti urbani resistono, e la convivialità degli abitanti si nutre del ricordo e dell’orgoglio di chi ha vissuto gli anni intensi dell’occupazione.

“Kill City”: la testimonianza visiva di una generazione

A raccontare quel mondo scomparso (ma non del tutto estinto) arriva un libro fotografico potente e intimo: Kill City: Lower East Side Squatters 1992–2000, fotografie di Ash Thayer, pubblicato da powerHouse Books.

Ash, giovane studentessa d’arte originaria di Memphis, si trasferì a New York nei primi anni Novanta.
Nel 1992, dopo essere stata sfrattata dal suo appartamento di Brooklyn, trovò rifugio nel celebre C-Squat del Lower East Side.
Fu l’inizio di una nuova vita – e di una documentazione fotografica dall’interno, autentica e partecipe, mai voyeuristica.

La Thayer non era una semplice osservatrice. Viveva con gli squatters, condivideva il loro spazio e la loro visione del mondo.
Tra il 1992 e il 2000 scattò centinaia di fotografie: ritratti spontanei, scene di quotidianità, momenti di lotta e di amore. Uno spaccato umano, profondo e radicale, di un pezzo di città che oggi rischia di essere cancellato dalla memoria.

Da squatters a attivisti

Già dal 1995, però, iniziò una violenta campagna di sgomberi. Nel 1997, a seguito di un incendio, il sindaco Rudolph Giuliani fece murare l’ingresso di uno degli edifici, ignorando un ordine del tribunale che ne autorizzava l’accesso per recuperare gli averi.
Fu l’inizio della fine. Dei 35 edifici occupati inizialmente, solo pochi sono sopravvissuti. Alcuni si sono trasformati in cooperative, come ABC No Rio e lo stesso C-Squat, oggi ancora attivi.

Molti degli ex residenti sono diventati attivisti per i diritti umani e ambientali, vivono ancora in quegli spazi, spesso con le proprie famiglie.
Continuano a organizzare eventi, a mantenere viva la comunità, a coltivare orti, a proteggere la memoria e lo spirito originario del quartiere.

Il libro di Ash Thayer non è solo un documento visivo: è un atto d’amore e resistenza, una dichiarazione politica e poetica insieme.

All’ingresso del C-Squat, ancora oggi, campeggia una scritta:

“This land is ours.”

È il manifesto di un’intera generazione che ha lottato per riappropriarsi di un diritto fondamentale: quello alla casa, alla dignità, alla libertà di vivere secondo i propri ideali.

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Fotografia e Cinema  / Recensioni e Mostre  / Scaffale digitale

Claudia Stritof
Claudia Stritof, calabrese dal cognome un po' strano. Pensa che la frase “ce lo caghi che sei un artista” tratta da "Le straordinarie avventure di Penthotal" di Pazienza sia geniale, eppure studia arte fin da piccola. Ama la fotografia, collabora con una galleria d'arte di Bologna che adora, ama il mondo del circo e i tatuaggi anche se ne ha solo uno e microscopico. Le piace raccontare ciò che c'e di bello nel mondo, ma anche ciò che è triste perché la vita non è “tutta rosa e fiori” come spesso la raccontano. Pensa fermamente che aveva ragione quel gran furbacchione di Henry Miller quando diceva “il cancro del tempo ci divora” e prima che il tempo la divori, ogni giorno lei si alza e si ricorda che vivere non è scontato.

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3 Comments


Vanni
21.09.2015 at 18:49
Reply

Questo post è veramente interessante, non conoscevo questa storia e neanche la fotografa!
Brava, ciaociao



    Claud
    22.09.2015 at 15:15
    Reply

    Grazie mille Vanni, mi fa piacere condividere storie, come vedi dal blog vado un po’ a gusto personale, unendo storie di vita e fotografia. Grazie per aver letto l’articolo. A presto

      Vanni
      22.09.2015 at 17:02

      Grazie a tè, questa storia è molto particolare e unica, introvabile da altre parti, mi è piaciuta molto! a presto! 🙂

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