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Il tempo per dirsi addio
30.08.2018

Quando si vivono momenti di tristezza non si riesce a controllare il proprio pensiero razionalmente, ma ci si sente bloccati, come se ci si trovasse a vagare in un girone dell’inferno senza una via d’uscita.
Capita che la mente si ritrovi come sotto un lento attacco ipocondriaco “da passato riemerso” e che presa alla sprovvista non sappia gestire la situazione.
Questi giorni sono stati densi, inaspettati e totalizzanti poiché mi sono trovata ancora una volta ad osservare il dolore nel volto delle persone che mi circondavano e condividerlo con loro.
I racconti ascoltati, le paure, l’angoscia e l’incertezza di chi rimane è familiare a chi ha già sperimentato il senso profondo della perdita… Eppure quando pensi di essere uscita indenne da certi pensieri e certi “ricordi tristi”, ecco che all’improvviso questi riemergono e ti ritrovi ad essere impaurita da tutto ciò che ti sta accanto.
La paura di perdere le persone che ami da un momento all’altro senza poter far nulla, la paura di star male, la paura di veder soffrire chi vuoi bene, la paura di un domani incerto e degli avvenimenti incontrollabili.
Esistono delle “recidive di dolore” che nascono dalla sofferenza altrui, ma questo è un dolore diverso rispetto a quello vissuto in prima persona. Non è la tristezza quotidiana, né quello intenso dell’ultimo bacio, ma è altro per forma e contenuto emotivo.
Un intreccio di malinconia e dispiacere unito alla paura delle sensazioni provate in passato e ora riecheggiate dalla nuova perdita. Freud lo chiamava il “ritorno del rimosso”: un ricordo riemerso da un oblio profondo, che con tanta fatica si è cercato di dimenticare ma che per un evento consimile è riemerso con tutta la sua carica perturbante.
Questo non si manifesta immediatamente, perché la voglia di stare accanto a chi vuoi bene prevale, ma qualcosa dentro di te si smuove e quando si rimane soli i pensieri iniziano a prendere forma nei meandri oscuri della mente.

In questi giorni mi sono chiesta più volte cosa sia il tempo…

Il “tempo quotidiano” che ti insegna pian piano a far pace con te stessa, quello del tragitto per arrivare sul luogo di lavoro, quello passato tra gli scaffali del supermercato.

Il “tempo lento” delle ore interminabili prima di un esame, del viaggio verso casa, della notte passata in ospedale al capezzale della persona a cui si vuole bene, e infine, il “tempo fulmineo” delle ore passate piacevolmente a chiacchierare, delle cene in famiglia o delle serate con gli amici.
Il tempo è vissuto sempre con soggettività, a tratti veloce, a tratti interminabile: è questo il vero paradosso, il suo essere sempre in eccesso o in difetto, quando ad essere messi in gioco sono sentimenti importanti della propria vita.

Più che il tempo “quotidiano” o il tempo “eterno”, mi piace pensare al tempo cairologico, al momento giusto, opportuno, quel momento che noi giudichiamo essere speciale per una qualche ragione.
Non un tempo quantitativo, come successione di istanti ed eventi, ma una qualità della vita e dei sentimenti che, in positivo o in negativo, rimangono dentro di sé andando a costituire la nostra vera essenza.
Proust, in quel gran capolavoro che è La recherche, scriveva: «troviamo di tutto nella nostra memoria: è una specie di farmacia, di laboratorio chimico, dove si mettono le mani a caso, ora su una droga calmante, ora su un veleno pericoloso», ed è esattamente così.
I nostri ricordi, nettare vitale dell’esistenza, quando riemergono possono far sorgere una moltitudine di sensazioni, dal sorriso sulle labbra alle lacrime negli occhi e, ahimè, in questi giorni sono riemerse le lacrime…

Mario. Un omino magro, con il cappello in testa e il papillon al collo. Un omino simpatico, che era anche un uomo grande e forte, anche se dal fisico gracile e mingherlino.
Silvana. Una signora d’altri tempi, sempre con i tacchetti, i capelli ben curati e i vestiti eleganti. Anche lei era gracilina, soprattutto in questo ultimo periodo. Erano entrambi due lottatori. Entrambi hanno vinto importanti battaglie ma soprattutto le hanno combattute. Due vite vissute pienamente. Due vite scomparse improvvisamente a poche ore di distanza l’una dall’altra.

Il tempo della trista mietitrice, in questo caso, è stato fulmineo, al contrario di quello da me vissuto tramite i ricordi negli ultimi giorni. Un tempo fatto dal ricordo delle ore trascorse insieme, di discorsi densi, di abbracci dati e di risate.

Dopo questo scritto, lento e ponderato, le paure aleggiano ancora su di me ma in forma più lieve… ciò che ho cercato di fare è cambiare il punto di vista, un pò come ci mostra Anselm Kiefer nel suo Sol Invictus. Certamente l’artista ci fa vedere la caducità della vita e la fragilità dell’esistenza, ma non per farci esperire la mera morte del corpo, ma la rinascita e la rigenerazione dell’uomo.
Il girasole, con il suo capo reclinato in maestoso silenzio sul corpo celebra l’ultimo triste commiato alla transitorietà e sottrae l’uomo – così come allo stesso modo fanno i nostri ricordi – all’ineluttabile passare del tempo sublimandolo eternamente all’ordine universale.
«Il tempo è troppo lento per coloro che aspettano, troppo rapido per coloro che temono, troppo lungo per coloro che soffrono, troppo breve per coloro che gioiscono, ma per coloro che amano il tempo è eternità», non ricordo dove ho letto questa frase, causa la mia passione sfrenata per i post-it, ma il succo è questo, quello che si dovrebbe fare è solo amare il proprio tempo perché altro non significa che vivere la propria vita intensamente e liberamente, assaporandone la vera essenza circondandoci delle persone a noi care.

***

Anselm Kiefer, Sol Invictus, 1995.

***

Testo e vita di ©Claudia Stritof
Immagine di copertina @Anselm Kiefer, The Orders of the Night, 1996.

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Life in Progress

Claudia Stritof
Claudia Stritof, calabrese dal cognome un po' strano. Pensa che la frase “ce lo caghi che sei un artista” tratta da "Le straordinarie avventure di Penthotal" di Pazienza sia geniale, eppure studia arte fin da piccola. Ama la fotografia, collabora con una galleria d'arte di Bologna che adora, ama il mondo del circo e i tatuaggi anche se ne ha solo uno e microscopico. Le piace raccontare ciò che c'e di bello nel mondo, ma anche ciò che è triste perché la vita non è “tutta rosa e fiori” come spesso la raccontano. Pensa fermamente che aveva ragione quel gran furbacchione di Henry Miller quando diceva “il cancro del tempo ci divora” e prima che il tempo la divori, ogni giorno lei si alza e si ricorda che vivere non è scontato.

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