Nel 1999, Iggy Pop pubblica Avenue B, un album introspettivo, dalle sonorità più morbide e fluide rispetto alla sua turbolenta produzione precedente.
Prodotto da Don Was, il disco è un omaggio alla Manhattan dell’Alphabet City, una delle zone più vive e complesse della New York anni ’90, situata tra il Lower East Side e l’East Village.
Un quartiere che, in quel decennio, stava vivendo un’esplosione di fermento culturale, artistico e sociale. E Iggy Pop, in piena maturità artistica, non poteva scegliere titolo migliore.
Alphabet City: ribellione, convivenza e poesia urbana
Alla fine degli anni Novanta, passeggiare per Alphabet City non significava incontrare “randagi e perditempo” – come qualche stereotipo voleva – ma piuttosto immergersi in una comunità alternativa fatta di punk, grunge, studenti, anarchici e famiglie intere.
Tutti coesistevano nello stesso spazio urbano, senza etichette, senza giudizi, uniti spesso da un’unica necessità: trovare un tetto, e condividerlo.
Molte delle abitazioni occupate erano palazzi abbandonati, proprietà del Comune. Ed è proprio lì che nasce e si sviluppa il movimento degli squatter, una forma di resistenza urbana basata su occupazione, mutuo aiuto e riqualificazione dal basso.
In quegli edifici si viveva, si suonava, si dipingeva, si discuteva. Era un modo di restituire vita a luoghi dimenticati.

Kill City: Lower East Side Squatters 1992-2000. ©Ash Thayer
Oggi quell’anima si affievolisce… ma resiste
Oggi di quell’epoca resta solo un’eco.
Le storiche bettole dove è nata musica immortale sono sempre più rare, sostituite da cafè di design, ristoranti di tendenza, boutique alla moda.
Persino il punk, un tempo sinonimo di ribellione, è entrato nei musei: emblematica in questo senso è la mostra “PUNK: Chaos to Couture” ospitata nel 2013 dal Metropolitan Museum of Art.
Ma sotto la patina del rinnovamento, qualcosa continua a pulsare.
Le pareti del quartiere sono ancora coperte da murales colorati, gli orti urbani resistono, e la convivialità degli abitanti si nutre del ricordo e dell’orgoglio di chi ha vissuto gli anni intensi dell’occupazione.
“Kill City”: la testimonianza visiva di una generazione
A raccontare quel mondo scomparso (ma non del tutto estinto) arriva un libro fotografico potente e intimo: Kill City: Lower East Side Squatters 1992–2000, fotografie di Ash Thayer, pubblicato da powerHouse Books.
Ash, giovane studentessa d’arte originaria di Memphis, si trasferì a New York nei primi anni Novanta.
Nel 1992, dopo essere stata sfrattata dal suo appartamento di Brooklyn, trovò rifugio nel celebre C-Squat del Lower East Side.
Fu l’inizio di una nuova vita – e di una documentazione fotografica dall’interno, autentica e partecipe, mai voyeuristica.
La Thayer non era una semplice osservatrice. Viveva con gli squatters, condivideva il loro spazio e la loro visione del mondo.
Tra il 1992 e il 2000 scattò centinaia di fotografie: ritratti spontanei, scene di quotidianità, momenti di lotta e di amore. Uno spaccato umano, profondo e radicale, di un pezzo di città che oggi rischia di essere cancellato dalla memoria.
Da squatters a attivisti
Già dal 1995, però, iniziò una violenta campagna di sgomberi. Nel 1997, a seguito di un incendio, il sindaco Rudolph Giuliani fece murare l’ingresso di uno degli edifici, ignorando un ordine del tribunale che ne autorizzava l’accesso per recuperare gli averi.
Fu l’inizio della fine. Dei 35 edifici occupati inizialmente, solo pochi sono sopravvissuti. Alcuni si sono trasformati in cooperative, come ABC No Rio e lo stesso C-Squat, oggi ancora attivi.
Molti degli ex residenti sono diventati attivisti per i diritti umani e ambientali, vivono ancora in quegli spazi, spesso con le proprie famiglie.
Continuano a organizzare eventi, a mantenere viva la comunità, a coltivare orti, a proteggere la memoria e lo spirito originario del quartiere.
Il libro di Ash Thayer non è solo un documento visivo: è un atto d’amore e resistenza, una dichiarazione politica e poetica insieme.
All’ingresso del C-Squat, ancora oggi, campeggia una scritta:
“This land is ours.”
È il manifesto di un’intera generazione che ha lottato per riappropriarsi di un diritto fondamentale: quello alla casa, alla dignità, alla libertà di vivere secondo i propri ideali.
3 Comments
Questo post è veramente interessante, non conoscevo questa storia e neanche la fotografa!
Brava, ciaociao
Grazie mille Vanni, mi fa piacere condividere storie, come vedi dal blog vado un po’ a gusto personale, unendo storie di vita e fotografia. Grazie per aver letto l’articolo. A presto
Grazie a tè, questa storia è molto particolare e unica, introvabile da altre parti, mi è piaciuta molto! a presto! 🙂