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Speciale Arte Fiera. La poesia negli scatti di Mustafa Sabbagh.
08.02.2016

Mustafa Sabbagh è nato ad Amman in Giordana, da madre italiana e padre palestinese, crescendo tra l’Europa e il Medio Oriente, il che gli ha permesso di realizzare un percorso lavorativo e artistico di tutto rispetto: laureato in architettura a Venezia, decide di trasferirsi a Londra, dove diventa assistente di Richard Avedon e contemporaneamente insegna presso la storica Central Saint Martins College of Art and Design. Torna in Italia, questa volta a Ferrara e collabora con le più importanti riviste di moda, ma “insofferente ad un appiattimento al modello fotografico della moda mainstream” decide dal 2005 di dedicarsi all’arte contemporanea “ricreando una sorta di contro-canone estetico al cui interno il punctum è la pelle – come diario dell’unicità dell’individuo”.

Le sue opere sono complessi tableau vivant che subito denunciano le approfondite conoscenze intellettuali del fotografo, non solo in merito alla storia del costume e della moda ma di storia dell’arte tout court, da quella fiamminga – dalla quale ha appreso l’amore per i dettagli e per la luce finemente utilizzata nelle sue composizioni nero su nero – a quella italiana, abbracciando un arco temporale che dal Cinquecento arriva fino ai giorni nostri, con sapienti rimandi anche al cinema, alla musica e alla letteratura.

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery ©Mustafa Sabbagh

Sabbagh introietta questa variegata conoscenza e allo stesso tempo la trascende, creando delle opere di grande compostezza classica, ma che denunciano tutta la contemporaneità stilistica ed estetica, che scardina stereotipi e canoni imposti dalla società. Le sue donne e i suoi uomini sono senza tempo, androgeni travolgenti che spesso catturano lo spettatore per la loro affascinante presenza ma che contemporaneamente lo terrorizzano, facendo dei contrasti e delle dissonanze un punto di forza della sua poetica, perché come ha più volte affermato il fotografo la vera bellezza, non deve essere rassicurante ma “ferisce”.

Mustafa Sabbagh è un poeta dell’immagine, dalla linea sinuosa e mai aggressiva, il quale progetta i suoi set minuziosamente, ammantando i suoi soggetti di una sacralità atemporale e facendoli piombare in un’eterna armonia cosmica in cui ad emergere è la “multidimensionalità del nero, la sovversione di codici di abito e di genere”, l’autenticità dell’individuo e la profondità dell’essere, “umanamente sacra, religiosamente profana”.

Subito si riconosce l’iconografia ben codificata di quella che potrebbe sembrare una Madonna con il Cristo morto sulle gambe, ma ecco che subito un particolare rimanda ad un’altra cultura e ad altre influenze, un copricapo dalle forme definite che farebbe pensare a provenienze asiatiche, un volto con una maschera antigas ma che ad osservarlo bene richiama gli occhi di un ape, oppure raffinati costumi cinquecenteschi con forme geometriche, pizzi e merletti sovrapposti, corsetti e gorgiere voluminose in tessuto, esclusivamente nere.

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery ©Mustafa Sabbagh

“Più che il lato nascosto, ciò che mi propongo di catturare è il lato più profondo, le inclinazioni più vere, la naturale essenza dell’uomo, libera dagli impedimenti e dagli stereotipi – che sono il contrario della verità. E la fotografia è il mezzo più veloce e democratico per arrivare alla mia verità. Certo, non sempre ci riesco. Certo, la varietà umana non si può contenere in uno scatto”. M. Sabbagh

Articolo di Claudia Stritof pubblicato su The Mammoth’s Reflex (3 febbraio 2016).

***

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

Mustafa Sabbagh, Courtesy Traffic Gallery

Sabbagh, Risen from the Dead, 40x50, Courtesy Traffic Gallery

Sabbagh, Risen from the Dead, 40×50, Courtesy Traffic Gallery

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Eventi  / Fotografia e Cinema  / Press - Collaborazioni di Cult Mag  / Sguardi d'Autore

Claudia Stritof
Claudia Stritof, calabrese dal cognome un po' strano. Pensa che la frase “ce lo caghi che sei un artista” tratta da "Le straordinarie avventure di Penthotal" di Pazienza sia geniale, eppure studia arte fin da piccola. Ama la fotografia, collabora con una galleria d'arte di Bologna che adora, ama il mondo del circo e i tatuaggi anche se ne ha solo uno e microscopico. Le piace raccontare ciò che c'e di bello nel mondo, ma anche ciò che è triste perché la vita non è “tutta rosa e fiori” come spesso la raccontano. Pensa fermamente che aveva ragione quel gran furbacchione di Henry Miller quando diceva “il cancro del tempo ci divora” e prima che il tempo la divori, ogni giorno lei si alza e si ricorda che vivere non è scontato.

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