La riscoperta inaspettata: "Gejusa siti la cchjù beja".
12.05.2015
“Gejusanèja mia, Gejusanèja, di la Gejusa siti la cchjù beja. Pe’ li bejzzi e lu garbu ch’aviti, di la Calabria la cchjù beja siti. Pemmu lu dicu forsi non su’ degnu, vu’ siti la cchjù beja di lu Regnu. E pemmu vi lu dicu chjaru e tundu, vu’ siti la cchjù beja di lu mundu”.
Questi versi sono dedicati a una bella “gioiosana”, una ragazza di Gioiosa Ionica, piccolo paese della Locride, in provincia di Reggio Calabria.
Visivamente, Gioiosa ricorda un presepe: le casine arroccate brillano di una bellezza antica, e se le si guarda con attenzione, sembrano risplendere del loro passato. Un passato che si è stratificato nel tempo, nascosto sotto gli strati d’intonaco, tra i manifesti mortuari incollati ai muri come graffiti urbani, moderni geroglifici scolpiti sulla pietra.
Non voglio raccontarvi la storia ufficiale del paese: fior fiori di studiosi se ne sono già occupati con rigore. Preferisco condividere con voi le sensazioni che mi ha regalato una visita inaspettata, durante un pomeriggio “diverso”.
Il paese è ben curato, anche se ogni tanto una busta svolazzante tra i vicoli gli dona quell’aria da borghetto appartato, come sospeso nel tempo.
Si scorge un anziano che cammina con le mani dietro la schiena, e che saluta con un lieve cenno del capo. Una donna esce con la busta della spesa, e una bambina, spalancando di colpo l’uscio, urla un “ciao” sincero. Intanto, il suono dei martelli degli operai echeggia tra le viuzze, come ritmo di sottofondo.
Durante la passeggiata, ho visitato il Centro Recosol, per ammirare il murales di Emilio Fameli che colora una parete esterna della struttura come un arcobaleno urbano, portando luce e stupore nella via.
Poi, a Palazzo Amaduri, ho chiesto una cartina del paese. Siamo stati accolti con gentilezza autentica da chi ci lavora, e da un signore di cui – purtroppo – non ricordo il nome, che si è subito attivato per procurarci mappe e dépliant. Non ultimo, l’allora sindaco, Salvatore Fuda, che ci ha raccontato aneddoti storici e si è proposto, con disponibilità rara, di accompagnarci per una breve visita guidata, indicandoci i punti nevralgici da esplorare con calma.
Arrivati al castello, io e Giuseppe, amico e instancabile amante della Calabria, abbiamo percorso una stradina che ci ha portato alla chiesa Matrice. Bellissima, con i mattoni a vista, e profilata da lucine da festa, alcune accese, altre no. Un’immagine quasi teatrale, intrisa di fascino d’altri tempi.
Nella discesa verso il centro, si aprono scorci suggestivi: vie strette, case abbandonate, portoni scardinati, catene artigianali a chiudere l’ingresso. Ma ovunque, verde rigoglioso e fiori vivaci che sbocciano come in una serra spontanea.
Accanto alle piccole abitazioni, sorgono grandi palazzi nobiliari: segni del passato benestante delle famiglie gioiosane, oggi spesso feriti dal tempo, ma ancora nobili nella memoria.
Girovagando, siamo finiti in un giardino recintato con due busti di uomini armati di elmo. Spinti dalla curiosità, abbiamo sbirciato all’interno: vegetazione incolta, cespugli di asparagi, una scaletta e un alto albero centrale che veglia silenzioso.
E ancora portali scolpiti, mascheroni mefistofelici, putti consumati dal vento e dal tempo.
Il meteo non è stato clemente. Dopo aver visitato la chiesa di San Rocco, ha iniziato a piovere. Siamo riusciti a gettare uno sguardo alla vicina Chiesa di S. Pietro e Paolo, oggi rudere invaso dai rovi, di cui restano solo la facciata e forse le mura.
Poi, una delle tappe più affascinanti: Palazzo Ajossa. Due le leggende: una sul possibile architetto, Luigi Vanvitelli; l’altra sulla principessa che vi abitava, la quale si racconta assistesse alle funzioni religiose affacciandosi dal balcone del salone, prospiciente la Chiesa rotonda di San Nicola di Bari.
Questa è una Calabria sconosciuta ai più, eppure ricchissima di fascino. Una Calabria misteriosa, gentile, autentica, fatta di sguardi lenti, parole accennate, e una memoria collettiva che ancora vibra nei muri e nei passi.
Ma questa è solo la mia visione. Una visione innamorata. Una visione che a tratti mi ha fatto desiderare di restare per sempre, e altre volte di non tornare più.
Gioiosa è stata una riscoperta assoluta. Forse perché prima non l’avevo davvero osservata. Forse perché a volte dimentichiamo di amare ciò che ci appartiene. È stato come vederla con occhi nuovi, cercando i segni della sua storia, le tracce delle sue tradizioni, e le radici di chi siamo.
Claudia Stritof
Claudia Stritof, calabrese dal cognome un po' strano. Pensa che la frase “ce lo caghi che sei un artista” tratta da "Le straordinarie avventure di Penthotal" di Pazienza sia geniale, eppure studia arte fin da piccola. Ama la fotografia, collabora con una galleria d'arte di Bologna che adora, ama il mondo del circo e i tatuaggi anche se ne ha solo uno e microscopico. Le piace raccontare ciò che c'e di bello nel mondo, ma anche ciò che è triste perché la vita non è “tutta rosa e fiori” come spesso la raccontano. Pensa fermamente che aveva ragione quel gran furbacchione di Henry Miller quando diceva “il cancro del tempo ci divora” e prima che il tempo la divori, ogni giorno lei si alza e si ricorda che vivere non è scontato.
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