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La ricetta che non esiste

17.09.2025

«Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». 

Oggi sono andata a fare delle analisi in un laboratorio privato e, tra le altre, ho chiesto anche l’esame per conoscere il mio gruppo sanguigno. Sembrerà strano, ma non lo ricordo.

L’infermiera, guardando il tipo di prelievo, mi ha chiesto:

«Signorina ma lei è giovane… come mai fa l’esame per il gruppo sanguigno? Non può chiederlo a casa?»

La mia risposta è stata semplice, come sempre:

«No, signora. Purtroppo non ho più nessuno a cui chiederlo. E io l’ho dimenticato». 

Segue inevitabilmente il racconto della mia storia triste alla signora simpatica.

Tra un discorso e l’altro, la signora mi consiglia per il futuro anche la mappatura genetica. Per la mia ipocondria, significa un pensiero in più e un altro budget da progettare.

Dopo circa quindici minuti di conversazioni intense – quelle che capitano tra chi non ha paura di parlare di dolore – lei mi dice:

«So che è difficile, ma deve pensare al suo futuro, e che sia senza sofferenza».

Quelle parole mi hanno toccata. Dopo aver visto le sofferenze di chi ho amato e averle respirate accanto a loro, so bene cosa voglio. Lo so per me stessa, e anche per chi mi sta accanto. Chi affronta la sofferenza estrema si aggrappa con le unghie per uscirne, come chi varca una caverna inesplorata, senza sapere se alla fine troverà vita o morte. Io invece so cosa voglio: chiarezza, dignità, scelta.

Sono passati undici anni da quando quel mostro famelico si è portato via Mari, due anni da quando mia madre, dopo un cammino di dolori inimmaginabili, è stata divorata da più mali, senza mai lasciarsi piegare. Altri ancora da quando papà se n’è andato.

 Alla soglia dei miei trentotto anni, posso dire di aver raggiunto delle consapevolezze. O meglio: le sto consolidando.

Voglio la vita che merito. Non assecondo più chi ha un ego smisurato, non permetto a nessuno di mettermi i piedi in testa. Troppo spesso la mia educazione – nutrita persino dalla lettura periodica del Galateo – è stata scambiata per debolezza.

Non amo i litigi, non urlo, penso prima di parlare. Non voglio sopraffare nessuno, credo nella trasparenza dei gesti, delle parole, dell’essere. Tutto questo era già in me da bambina, ma oggi prende forma concreta. Rispetto e ascolto i problemi degli altri (anche se ogni tanto la mente vaga, dopotutto sono sempre dei Pesci), ma non sopporto il vittimismo.

Mamma ci ha insegnato: vai avanti a testa alta. È quello che provo a trasmettere anche ai miei alunni. Non nascondo loro le mie sofferenze se mi viene richiesto, ma ho imparato a parlarne con dignità. E spesso da quelle parole nascono confronti profondi, che sedimentano in alcuni di loro.

Quest’estate, durante l’Ypsigrock, ho ricevuto un messaggio da una mia ex alunna.

Mi ha scritto che, nel momento più difficile della sua vita, ha ritrovato il mio blog e le parole che avevo condiviso sul dolore per la perdita di mia sorella l’hanno fatta sentire capita, anche senza parlarmi direttamente, e che le sono state di sostegno quando non riusciva a spiegare a nessuno ciò che stava vivendo.

Avrei voluto abbracciarla subito, ma per rispondere a un messaggio così intenso serve tempo, per lei e per me. Le ferite del dolore non si rimarginano mai del tutto, e in un certo senso questo scritto è la mia risposta al suo messaggio e alle riflessioni che ha fatto germogliare in me in questo mese.

Ogni anno, da undici anni, il 13 settembre – giorno del compleanno di Mari – scrivo di lei e di me. Forse è stato il mio modo di liberarmi, di non far soffocare il dolore. Forse è stato un modo per accompagnare altri, come la mia alunna, che cercano di capire come “affrontarlo”. Non c’è una ricetta. Ognuno ha il suo percorso. Ma io, in questi anni, ho condiviso molto di quel mondo dei “sopravvissuti”. E oggi so che non voglio esserlo. Non voglio essere una sopravvissuta.

Voglio un equilibrio che metta al primo posto me stessa, la mia quotidianità, gli amici, l’amore per la vita. Anche se, a volte, il pensiero del “futuro” mi assale, so che il mio lavoro sarà vivere accettando la presenza di quel pensiero senza farmi paralizzare.

Non credo che il compito sia spiegare il dolore, ma condividerlo, perché solo così resta vivo ciò che di umano abita in noi. Condividerlo con leggerezza, ed è la stessa cosa che cerco di donare ai miei alunni e che mi permette, ancora oggi, di giocare con la vita; dopo tutto l’asfalto per me è sempre come lava incandescente e l’unica salvezza è saltare sulle strisce pedonali, in poche parole, resta sempre uno spazio per la meraviglia in questa vita.

Con un abbraccio fortissimo dedico questo scritto alla mia alunna e a te, mia dolce sister, nel giorno del tuo compleanno,e a voi, che mi avete insegnato tanto sull’amore e sulla bellezza del mondo. Vi lascio con due parole: «Pathei mathos».

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Life in Progress

Claudia Stritof
Claudia Stritof, calabrese dal cognome un po' strano. Pensa che la frase “ce lo caghi che sei un artista” tratta da "Le straordinarie avventure di Penthotal" di Pazienza sia geniale, eppure studia arte fin da piccola. Ama la fotografia, collabora con una galleria d'arte di Bologna che adora, ama il mondo del circo e i tatuaggi anche se ne ha solo uno e microscopico. Le piace raccontare ciò che c'e di bello nel mondo, ma anche ciò che è triste perché la vita non è “tutta rosa e fiori” come spesso la raccontano. Pensa fermamente che aveva ragione quel gran furbacchione di Henry Miller quando diceva “il cancro del tempo ci divora” e prima che il tempo la divori, ogni giorno lei si alza e si ricorda che vivere non è scontato.

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